Il sogno del guerriero: Le forche caudine
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Argon, il secondogenito di Tedoro, il “Meddix”degli Hirpini, durante il viaggio nella romanizzata città di Capua, è casualmente testimone di un complotto ordito per eliminare Gaio Ponzio Telesino, nientemeno che l’“Embratur”, il comandante delle armate Sannitiche. Per attuare il loro piano, i Romani assoldano un uomo tra la sua stessa gente: un traditore...
Intento del Tribuno, ideatore del complotto, è principalmente quello di uccidere il capo dei Sanniti, uomo capace di sconfiggere l’esercito Romano e, così facendo, evitare che l’intervento militare di due Legioni, guidate da due Consoli, potesse dare loro l’onore della vittoria, mettendo a rischio la sua futura carriera politica...
Lo scontro tra Sanniti e Romani è comunque inevitabile ed avviene nei pressi di Caudio, in pieno territorio Sannita; ma non sarà una guerra come le altre, perché i Sanniti, oltre alla vittoria, otterranno molto di più...
Non soffiano solo aspri venti di guerra ma anche soavi spifferi d’amore: Argon ed il suo inseparabile amico Erennio, entrambi diciassettenni, non sono affatto insensibili al fascino femminile...
Se il primo si fidanza senza particolari difficoltà con la donna che ama, venendo addirittura favorito e spinto dal padre di lei a cui aveva salvato la vita e dato prova del suo coraggio e abilità di guerriero, per Erennio è tutto più complicato: si innamora della donna sbagliata nel posto sbagliato! E’ una schiava ed Erennio, con l’aiuto del suo amico, tentano di portarla via da Capua, fallendo però nell’intento per causa dei soldati Romani. Ma...
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Anteprima del libro
Il sogno del guerriero - Gerardo BRUNO
Cicerone
Prefazione
Ho accettato con vero piacere di stilare la presentazione del testo Il sogno del guerriero
dell’amico Gerardo Bruno, a significare che dieci anni di vita trascorsa tra i monti di Bagnoli, Montella e Nusco non sono stati vani. Oggi, infatti, in molti conoscono le nostre origini storiche, sanno cosa è il Sannio, cosa è un Hirpus, un Ver Sacrum, le basi per tentare, come ha fatto Gerardo, di comporre qualcosa di proprio che segua quanto già messo in luce, nella impossibilità personale di andare oltre.
Gerardo, nell’affrontare le vicende del Sannio, ha scelto la battaglia per antonomasia più viva e conosciuta, riportata in tutti i testi di storia, soprattutto la più grande vittoria di parte sannita: quel-la delle Forche Caudine. Nel farlo, ha voluto riportare alla mente di tanti una gloriosa pagina di storia, che merita di essere approfondita circa le dinamiche del suo reale svolgimento. Alcuni storici, infatti, non credono alla versione di Tito Livio: 15.000 romani transitanti lungo le pericolose gole presso Montesarchio (Caudium), i sanniti in agguato in alto (!!!), la successiva resa romana, la trattativa poi tra romani e sanniti su alcuni insediamenti romani su territorio sannita, che Roma non ratificò mai, le incertezze sul da farsi; forse un modo per addolcire una battaglia che certamente vi fu, e che i romani per-sero, poi sottoposti al giogo
, quello di farli passare sotto le insegne e le armi sannite.
Gerardo affronta così questa importante pagina di storia con tutto l’ardore e la fantasia che ha dentro, e ce ne è voluta davvero tanta per scrivere quello che è stato scritto, prendendo per buono quello che storicamente Tito Livio ci riporta, inventando il resto, ad iniziare dalla narrazione di momenti di vita quotidiana al campo, all’imboscata preparata contro i romani, alla loro sfilata finale, in ginocchio nel fango, ai piedi dei sanniti, prima di fare ritorno a Roma. Fermo restando la vicenda storica, che è intoccabile, Gerardo dà sfogo a tutto il suo estro e alla sua conoscenza, scrivendo una bella pagina di storia, perché a volte la narrazione è tanto viva ed avvincente da dare la sensazione, a chi legge, di vivere per davvero i momenti narrati. Saranno andate davvero così, come Gerardo racconta, le cose presso Caudium? Chissà, tutto è possibile, perché quando si affronta un lavoro tanto impervio ed avventuroso si sa dove si inizia ma non si sa dove si finisce, lo stesso scrittore è avvinto da quello che sta scrivendo. Tutto è possibile, anche se nessuno potrà mai dirlo. Una cosa è certa, che una nuova pagina di storia va ad aggiungersi a quanto già fatto, con l’auspicio che altri si avventurino in un’impresa che riporti al posto che le spetta l’Irpinia: la tribù più numerosa e guerrigliera del Sannio.
Domenico Cambria*
*Autore, tra gli altri, de Hirpinia - Il Sannio ritrovato
e di dieci opuscoli di aggiornamento al testo.
Note dell'autore
Dopo la Prima guerra Sannitica
(343 – 341 a.C.) e il rela-tivo periodo di pace, con la fondazione della città di Fregellae (328 a.C.) e la conquista di Neapolis (326 a.C.) da parte di Roma, inizia la Seconda guerra Sannitica
(326 – 304 a.C.).
Il racconto è ambientato nel 321 a.C., allorché Romani e Sanniti si apprestano a vivere una delle pagine più memorabili della storia: Le Forche Caudine
. Per quanto il luogo dello scontro sia tutt’ora motivo di discordanza tra gli studiosi, esso è da collocare presumibilmente a Piana di Prata
, nelle vicinanze dei Comuni di Frasso Telesino, Cautano e Tocco Caudio. L’area interessata è quella situata ad Ovest di Benevento che comprende, tra gli altri, anche i Comuni di Campoli, Vitulano e Solopaca. La zona dove è avvenuto l’evento viene tradizionalmente indicata più a Sud, a pochi chilome-tri dell’antica Caudio, tra i Comuni di Arpaia, Forchia, Paolisi, Airo-la, Montesarchio e Apollosa. Non essendoci, tra gli scopi principali del romanzo, l’individuazione esatta del luogo (sarebbe, oltretutto, peccare di presunzione da parte dell’autore), vengono citati i Comu-ni riscontrati nel corso delle ricerche e degli studi come, ad esempio, i paesi situati più a Nord che, comunque, anche se per motivazioni diverse, hanno avuto un ruolo nell’evento: San Salvatore Telesino, Dugenta, Sant’Agata dei Goti, Limatola, Telese e Melizzano. L’in-dividuazione del luogo dello scontro viene spesso semplicisticamen-te e riduttivamente indicata come vicino Benevento
. Tuttavia, se l’epicentro
è da collocarsi nei posti summenzionati, direttamente o indirettamente, lo scontro tra Sanniti e Romani interessa un’area ge-ografica ben più vasta: le Province Campane (in particolare Avellino e Caserta) e diverse Regioni limitrofe. Viene da sorridere quando si definiscono le guerre Sannite come storia locale
...
Per una scelta più romantica che letteraria o grammaticale, i numeri vengono riportati in lettere, le ore del giorno sono identificate
prendendo come punto di riferimento il cammino del sole e, infine, le unità di misura indicate non sono quelle tradizionali ma: dito (1,85 cm), palmo (7,41 cm), piede (29,65 cm), passo (0,74 m) e miglio (1,48 km).
Le monete vengono semplicemente suddivise in oro, argento e bronzo. Unica eccezione, la descrizione alquanto meticolosa e mi-nuziosa di una moneta – medaglia Sannitica, in quanto attinente alla storia stessa del racconto.
Scrivere delle Legioni Romane significa parlare di oltre mille anni di storia e di una continua e costante evoluzione militare. Nel racconto, per ragioni letterarie e tradizionali, in alcuni casi, vengono menzionate situazioni successive al periodo (esempio: le fortifica-zioni notturne).
Non è raro trovare nomi di città o di persone, chiamate in modo diverso in base al testo consultato o alle fonti storiche traman-date. Alcuni esempi:
Calatia = Caiatia (nel racconto, Calatia).
Caio Ponzio Telesino = Gaio Ponzio Telesino = Gavio Ponzio Tele-sino (nel racconto Gaio).
Gaio Herennio Ponzio = Gaio Erennio Ponzio (nel racconto Herennio).
Malventum – Maleventum - Maloenton (nel racconto Malventum).
Carreceni - Careceni – Caraceni - Carricini (nel racconto Carricini).
Meddix Tuticus – Meddix Toutos (nel racconto Meddix Toutos o Embratur).
Caudium – Caudio – (nel racconto Caudium).
Altrettanta differenza si può riscontrare sul numero dei solda-ti dei rispettivi eserciti:
Esercito Romano: 9.000 – 12.000 – 15.000 – 20.000 (nel racconto 12.000 – 13.000)
Esercito Sannita: 9.000 – 14.000 – 18.000 (nel racconto 13.000 – 14.000)
Mi ero sempre chiesto come fosse stato possibile che due Legioni Romane si fossero arrese senza combattere...
Capitolo I
La partenza
Un cigolare di ruote lo fece sobbalzare. Guardò verso la fi-nestra situata sulla parete opposta e vide le prime luci dell’alba che stavano iniziando ad illuminare la capanna. Si sedette sul bordo del giaciglio, strofinandosi gli occhi e sorridendo. Aveva praticamente trascorso la notte insonne in attesa di quel momento e si era addor-mentato proprio sul più bello!
Si avviò lentamente verso la porta, l’aprì e, soffermandosi sull’uscio, con il gomito destro appoggiato al montante, guardò fuo-ri. Una mezza dozzina di carri era allineata nell’ampio spiazzale pro-prio al centro del villaggio e già in lontananza ne scorse altri due che si stavano aggregando alla carovana. Sulla destra, vide la sagoma di suo padre intento a dare ordini. Girò con lo sguardo tutt’intorno alla ricerca di Terzio, suo fratello, ma non riuscì a vederlo.
Una mano gli si poggiò sulla spalla sinistra, distogliendolo dai suoi pensieri e una voce dolcissima gli sussurrò: <
Prima che potesse rispondere disse: <
Fissò la madre a lungo, poi, quasi sottovoce, sussurrò: <
posso accettarle. Lo sai che ho molte pelli di ottima qualità da vendere e sicuramente ricaverò una buona dose di monete. Tienile tu>>.
Allungò il palmo della mano con il sacchetto, ma lei con la punta delle dita lo respinse: <
Abbassò la testa e, fissando il sacchetto di monete: <
Quasi spaventata da quelle parole, immediatamente replicò: <
Come se fosse stato illuminato da un’idea geniale rispose: <
Lei non rispose, si limitò a scuotere dolcemente la testa e a sorridere.
Su una panca in legno a fianco del giaciglio, la sera preceden-te aveva accuratamente poggiato l’armatura da indossare nei giorni a venire. Suo padre voleva che tutti gli uomini adibiti a scorta fossero in uniforme ed equipaggiati di tutto punto. Questo per due motivi: primo perché quel trasporto significava il benessere per l’intero vil-laggio per un anno e quindi occorreva garantire la massima sicurezza al convoglio delle merci e poi, con orgoglio, per mostrare la bellezza e l’efficienza dei soldati della tribù.
<
Argon era letteralmente entusiasta all’idea di quel viaggio, come poteva esserlo un ragazzo diciassettenne ma, al tempo stesso, nutriva delle perplessità sin dall’inizio. Un sottile senso di angoscia lo assaliva ogni qualvolta si soffermava a pensare ad alcune cose ma adesso doveva prepararsi, non era certo quello il momento di arrovellarsi il cervello!
Con cura, pose il panno con le monete che gli aveva donato sua madre, aggiungendone altre, in una borsetta di pelle, che teneva nascosta sotto la paglia del giaciglio, tenendola ferma con due sottili ma resistenti corde di cuoio che fece girare intorno alla vita, fissando la borsetta al fianco sinistro, sotto l’ascella. In questo modo, qualun-que movimento avesse fatto, non avrebbe rischiato di perderla.
Con la stessa tecnica, fissò il fodero del pugnale dietro la schiena. Provò e riprovò varie volte per verificare con quanta velo-cità riuscisse ad estrarlo e lanciarlo. Argon era bravissimo in questo. Sin da piccolo aveva trascorso giornate intere ad esercitarsi. Riusciva a centrare il bersaglio con estrema precisione, anche da una distanza di dieci passi.
Poi indossò la tunica, era di lino e di colore bianco, arrivava qualche dito sopra le ginocchia ed era a maniche corte. Ne possede-va una pressoché identica fatta di lana ma, considerata la stagione, non era certamente adatta allo scopo. Sia sulla parte anteriore che su quella posteriore della tunica, all’altezza del petto, fissò, tramite fib-bie e cinghie di cuoio, tre piastre rotonde in metallo dal diametro di due palmi cadauna; infine, indossò i calzari, lo schiniere, che serviva a proteggere la gamba sinistra fin sotto il ginocchio e la cavigliera sulla caviglia destra.
Infilò sul lato sinistro la spada nel fodero fatto di cuoio, rive-stito in pelle e si girò verso la madre come a cercare conferma della sua soddisfazione. Lo sguardo e il sorriso di lei valevano più di mille parole. Se lo stava letteralmente mangiando con gli occhi. Mancava oramai solo l’ultimo tocco: l’elmo! Prima di calzarlo lo prese e lo rigirò varie volte tra le mani, per ammirane lo splendore. Non per nulla, aveva passato ore intere a pulirlo e lucidarlo.
Prese da terra lo zaino, fece passare la cinghia di cuoio at-torno al collo, facendolo penzolare dal lato destro, slegò i due lacci che tenevano legato lo scudo alla parete, infilando il braccio sinistro nell’impugnatura, prese il giavellotto che teneva appoggiato dietro la porta e, dopo aver abbracciato sua madre, uscì fuori.
Era la prima volta che si vestiva da soldato per una occasione ufficiale. Questa non era un’esercitazione e la cosa lo elettrizzava e lo eccitava al tempo stesso. Si sentiva un vero guerriero Sannita! Argon aveva poco meno di diciassette anni ed era piuttosto alto rispetto alla media del suo villaggio e aveva un fisico longilineo ed asciutto che evidenziava una notevole muscolatura, sviluppata principalmente ai bicipiti e alle cosce, segnali evidenti di un costante e meticoloso addestramento e anche di un duro lavoro nei campi. Aveva un viso solare e una carnagione chiara che ben si coniugava con il blu pro-fondo dei suoi occhi. Era davvero un bel ragazzo.
<>, disse qualcuno alla sua sinistra. Era Terzio, che si prendeva gioco di lui. Sorridendo com-piaciuto, lo squadrò dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi. <
Terzio era di due anni più grande di lui. Una lunga cicatrice sulla coscia destra, appena sopra il ginocchio e una più piccola sul collo, sotto l’orecchio sinistro, testimoniavano che aveva già avuto esperienze di battaglia. Infatti, aveva fatto parte dell’esercito che ap-pena l’anno precedente aveva combattuto e perso contro i Romani. Era di altezza media e dal fisico robusto, un po’ come la maggior parte dei Sanniti ed in particolare delle tribù interne, quelle che face-vano parte della Lega Sannitica. Solo i capelli erano un po’ più chiari rispetto agli altri del villaggio, quasi sul castano, e gli occhi di colore ceruleo. Era un grande mattacchione pieno di vita.
Argon guardava il convoglio e pensava che era davvero note-vole. Comprendeva ben undici carri. I primi sette erano colmi di lana grezza, pelli, utensili, formaggi, maialini, carne essiccata e prodotti della terra di ogni genere; il ricavato della loro vendita serviva per acquistare beni per tutto il villaggio e i soldi rimasti, sarebbero entrati a far parte della cassa della comunità. I tre carri successivi era-no pieni di mercanzie appartenenti alle singole persone. Erano beni individuali. Anche chi non prendeva parte materialmente al viaggio, aveva diritto di inviare alla vendita le proprie merci e avrebbero provveduto a riscuotere per lui. L’ultimo carro, l’undicesimo, era adibito al trasporto delle armi e dell’approvvigionamento dei soldati e dei civili al seguito. Dopo la fila dei carri, seguivano gli animali destinati alla vendita: sei giumente, otto muli e otto asini. Dietro di loro, a chiudere la carovana, quattro dozzine di pecore.
Appariva evidente che per trasportare e tenere sott’occhio tutta quella mercanzia, era necessaria la presenza di molti uomini. Tedoro, in qualità di Meddiss del Touto, non aveva lasciato nulla al caso. La sera precedente aveva spiegato dettagliatamente al Consiglio del villaggio come predisporre gli uomini. Davanti al convoglio, a circa quattrocento passi di distanza, due cavalieri procedevano in avanscoperta con l’incarico di segnalare eventuali pericoli. Lo stesso compito avevano altri sei cavalieri dislocati rispettivamente da due a trecento passi dietro la colonna, due sul lato destro e due sul lato sinistro. In questo modo, nessuno poteva avvicinarsi senza essere scorto e, soprattutto, la distanza era calcolata tenendo conto di eventuali arcieri nemici.
Oltre i cavalieri, vi erano quarantotto soldati ed erano suddi-visi in sei manipoli di otto unità ciascuna. Otto di loro erano alla testa del convoglio, ventiquattro fanti più otto arcieri dopo la fila dei carri e il restante manipolo venne posto a retroguardia. A questi, andavano aggiunti gli undici conducenti dei carri, gli undici che fungevano da inservienti ed aiutanti e quattordici pastori che dovevano prendersi cura degli animali. Tenendo conto che anche questi ultimi erano armati, ed in particolare i pastori, che usavano le loro terrificanti asce, capaci di staccare una testa nemica con un solo colpo assestato nel punto giusto, in pratica, si muoveva un piccolo esercito composto da novantacinque uomini.
In testa alla carovana, a cavallo, il posto d’onore era riservato al Meddiss. Appena dietro di lui marciavano Lucio Quinario e Sa-fino, l’abile guida Italica. Lucio era originario dell’alto Sannio, ma aveva vissuto per molti anni a Cuma, tra i Campani, perché suo pa-dre era stato un soldato Sannita e venti anni prima aveva combattuto contro Roma e, dopo la guerra, approfittando della pace tra Romani e Sanniti si era sposato e vi si era domiciliato stabilmente. Dopo alcuni anni, Lucio decise di tornare alle sue origini. Era molto istruito, parlava e scriveva sia in Osco che in Latino ed aveva buona conoscenza anche di alcuni dialetti Italici. Per questa ragione, veniva sempre invitato a tutti gli eventi particolari e speciali. Fungeva da amministratore e da interprete. Aveva un fisico gracilino ed era evidente che era molto più portato per cose intellettive, che non per la guerra.
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Quella voce lo fece girare di scatto. Era Tedoro, suo padre. Indossava una tunica verde chiaro con bordi colorati di rosso. La sua figura spiccava e si distingueva tra tutte, oltre che per il suo vestiario e il suo portamento fiero, anche perché era alto e robusto, con una capigliatura non molto lunga ma ispida e nera, al pari della sua barba. Le sue ciglia erano molto lunghe e contribuivano a renderlo ancor più possente. Incuteva rispetto e ammirazione solo a guardarlo.
Nella mano destra impugnava un bastone in legno, magistral-mente lavorato, sulla cui punta vi era incastrata una testa di lupo in bronzo. Sotto il braccio teneva l’elmo. Aveva un rilievo in bronzo sulla parte centrale, appena sopra la fronte faceva bella mostra un pennacchio alto tre spanne di colore rosso e due piume di aquila, infilzate ai lati, completavano la splendida coreografia.
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Suo padre lo guardò con un impercettibile sorriso; poi disse: <
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Come se non avesse raccolto quella provocazione, rispose con calma: <
Il ragazzo protagonista della discussione era Pedio, figlio di Irzio e non era mai entrato nelle sue grazie. Anche quando erano bambini e giocavano ai guerrieri, Pedio si era sempre mostrato arro-gante e presuntuoso. Non riusciva proprio a sopportarlo. <
Stava risalendo la colonna, quando una vigorosa, se non pro-prio violenta, pacca sulle spalle lo fece sobbalzare! Era il suo caro e fraterno amico Erennio. Chi altri, oltre suo fratello poteva permetter-si di fare una cosa del genere, senza pagarne le conseguenze? Eren-nio era un bel giovanottone di diciassette anni. Aveva i capelli neri come la pece e due occhi celesti che facevano impazzire le donne. Era più basso e più in carne del suo amico, ma con la stessa prorom-pente muscolatura. Era molto simpatico, allegro e gioviale e, forse proprio per questo, andavano così d’accordo. Argon era sì simpatico, ma anche introverso, a volte taciturno. Si completavano alla perfezione. Arrivati davanti ai carri, si sistemarono al posto loro assegna-to, componendo la terza fila. L’avanguardia prevedeva un manipolo di otto soldati disposti in fila per due. Suo padre era stato attento a non separarli. Terzio, invece, era stato assegnato a comporre la prima fila dopo la colonna dei carri, subito dopo il manipolo degli arcieri.
Tedoro stava risalendo la carovana in groppa al suo cavallo. Era partito dalle retrovie, ispezionando che tutto procedesse per il meglio e che ognuno occupasse il posto assegnatogli. Di tanto in tan-to, si fermava e controllava come tenevano lo scudo, se erano a posto con l’uniforme e, in modo particolare, ne verificava l’allineamento. Questa era una cosa a cui teneva molto. Era suo solito dire: <>.
Arrivato in testa alla colonna, invitò con lo sguardo Lucio e Safino a interporsi tra lui e la prima coppia di guerrieri. Si posizionò al centro, fece un mezzo giro con la testa per verificare per l’ultima volta se tutti fossero in riga, alzò solennemente il bastone in alto e disse <
Il convoglio, lentamente ma con decisione, iniziò a muover-si. Ai lati della strada, vi era praticamente tutto il villaggio a guarda-re. I bambini correvano ai lati dei soldati, rincorrendo e gridando...
Tutti i cani del villaggio, attratti dal quel frastuono, accorsero abbaiando... Le donne, e non solo loro, avevano gli occhi lucidi... Dalle finestre alcuni facevano capolino e i vecchi, seduti sui ceppi davanti le loro capanne, salutavano con la mano... Gli stessi partecipanti al convoglio sentivano il petto ricolmo di orgoglio.
Argon guardava quelle capanne che conosceva da quando era nato.