Emma e i suoi figli
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E così crescevano troppo in fretta i figli di Emma, come il granturco nel campo dietro la casa che, ogni volta sembrava un miracolo, veniva su ricco di grosse pannocchie che, raccolte, avrebbero ricoperto il muro della casa battuto dal sole. Era veramente generosa la campagna, padrona esigente richiedeva fatica e sacrificio ma ripagava puntualmente e senza inganno. La vigna, la selva, i campi e i tanti alberi da frutto sparsi un po’ dovunque facevano parte integrante della famiglia e come tali venivano amati, curati e tenuti in grande considerazione. Il tempo dedicato ai figli si mescolava a quello dedicato alla semina e al raccolto, tutti facevano tutto ognuno con il proprio ruolo distinto per età e per genere di appartenenza.
Quando i vari compiti erano assolti i figli di Emma si disperdevano nel paesaggio intorno e li vedevi correre a perdifiato tra risate e grida. I maschi aprivano le braccia e si buttavano sulle sorelle come aeroplani in picchiata facendole scappare a rifugiarsi in qualche nascondiglio o anche in casa dove venivano respinte furiosamente da Emma che era sempre impegnata a fare qualche lavoro e non le voleva dintorno.
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Book preview
Emma e i suoi figli - Simonetta Simonetti
Fallaci
I vostri figli
I vostri figli non sono figli vostri... sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.
Kahlil Gibran
Franco
Francoooooooo
, quel nome ormai lo conoscevano tutti gli alberi della selva, i vicini di casa, le cento pietre del viottolo che spariva nel bosco e diventava umido terreno coperto da colorati tappeti di fogliame.
Aveva voglia di chiamarlo a gran voce, di sgolarsi sulla porta di casa tenendo le mani a mo’ di megafono vicino alla bocca, lui non avrebbe risposto.
E perché?
Naturalmente lui sentiva il suo nome ribattergli addosso, come la pallina di un flipper, da un albero all’altro, lo sentiva e se ne compiaceva tutte le volte. Poi, gli piaceva ascoltare la voce di Emma farsi da ruscello a torrente, fino a diventar cascata rimbombante che lo investiva avvolgendolo. Sapeva bene perché sua madre lo chiamava a quell’ora, sarebbe precipitosamente calato il buio e la protezione del bosco non sarebbe stata sufficiente ad evitargli il rischio di incontri pericolosi.
Franco conosceva la selva di castagni come le sue tasche, ci passava gran parte del giorno in estate e, durante gli altri mesi dell’anno quando doveva lavorare con il padre nei campi, scappava appena poteva come se fosse un’innamorata ad attenderlo. Dei nove figli di Emma, lui era veramente diverso soprattutto nell’aspetto fisico che aveva fatto, nascostamente impensierire, Mario, suo padre.
Ma di dove era uscito quell’adolescente bianchiccio, con una testata di capelli chiari e lisci, con quelle gambe lunghe e magre e le mani piccole con le unghie rosate come quelle… di una femmina.
Quando lo si vedeva arrivare di corsa, dopo ripetute chiamate, sembrava un uccello dell’acqua perché sbatteva le braccia e allungava il collo come se planasse.
Poi il sorriso. Eh sì, Franco sorrideva sempre, socchiudendo leggermente gli occhi e facendo un buffo ammicchìo con il naso. Dei suoi fratelli e sorelle solo quest’ultime, a parte Rosa la maggiore, provavano un senso di pace nell’averlo accanto, quello strano modo di sorridere le faceva star bene, era rassicurante e facevano di tutto per stare con lui.
Ma la campagna è una padrona esigente, rigida e fortemente regolata da scansioni temporali inevitabili per la comune sopravvivenza. Poco importava dei sogni, dei desideri personali, c’era da provvedere al bene della famiglia e di quella lunga fila di bisognosi che puntualmente si avvicinavano alla porta della cucina giorno dopo giorno.
Quella stanza, anzi quella stanzona, era sempre in movimento e pregnante di voci e odori.
Da quando si faceva appena giorno a notte inoltrata finché la brace nel caminetto era viva, uomini, donne e bimbetti ne occupavano lo spazio secondo i ruoli, l’età, il genere. Solo Emma, sua madre, ne gestiva da padrona il tempo e solo a lei era concesso la scansione dei diversi rituali quotidiani.
Franco adorava sua madre. Amava guardarla di nascosto, la baciava con gli occhi, l’abbracciava senza stringerla troppo e asciugava le sue lacrime, si caricava delle sue sfuriate e l’ascoltava, incantato, mentre la sentiva ripetere a bassa voce preghiere, strane giaculatorie e… invettive.
Una famiglia così numerosa era una risorsa continua di sentimenti e di sensazioni, non c’era verso di annoiarsi o di farsi venire la tristezza, le emozioni crescevano, si scontravano, si fondevano, sparivano e ricomparivano a ruota libera.
La vita di ogni giorno seguiva il ritmo delle stagioni che, da padrone assolute, ne scandivano i tempi. Avevano, le stagioni, una loro intima religiosità e ognuno dei figli di Emma aveva maturato un personale tipo di rapporto che consentiva loro di sopportare al meglio le esigenti richieste e le pretese di stanchezze senza fine e, fattore determinante, senza lamentarsi.
Emma aveva tanti segreti nascosti in fondo al cuore, alcuni belli, altri un po’ meno belli ma meritevoli di starsene lì accucciati, poi ce n’era uno brutto, veramente brutto e lei lo teneva sepolto da molti anni.
Ogni tanto si ritrovava a fare lunghi e profondi sospiri, una sorta di manovra per