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Quasi un Decamerone: Cento racconti
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Quasi un Decamerone: Cento racconti

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100 racconti per viaggiare nel mondo antico e moderno

QUASI UN DECAMERONE trae i suoi spunti dalla memoria         di storie, intrighi e avventure del mondo antico e moderno. I molteplici aspetti della vita, dai più semplici ai più complessi, vibrano in questi racconti, mirabilmente tessuti in anni di lavoro lento e paziente.
Alla varietà dei temi fa da contrappeso la compattezza dei singoli racconti, simili a blocchi di diversa grandezza, scolpiti, con uguale cura, esternamente e internamente. Le vicende, che pur sempre attanagliano i personaggi in una morsa, raramente riescono a sopraffarli: vi è nei loro occhi una luminosità forte e cosciente, nel loro respiro una voglia tenace di vivere, nel loro reagire un guizzo ribelle e mai domo, con i quali essi chiaramente dicono che sono vivi, e lotteranno fino all’ultimo.
Da alcuni racconti si possono ricavare sceneggiature per film.
 
LanguageItaliano
PublisherLeon Marchi
Release dateMay 16, 2018
ISBN9788828324751
Quasi un Decamerone: Cento racconti

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    Quasi un Decamerone - Leon Marchi

    iStock.com/Bobliack)

    NUDO, COME UN CRETINO

    Discreto, allegro, asciutto nel fisico e nel modo di fare, intendendosi di tutto e industriandosi su tutto, mai perdendosi d’animo e buttandosi nelle faccende con caparbietà e coraggio, Federico da un po’ non si vedeva in giro, impegnato con tutte le forze a rendere produttivo il pezzo di terra (che gli era costato 3/4 dei risparmi), confinante con la propria casetta, accanto alla quale, per mancanza di spazio, aveva potuto costruire soltanto la legnaia e la cuccia per Amico . Il Paradiso (così aveva chiamato la nuova proprietà, con l’intento di cancellare le pene dell’inferno e del purgatorio patite per mettere da parte la cifra pretesa da quel vecchio usuraio, che più volte glie l’aveva spudoratamente maggiorata), oltre ad offrirgli spazio a sufficienza per l’orto e una serra, gli consentiva di realizzare il tanto desiderato ripostiglio-officina e il barbecue in mattoni e pietra.

    In quei mesi di fatica e sudore, comparendo ogni dieci giorni per acquistare le provviste, alle donne dedicò uno sguardo distratto, filando dritto per la propria strada, avendo mille pensieri per la testa e neanche un istante da perdere. Il giorno che decise di meritare un po’ di riposo, essendo scapolo e in ottima salute, capì subito da che derivava l’inquietudine serpeggiante nel suo essere, solitamente calmo: aveva desiderio di una donna. Con meraviglia, notò che due se lo mangiavano chiaramente con gli occhi, mentre un’altra… A quelle due (che, gira e rigira, miravano al matrimonio, al quale egli ancora non voleva pensare) preferì la terza, che, facendogli l'occhietto, gli inviava il proprio messaggio, intenso ma accorto.

    S’incontrarono presso il ponticello. E là Jole disse subito che, essendo sposata, non dovevano farsi vedere insieme. Federico propose di andare nel bosco: a un suo cenno, lui sarebbe andato avanti, aspettandola poi al ponticello. «Non oggi: posso due volte la settimana… giovedì e un altro giorno… ti dico io quando,» lo informò, salutandolo e lasciandolo lì. Guardandola da dietro, ammise che era na bea gnocca (una bella donna ).

    Le cose filavano a meraviglia: perché Jole due volte la settimana gli si concedeva con passione; perché Federico, amante dolce e ardente, dimostrando di valere mille volte più di quell’ubriacone del marito, la assolveva dall’accusa di tradimento mossale a volte dalla coscienza. Lei gli era grata perché aveva trasformato il luogo dei loro incontri in rifugio accogliente, protetto da ogni lato e pavimentato con legna raccolta nel bosco; lui le era grato perché, nel farlo sentire uomo, lo aiutava a essere delicato e attento, a non mancarle di rispetto, o a commettere qualcosa che potesse causarle disagio e preoccupazione, essendo un’anima buona e trasparente, colpita dalla vita in modo duro. Erano insieme da tre mesi, e, ogni volta che si rivedevano, avevano l’impressione che fosse la prima.

    Quel giorno, la buona sorte aveva concesso loro una possibilità inaspettata. Quel giorno Federico aveva terminato prima del tempo un lavoro, e passava davanti alla casa di Jole, mai immaginando che lei, uscita sulla porta, potesse sussurrargli: «Adesso, al ponticello…». Dimenticata di colpo la pipì, che non vedeva l’ora di espellere appena arrivato a casa, si avviò verso il ponticello. Superato il quale, il bisogno di liberarsi dalla pipì divenne impellente, al punto che, non trattenendola più, alquanto imbarazzato per la situazione, ostregheta ! (càspita, perbacco!) le disse di andare avanti perché doveva fare una cosa; e, desiderando lei sapere che cosa, spazientito, le disse: «Vai avanti, ostregheta ! è una cosa…», non spiegando che cosa fosse.

    Vederlo allontanarsi e appartarsi misteriosamente dietro un cespuglio, in Jole, oltre al malumore derivante dall’essere lasciata sola, si aggiunse la paura che quel posto incuteva, dove anche il più lieve rumore la faceva sobbalzare. La cosa che lui doveva fare, di cui si era ostinato a non darle alcuna spiegazione, a mano a mano che si allontanava, come lui perentoriamente le aveva ordinato, assunse, a ogni battito del cuore, forme e significati sempre meno rassicuranti, che, suggestionata dal luogo, la portarono a temere il peggio.

    Sarebbero bastate poche parole, una battuta, che li avrebbe fatti ri­dere insieme, e la bomba non sarebbe esplosa, rifletté poi Federico, quando ormai tutto era andato a ramengo: in rovina, in malora. Cavolo! per una stupidaggine, Jole aveva rotto con lui, che troppo tardi si affannava a spiegarle i motivi veri di quel suo misterioso allontanarsi e appartarsi, e di quel suo ridere forte, con­vulso. Cavolo! proprio quel giorno, a pranzo, aveva mangiato i broccoli, per i quali an­dava matto. Se avesse soltanto immaginato che Jole le avrebbe sussurrato: «Adesso, al ponticello…», non li avrebbe mangiati, ben sapendo che quell’ortaggio lo mandava al bagno, a fare la pipì, più volte, anche a distanza di dieci, venti minuti. Quando le cose vanno storte, non c’è niente, proprio niente che possa rimetterle sul binario giusto, ostregheta ! Sì, le aveva detto di an­dare avanti perché doveva fare una cosa e, con la fretta di farla, non si era fer­mato a spiegarle che cosa fosse; ma ciò che la mandò in bestia fu quel suo ri­dere, non tanto la prima volta, quanto la seconda.

    Per capire, occorre ricostruire i fatti, partendo dall’inizio. Dunque, mentre Jole si allontanava lentamente in una direzione, Federico velocemente si allonta­nava verso la parte opposta; fermatosi poi sul ciglio del viottolo, finalmente indi­rizzò giù lo zampillo caldo. Subito non sfuggì al suo udito allenato che la pipì, ca­dendo, produceva un rumore diverso da quello delle altre volte che aveva fatto la pipì nella boscaglia. Guardò giù: la pipì era andata addosso a due che facevano all’amore là sotto. L’uomo, là in basso, scotendo la testa, rivolse lo sguardo in alto; la donna, restando distesa, mormorò qualcosa; tuttavia, poiché stavano met­tendo le corna all’inconsapevole marito e all’inconsapevole moglie, filosofica­mente (lui soprattutto, la cui testa era stata centrata dallo zampillo) se ne restarono lì buoni buoni, sia per mantenere ignota la loro identità di fedifraghi sia perché era dav­vero un peccato interrompere l’atto così ben avviato. Si allontanò Federico, dispiaciuto di quanto era accaduto, immaginando per un momento di es­sere al loro posto; ma, non essendo al loro posto, rivedendo la scena e trovandola co­mica, non riuscendo a trattenersi, scoppiò a ridere, a ridere forte, ostrega ! E, ri­dendo, raggiunse Jole; la quale, fuori dalla grazia di Dio, gli fece subito ca­pire che c’era poco da ridere, tanto da ricacciargli dentro il riso. Questo, tuttavia, anni­dato in gola, gli uscì improvvisamente poi, nel momento più inoppor­tuno: nel bel mezzo dell’atto, nel momento in cui Jole, prossima al coito, lo inci­tava a proseguire con quel ritmo, che era quello giusto, quello che la faceva impaz­zire di piacere. Rise anche lei; ma si arrabbiò poi, quando, sollecitato a smetterla, non ci fu verso: egli continuò, non riuscendo più a combinare un ostrega e rovi­nando irrimediabilmente l’atto.

    Jole, adesso, seduta, lo guardava, indecisa sul da farsi; poi, alzatasi, non trattenen­dosi più, scaricò quanto il comportamento strano di Federico, al­lontanatosi perché doveva fare una cosa, gli aveva fatto pensare: Si era allontanato, si era allontanato per… Era un drogato… un cretino, imbecille, che si metteva a fare quelle cose!. Vestendosi, continuava a guardarlo, in silenzio, mentre lui, ancora di­steso, di tanto in tanto rideva; indossate le scarpe, gli chiese: «Prima ti sei allontanato, per fare… che cosa?». Federico, sedutosi sul giaciglio, allungando la mano verso la sua, intenzionato a raccontarle tutto, disse: «È tutta colpa…»; ma non riuscì ad an­dare oltre: scoppiò a ridere, a ridere. «Ma vai in malora, porco d’un can!» le disse lei, andando via di corsa, e lasciandolo lì nudo, come un cretino, a mormorare tra sé, nell’intervallo tra uno scoppio di risa e l’altro: «È tutta colpa…».

    Uscendo alla fine, e inviando fuori dal rifugio l’abbondante pipì raccoltasi nella vescica, decise di raccontare tutto a Jole per iscritto (non a voce, perché non sarebbe riuscito a rimanere serio), sperando che anche lei ci avrebbe riso sopra.

    BEATA ESSA!

    Ad Ada C..., ora alla soglia dei ventiquattro anni, la sorte capricciosa aveva portato via il consorte la prima notte di nozze, nel momento in cui Ninuzzo s’infilava sotto le lenzuola: il cuore, debole nel suo petto gracilino, distendendosi egli nell’odore di lavanda, di colpo si era azzittito, stremato dal pazzo rintoccare e cozzare in quel ristretto spazio. Causa del suo andarsene fu la visione apparsagli davanti agli occhi, la quale, come si usa dire, avrebbe fatto resuscitare un morto: il corpo meravigliosamente scolpito della sposina, denudato da mani senza vergogna, ubbidienti al lecito desiderio, anziché il paradiso terreno, essendo egli persona morigerata, gli offrì il paradiso celeste.

    Due anni erano trascorsi, durante i quali la giovane, chiusa in sé, si era mostrata indifferente allo scorrere della vita, nonostante il sangue continuasse a trotterellare nelle sue vene, ogni istante sperando che essa finalmente potesse uscire da quella gabbia.

    La madre e la nonna paterna, divenute vedove quando da poco avevano superato i quaranta, essendo, secondo il giudizio dei loro tempi, in là con gli anni, non avevano pensato a risposarsi. Ma, essendo i tempi diventati più giudiziosi e, soprattutto, essendo Ada ancora un fiore di donna che era un peccato lasciare appassire così, entrambe, ora l’una ora l’altra, con garbo, senza ferirla, tentarono in ogni modo di strapparla al ricordo di quella indimenticabile notte. Alla fine, dovettero desistere, iniziando esse stesse a intristirsi.

    Come insegnano i saggi, occorre tempo nelle cose: col risultato che ciò che non è avvenuto in due anni grazie all’intervento di due donne assennate, avviene all’improvviso per qualcosa contenuta nell’aria. Un mattino, agli inizi di maggio, infatti, Ada, alzatasi, spalancò le imposte e guardò davanti a sé, riscoprendo il mondo cancellato, che invece, vivo e palpitante, la chiamava a sé con le sue mille voci, con le sue mille anime. Primo segno del suo risveglio fu, davanti allo specchio, quel toccarsi, con un brivido nei polpastrelli, il volto e il collo; quel togliersi, con improvvisa furia, il baby-dol e gettarlo sul letto; poi, denudatasi fino ai fianchi, quel percorrere con le dita rapaci ogni tratto di pelle, e quel posarle sul seno alto e sodo, in attesa di essere ghermito. Mosse, infine, un passo in direzione dell’armadio; ma, scosso più volte il capo a destra e a sinistra, opponendosi in tal modo al pensiero fortemente tentatore, si rivestì a lutto e, segnatasi, volgendo un rapido sguardo verso il quadro della Madonna al centro sulla spalliera del letto, uscì.

    La madre e la nonna materna, nel vederla, si scambiarono un’occhiata, che voleva dire: "Vi è qualcosa di nuovo in lei, questa mattina".

    Ada, nello svolgere le consuete mansioni, tanto era lontana mentalmente dal luogo in cui era, tanto lontana, da non udire il fischio del fratello; il quale, ogni mattina, andando con la falciatrice, così ne richiamava l’attenzione, salutandola poi con la mano. Non appena le mani e le braccia ebbero portate a compimento le faccende più urgenti, il suo corpo, leggero come piuma, si lasciò sospingere verso la parte di cui essa, in quanto essere umano, era composta, in grado, per natura, di staccarsi e di andare, a piacimento, dappertutto: il pensiero, il sentire.

    Ora che la sua persona si era ricomposta, Ada avvertiva di essere parte integrante della natura, di cui percepiva il respiro, il battito: attorno a sé e dentro di sé. Tutto l’attraeva: i campi, gli insetti, gli uccelli, i rumori; e là… là, dietro la siepe, ragli acuti, che penetravano l’aria e lanciavano il loro caloroso richiamo.

    Al di là, in un recinto, accanto a una casupola, nel tratto in cui la siepe era interrotta da un viottolo, essa guardò e vide. Pur vivendo in campagna, mai le era capitato di assistere a una scena come quella che stava svolgendosi davanti ai suoi occhi e, soprattutto, mai con lo stato d’animo di adesso. Le era capitato di vedere pennuti o gatti o cani nell’atto dell’accoppiamento, libera da curiosità e da turbamento; i quali adesso, invece, serpeggianti dentro di lei, la spingevano a spiare, con bramosia, da dietro un muro della casupola.

    La somara poggiava la testa a un palo della staccionata, quando il somaro si drizzava sulle zampe anteriori. Uno, due, tre tentativi andati a vuoto, per palese inesperienza del giovane esemplare, ben dotato, come si poteva constatare, ma carente nella mira.

    La postazione eccellente consentiva ad Ada, lì, a pochi metri, di scrutare negli occhi del poveretto, il cui membro ogni volta, nell’impatto delle zampe anteriori sul terreno, sembrava dovesse spezzarsi per il contraccolpo. Già al secondo tentativo, era uscita fuori da dietro lo spigolo, intendendo correggerne la mira con gesti muti, che volevano dire: «Più a destra, più a sinistra, più su, più giù!».

    Al quarto tentativo, il quadrupede, anziché riprovare, corse all’altra estremità del recinto, sostandovi immobile. Ada, guardando la somara e scotendo la testa, un istante ripensò al dolore e alla delusione provati quella notte: un istante soltanto, perché, levando i pugni in direzione del somaro, col pensiero lo incitò a rifarsi avanti, a rifarsi sotto e, avendolo quello ascoltata, a… a ritentare, con calma, badando solo alla mira, essendo il membro più che mai arzillo e pronto.

    Il somaro fece centro al primo tentativo; e Ada, assalita da una voglia improvvisa, immaginando il godimento della somara, si lasciò uscire dalla bocca, in un sussurro colmo di sofferente invidia: «Aaah! beata essa!».

    Adesso, però, per restituire il giusto credito alla sorte capricciosa, occorre raccontare quanto accadde l’anno precedente al matrimonio di Ada, che, all’epoca, era ufficialmente promessa a Ninuzzo M…, il cui terreno (dei genitori, ancora vivi e in salute) confinava con quello dei C… L’essere vicini e gli ottimi rapporti tra le due famiglie, com’è facile capire, contribuirono a far conoscere e frequentare i due giovani, riservati e timidi.

    Andando subito al punto, un anno prima del matrimonio Ada stava attraversando un periodo non certo roseo: le nozze, già fissate, erano saltate, per via di un improvviso mancamento di Ninuzzo, niente di grave, sulla cui natura si ritenne di dover indagare. Un mese a Bologna, nelle mani di medici di comprovata eccellenza; quindi, il ritorno a casa, con l’obbligo di curare il corpo e lo spirito: il primo, con buon cibo e passeggiate; il secondo, con buoni libri e lunghe dormite; l’uno e l’altro, con alcune medicine e il tassativo star lontano da qualsiasi genere di pensieri. Il matrimonio, di conseguenza, fu spostato a data…: appena possibile! al più presto!.

    Durante quell’anno, abbattimento, fiducia, tristezza e speranza si alternarono in Ada e Ninuzzo, e a volte si fusero e si aggrovigliarono, tanto che, temendo che non si sarebbe celebrato, entrambi, per tacito accordo, evitarono di nominare la parola matrimonio.

    Quando già si iniziava a riparlare di preparativi e di nozze, durante una passeggiata, sorpresa da una pioggerella, Ada si riparò sotto un albero e, con le spalle poggiate al tronco, guardando avanti a sé, in un punto in cui la siepe era piuttosto spoglia, vide un giovane, biondo, con i capelli raccolti a coda di cavallo. In quell’attimo, avvertendone lo sguardo, quello si alzò dallo gabello su cui era seduto, col pennello in mano; la salutò, con un sorriso e un buongiorno; poi, sembrò dimenticarsi di lei. Ada, essendo la pioggerella nel frattempo terminata, passando vicino alla siepe, gettò un’occhiata al di là, fotografando con lo sguardo lo sconosciuto. E quella fotografia, in seguito, ogni tanto riguardò: rivedendo quel sorriso e riudendo quel buongiorno, con piacere.

    Il pittore non si era dimenticato di lei: il tempo di retrocedere di un passo, mirare il quadro e apportarvi un ritocco e… e, di colpo posando il pennello e volgendo gli occhi verso il tronco, non la trovò più là; ma, subito balzato in cima al rialzo del terreno alle sue spalle, la scorse; annuendo, allora, si tranquillizzò, avendo capito dov’era diretta. E là, infatti, la scorse due giorni dopo. Con il cappello in testa, sotto il quale aveva fatta confluire la coda di cavallo, con gli occhiali e senza il pennello in mano, era difficile che la giovane lo riconoscesse; volle, tuttavia, tenersi a distanza e non correre rischi, per poter investigare e sapere il più possibile di lei: chi era, dove abitava e altro, altro ancora. Seppe chi era e dove abitava; e venne a conoscenza di altro (che era fidanzata) e di altro ancora (che era prossima alle nozze). E più penetrava nella vita di Ada, più un senso di inquietudine e di insofferenza lo opprimeva, tanto che non riuscì a concentrarsi nel lavoro, tanto che… tanto che mille soluzioni gli saltarono per la testa, tra cui quella di dichiararsi e portare via la sua… sì, la sua amata, la sua amata a Ninuzzo, mettendo in campo il suo stato e… e niente di tutto ciò, apparendogli puerile, e soprattutto contrario alla decisione di staccarsi dal proprio mondo, in cui conta esclusivamente lo stato, non conquistato, soltanto ereditato. O fuggire di là mille miglia al più presto o accettare, consapevolmente, di essere spettatore impotente di eventi ormai prossimi: decise di restare, perché, fuggire, sarebbe stato peggio. E andò oltre, concludendo l’acquisto (offrendo una cifra superiore a quella richiesta) di un casale sul quale aveva messo gli occhi, il cui terreno confinava, ad est, con quello dei C...: un modo cervellotico di tenersi in gioco, che gli alleviava la sofferenza e lo faceva sentire vicino ad Ada: vicino, con l’aiuto di un binocolo, mentre entrava o usciva dal casale o si affacciava alla finestra o era impegnata in faccende là attorno. Ma, approssimandosi il giorno delle nozze, Anselmo (questo era il suo nome), Anselmo, per seguire con i propri occhi i due futuri sposi, ora separatamente ora insieme, dovette farsi trovare a debita distanza da loro, con la cinepresa e la macchina fotografica, in veste di turista. Un particolare gli fece piacere e lo sollevò alquanto: che tra i due, quando erano insieme, non vi fossero effusioni o atti a cui sono soliti abbandonarsi gli innamorati. Si amano? si domandò. E giunse il giorno delle nozze; e si diffuse, nel pieno della notte, la notizia della morte di Ninuzzo, avvenuta nella casa di lui, dove avrebbero abitato e dalla quale sarebbero partiti il giorno dopo, per il viaggio di nozze, in giro per l’Europa. Aggirandosi nei dintorni, non decidendosi a tornare a casa e a buttarsi sul letto, la notizia gli arrivò fresca e, anche se quanto provò non fa onore a un uomo che tenga a considerarsi tale, Anselmo di colpo si sentì liberato dall’angoscia che gli aveva attanagliato il petto e buttate giù le tempie a forza di martellate.

    Il lutto prolungato di Ada e quel suo chiudersi; il tentativo di farsi notare; il salutarla, senza ricevere risposta, tanto era sorda a tutto e assente al mondo, lo spinsero a tentare, a sperare: a seguirla, a spiarne i movimenti. Ventitré mesi se n’erano andati invano. Avrebbe levato le tende, se nulla fosse accaduto in quell’ultimo mese. Una settimana mancava allo scadere del termine; e lui, anziché prepararsi al distacco definitivo, o proprio nella consapevolezza del suo inesorabile avvicinarsi, divenne più attento, spiando con maggiore circospezione i movimenti di Ada, per non farsi scoprire e non indispettirla, in tal modo giocandosi una eventuale possibilità: la speranza, si sa, è l’ultima a morire.

    E quel mattino, agli inizi di maggio, subito notò che vi era qualcosa di nuovo in Ada, qualcosa che la riportava alla vita e glie ne rifaceva avvertire il respiro, il battito. La seguì, rallentando o accelerando il passo, ora perdendola di vista ora ritrovandola in un punto diverso da quello immaginato. tanto essa era imprevedibile nel suo andare libero, senza méta, alla riscoperta della propria esistenza attraverso quella, semplice e complessa, della natura. Alla fine, quando essa, richiamata da quei ragli acuti, scomparve dietro la siepe, essendo lontano, affrettò il passo; ma subito le gambe si resero conto che, soltanto correndo, avrebbero potuto raggiungerla al più presto. In breve, grazie a loro, imboccando la siepe, la scorse; e, grazie a loro, che si fermarono in tempo e retrocedettero, evitò di essere visto.

    Fu Anselmo spettatore immobile del primo tentativo del somarello; ma subito si mosse, girando attorno alla casupola: spiando da dietro un lato e rubando ciò che avveniva all’estremità dell’altro lato, da dove Ada faceva capolino. In tale posizione, gli era dato assistere a una scena che mai si sarebbe immaginata, di cui erano protagonisti le braccia e i glutei e il corpo tutto della donna amata, che, lì a qualche passo, agivano su di lui come la calamita sul ferro: e lui, in verità, tentò di opporre la propria volontà; ma, più questa si proponeva di essere di ferro, più veniva attratta e sospinta, sospinta in avanti. Così, nel momento in cui il somaro fece centro e Ada, assalita da una voglia improvvisa, immaginando il godimento della somara, si lasciò uscire dalla bocca, in un sussurro colmo di sofferente invidia: «Aaah! beata essa!», Anselmo, sussurrandone il nome, come ad avvertirla della propria presenza, aderendo al suo corpo desideroso, portò le mani ai seni e, sussurrandone ancora il nome, mentre il contatto stretto fungeva da lievito su ogni poro della propria pelle, piano piano la spinse a voltarsi e… e di quanto avvenne di lì a poco si rallegrò il caso, che li volle uniti felicemente in matrimonio, innamorati l’uno dell’altra e l’uno fatto per l’altra, come invece, a dire il vero, proprio non erano Ada e Ninuzzo.

    CORNA DI CAPRA

    A quei tempi le bestie erano uccise nell’ ammazzatora , locale non intonacato, dove le prime cose a balzare agli occhi erano i ganci pendenti dal soffitto, e, vicino ad essi, le cannelle dell’acqua, i budelli. Guardando attorno, oltre a due tavolacci di quercia, completavano la macabra scenografia una rastrelliera, con coltelli di varie misure, e, sparsi sulla terra nuda, vari recipienti. Dopo l’uccisione, cani e gatti si lanciavano, per appropriarsi di qualche capoccia o delle budella, dette mazze ; i topi comparivano e scomparivano in un batter di ciglia, portando via quel che a loro capitava a tiro. Non abitavano lontano dall’ ammazzatora Luca Caponi, appuntato dei carabinieri in pensione, e Aldo Desiderato, muratore, padre di quattro figli, dei quali il maschio, Enzo, di undici anni, era capo riconosciuto di un gruppetto di ragazzi più piccoli.

    Per andare alla casa vecchia, dovevano scegliere: allungare o prendere la strada più corta. Enzo, Peppino e Cherubino, proprio perché pericolosa, optavano per la scorciatoia, che li portava alla scalinata terminante davanti al portone di Caponi, dove, indirizzate a tutta voce le corna all’ignaro proprietario, di corsa, vociando, percorrevano i pochi metri che li separavano dal loro rifugio.

    Il beffeggiato usciva in tempo in tempo per acciuffare con lo sguardo l’ultimo delinquentello, nel momento che entrava nel covo. Là si riunivano, e lui, frenato dalla moglie, ogni volta ingoiava amaro, e perdonava, perché erano bambini. Se fosse stato libero di decidere, sarebbe andato dritto da Malizia, il temutissimo appuntato dei carabinieri, con il quale nessuno provava a fare il furbo: quello, essendo proibito giocare a carte e disturbare, li avrebbe presi per gli orecchi a uno a uno, e, non potendoli incarcerare in quanto minorenni, a calcioni li avrebbe consegnati ai genitori, per un’altra dose di pedate nel sedere. Un paio di corna rintorcinate di capra, inaspettatamente, vennero in suo aiuto.

    Data la vicinanza con l’ ammazzatora, non era difficile imbattersi in corna di montone e capra. E un giorno il caso volle che, mentre i delinquentelli scendevano in punta di piedi la scalinata facendo gli scemi più del solito, Peppino inciampò in un paio di corna rintorcinate di capra. Non ci pensò due volte: le prese e le infilò nel battocchio della porta di casa dell’appuntato dei carabinieri in pensione.

    Il quale, stando vicino alla porta, subito uscì, e le corna gli caddero sulle scarpe: offeso e indignato, essendo la sua casa onorata, andò su tutte le furie e, dirigendosi verso la casa vecchia, desideroso di afferrarne uno e di tirargli gli orecchi fino a farlo strillare, gridò alla moglie: «Piglia la pistola!».

    Enzo, sentendo nominare la pistola, salì di sopra con la scala a zippi, a pioli. Gli andò dietro Peppino, svelto come uno scoiattolo, mentre Cherubino, rimasto giù (perché Enzo, per paura di Luca Caponi, aveva tirata su la scala), si era appiattito dietro la porta, con l’intenzione di percepire l’arrivo dell’appuntato dei carabinieri in pensione. Il quale, per disgrazia dell’incauto ragazzo, abbassò la maniglia di alluminio, e aprì la porta con violenza, provocandogli un bernoccolo sulla fronte; ma, per fortuna del poveretto, non vi guardò dietro, limitandosi a lanciare un’occhiata all’interno e mormorando tra sé: «Dov’è andato?», non vedendovi anima viva: se avesse guardato con attenzione, vi avrebbe trovata, piegata in due, un’anima tramortita dalla botta ricevuta.

    Sopra, Enzo, belva in gabbia, andava su e giù a piccoli passi, badando a non fare rumore sul pavimento di tavole.

    Peppino a stento tratteneva il riso, pur tenendo gli orecchi tesi. «Se n’è andato,» concluse, dopo un po’.

    Enzo, tenendo anche lui gli orecchi tesi, guardando fuori dalla finestra senza vetri, disse: «Vengono… Gli faccio segno di andare via».

    «Hanno allungato, affari loro: Caponi gli corre dietro, e così noi ce la filiamo».

    «Morte loro, vita nostra!».

    Albino, Ivo e Siro, giunti davanti alla casa vecchia, vedendo la porta aperta sotto, constatato che tutto era calmo e tranquillo attorno, vi entrarono, e trovarono Cherubino, pallido, con la mano sulla fronte. Informati sull’accaduto, giù a sfotterlo, e a ridergli in faccia, senza pietà.

    Sopra, ognuno con i propri orecchi, senza guardarsi, cercavano di captare e codificare tutti i rumori che arrivavano.

    Il commento di Enzo, condensato in quel battere l’indice sulla fronte, tradotto in parole, voleva significare: erano proprio scemi, quelli là sotto, a ridere e scherzare, col generale (così avevano soprannominato l’appuntato dei carabinieri in pensione) armato di pistola! Ma, oltre a quelle risate idiote, non avvertendo altro, rincuorato, si sporse e, gettato lo sguardo verso l’abitazione del sunnominato tornato dentro buono buono, li chiamò con un fischio, e imposto loro il silenzio con un ssst!, calò la scala, e attese che salissero, prima di ritirarla su.

    «E quello?» domandò Enzo ad Albino.

    Albino, più piccolo di lui di un mese, rispose, senza timore: «C’è venuto da solo».

    «Insieme a voi!».

    «Se ti becca tuo padre…» disse Peppino, rivolto a Ivo, di cinque anni.

    «Non mi becca: è fuori per lavoro».

    «Se ti becca…» lo punzecchiò Peppino, ridendo, al pensiero di quanto avvenuto il giovedì della settimana prima. Il ragazzino, figlio di Armando Fumi, impiegato comunale, persona pacifica, che non si arrabbiava mai, voleva entrare per forza. Alla fine, dopo tanto insistere, Enzo gli disse: « Vabbè, te faccio entra’; però, tu devi sta’ dietro la porta e, quando busseno, tu, prima d’apri’, devi chiede il nome». L’unico che venne a bussare verso mezzanotte fu proprio il padre. Al quale Ivo chiese: «Il nome… Chi sei?… il nome». Dall’altra parte il padre, che lo aveva cercato tanto: « Mo ti gl’ho dongo io o nome!», che, tradotto, significa: « Adesso te lo do io il nome!». Le quali parole, dato il tono con cui erano state dette, sottintendevano queste altre: «Apri, e subito!». E infatti Ivo gli aprì; ma non subito, poiché Enzo gli fece cenno di aspettare: il tempo di raccogliere le carte e di infilarsele nella tasca di dietro. «A casa!» disse Armando Fumi, prendendo il figlio per mano.

    Baciato dalla fortuna, pensò Enzo: "al posto suo, dal

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