il baule in soffitta la valigia sul letto
By Mana
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Book preview
il baule in soffitta la valigia sul letto - Mana
Mana
Non smettere mai di correre verso un
traguardo,
non smettere di essere te stesso,
lotta sempre per ciò che desideri.
Vivi per la tua vita,
ama chi ti ama e aiuta quando puoi.
Sogna sempre mete impossibili,
regalati in ogni istante attimi di vita eterna
e in tutto questo immenso vivere
racchiudi la magia dell’amore.
Madre Teresa di Calcutta
È tutto pronto, il taxi sta arrivando, il cellulare è carico, i capelli sono in ordine, il trucco anche: non mi resta che chiudere la valigia.
Sono in partenza per la Svizzera, ho un treno che parte da Roma tra circa tre ore.
Adoro i paesaggi montani, le baite col camino, la neve che viene giù. Mi trasmettono serenità.
Spesso ho viaggiato con la fantasia, semplicemente guardando le foto di quei posti meravigliosi, e tantissime volte ho immaginato di trovarmi su uno di quei laghi incantevoli, a scrivere un bellissimo romanzo.
Ho sempre vissuto in posti di mare bellissimi, ma il troppo caos delle spiagge, il caldo afoso e le notti insonni passate a sudare non sono proprio il mio forte.
I miei figli mi hanno regalato una vacanza di merito, piuttosto insolito vero?
Ti starai chiedendo cosa ho fatto di così eclatante per meritarla e ti confesso che anche io al tuo posto sarei curiosa di saperlo, quindi te ne parlerò con immenso piacere.
Arrivare alla stazione ferroviaria non è cosa facile, sembra che aspettino te che parti per creare ingorghi assurdi.
Oh, scusa, mi presento!
Mi chiamo Mana, e sono una donna di mezza età che non ha mai ascoltato il proprio cuore; non mi sono mai lasciata guidare dai suoi battiti
fino a quando non ho imparato a capire il suo linguaggio.
Sono nata in una bella cittadina in provincia di Napoli, posto incantevole dove il mare fa da cornice a un panorama mozzafiato, e dove si mangia benissimo.
Dalla finestra di casa mia al terzo piano di un grattacielo, si poteva toccare
il Vesuvio per quanto era vicino.
Bellissimo da vedere quando era innevato e spaventoso in caso di incendio: entravamo nel panico più assoluto a vedere il divampare del fuoco tra gli alberi e l’arrivo degli elicotteri dei pompieri era un sollievo per tutti noi.
Quelle fiamme che diventavano sempre più alte, e il fumo della vegetazione bruciata che si diffondeva nell’aria, rendevano cupo l’intero paesaggio.
Un momento bruttissimo in quel grattacielo di dieci piani, fu nell’Ottanta, quando il terremoto in Irpinia, (una località campana non molto distante da noi), ci fece oscillare come un pendolo.
Lo ricordo benissimo: avevo quattordici anni e per diverse notti dormimmo in campagna a casa di parenti.
Per fortuna ci permisero di rientrare nelle abitazioni, nonostante il palazzo avesse subito diversi danni. Si avviarono i lavori per la ristrutturazione ma la paura rimase in noi per molto tempo.
Abitavamo in un vicolo cieco, una strada senza sbocco in un bel quartiere grande, che rimaneva a pochi chilometri dal centro della città, lontano dal traffico cittadino.
La mia è una famiglia numerosa; mio padre non guadagnava molto e mia madre per aiutarlo avviò un’attività commerciale quando io avevo due anni.
Quinta di sei figli, sono cresciuta con la mia sorella primogenita, che ha tredici anni in più di me.
Si prendeva cura di tutti noi più piccoli come meglio poteva, mi accompagnava a scuola e tutti credevano fosse la mia mamma.
Era bello uscire con lei; vestiva sempre bene e aveva dei capelli lunghi bellissimi: per strada la guardavano tutti i ragazzi.
Ho due fratelli e tre sorelle, e abbiamo un bellissimo rapporto tra noi, complici soprattutto.
Da piccoli eravamo molto affiatati, spesso facevamo giochi che ci divertivano tutti.
Ricordo che un pomeriggio, mentre i miei genitori erano ancora a lavoro, a mio fratello venne l’idea di trasformarci in un gruppo musicale.
Eravamo in quattro, la più piccola di noi ancora non era nata e l’altro fratello non era con noi: era marittimo e ogni suo imbarco durava molto, rientrava dopo otto/dieci mesi e sembrava una persona diversa per quanto era cresciuto.
Decidemmo, quindi, gli strumenti musicali: avevamo una chitarra piccola, un pianoforte per bambini, pentole e coperchi.
Io sedevo al piano, le mie sorelle una aveva la chitarra e l’altra due coperchi di pentole, mio fratello era seduto con in mano due mestoli di legno che batteva su due pentole capovolte poggiate sulle sedie (tipo batteria).
Al suo via, avremmo dovuto suonare a casaccio per sentire cosa ne usciva.
Prova strumenti: la chitarra era accordata, il mio piano andava a meraviglia, mio fratello diede due tre colpi alle pentole e già era gasato e mia sorella con i coperchi ruppe i timpani a tutti!
Via!
Partimmo a raffica, l’adrenalina si impossessò di noi.
Una confusione da manicomio, quanto più potevamo suonare
e quei coperchi che facevano vibrare i bicchieri nella cristalliera.
Andammo avanti per un bel po’ di minuti; ci uscivano le lacrime per le risate ma a un certo punto... sentimmo un rompersi di vetri.
In un nanosecondo, scattammo tutti in piedi dietro mio fratello che riuscì a prendere un coltello con la lama lunga, di quelli per affettare il pane.
Fermi immobili ci chiedemmo cosa fosse successo: il cuore andava all’impazzata nel petto di ognuno di noi, in preda al panico.
Pochi istanti e sentimmo aprire la porta di casa: stavano rientrando i nostri genitori. Oddio!
All’ingresso di casa c’erano uno stanzino adibito a ripostiglio e poi un lungo corridoio che portava alle camere.
I miei ormai erano entrati e ci videro con gli occhi sgranati e quel coltello in mano a mio fratello.
Raccontammo tutto, ovviamente; un po’ rimasero divertiti ma quando scoprimmo che quel rumore di vetri rotti era venuto dal ripostiglio, non sapevamo dove scappare.
La nostra bella e intensa esibizione musicale aveva fatto scivolare delle bottiglie di olio da uno scaffale: c’era olio dappertutto.
Per fortuna non ci scappò il morto. Gli animi dei miei dopo qualche ora si placarono e quello rimase il nostro unico concerto musicale.
In casa da soli ne inventavamo di giochi per passare il tempo; era bello il rapporto tra noi: una squadra di matti.
Nel quartiere dove ho vissuto la mia infanzia, avevo delle amichette con le quali spesso giocavo.
Solitamente ci incontravamo sotto casa, in un giardino antistante il negozio di famiglia; era uno spazio ben curato e tranquillo.
All’ingresso c’erano un piccolo cancello nero e un’area pavimentata di mattoncini rosso scuro che conduceva al negozio. Ai lati della passerella c’erano quattro aiuole con piante e fiori bellissimi e tra le aiuole c’era uno spazio libero che ci permetteva di fare diversi giochi.
Fuori dal giardino c’era un marciapiede abbastanza largo e poi la strada.
Che ridere quando la palla finiva sui fiori e li distruggeva! Non sapevamo dove nasconderci per la paura di essere sgridati dalla portinaia del palazzo.
Era lei a prendersene cura, e quando ci sentiva schiamazzare più del solito, ci sgridava rimanendo nascosta dietro le fessure di una finestra al piano terra, che affacciava sul giardino.
Era grassa, aveva un nasone che ricordava quello della befana e a volte usciva fuori e ci rincorreva con la scopa.
Ogni stagione, poi, aveva il suo gioco; ricordo quando le mie amiche giocavano con i pattini a rotelle: quell’anno li comprarono tutte le bambine del quartiere.
Hai presente l’espressione da ebete con occhi spalancati e bocca aperta?
Praticamente la mia mentre le guardavo schettinare su quel marciapiede lunghissimo: sembrava volassero per quanto erano brave.
Inviai la richiesta a mia madre. Non era semplice per me chiederle qualcosa: sembrava sempre arrabbiata e così decisi di farlo a distanza.
Sai uno di quei missili fatti col foglio di quaderno che spesso fanno volare tra i banchi a scuola?
Scrissi sopra: Mamma mi compri i pattini?
Li ebbi che erano già passati di moda, infatti le mie amiche giravano in bici, mentre io montavo su due cataste di ferro con le ruote strettissime di colore rosso e di plastica dura.
Ricordo che ogni movimento che facevo per provare a starci su, risuonava come un passo di Jeeg Robot d’acciaio.
Il vicinato si affacciava dalle finestre perché credeva fosse arrivato il camion delle cose vecchie da ritirare!
Mi arresi: rischiavo grosso.
Ma