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Trentotto ore
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Trentotto ore

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About this ebook

Per sottrarsi alla umiliazione della incipiente irreversibile invalidità una coppia ultraottantenne molto malata si suicida, preparandosi in totale segretezza. Il figlio della coppia, docente universitario, con altrettanta segretezza da tempo si interroga se predisporre e predisporsi a uccidere i propri genitori, qualora sprofondassero nella umiliazione di una sopravvivenza vegetativa. Il testo si struttura in due parti: la prima -a)- a tessere di puzzle ricostruisce l’accaduto e i rapporti tra figlio e genitori; la seconda -b)- cronachistica, presenta le domande del figlio al rientro nella casa di famiglia dopo il funerale.
LanguageItaliano
Release dateApr 20, 2018
ISBN9788869631726
Trentotto ore

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    Trentotto ore - Luigi Rigamonti

    Luigi Rigamonti

    TRENTOTTO ORE

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2018 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869631726

    … fulmineo

    precipita il frutto di giovinezza,

    come la luce d’un giorno sulla terra

    e quando il suo tempo è dileguato

    è meglio la morte che la vita

    MIMNERMO

    a)

    *** 1***

    "Una stessa notte insieme, ma loro di là, senza risveglio."

    Annuiva tra sé a queste parole che gli scorrevano addosso automatiche e scuoteva il capo percependole sciape.

    Però , loro, erano.

    E anche dove si è per sempre, forse.

    Beati quelli che credono – era come dicesse – riassumendo che i suoi o nell’altrove da millenni illuso e ambito o non più; che li pensasse o meno.

    .

    Concreti e freddi.

    Sulla terrazza della sala da pranzo respirava il crepuscolo tra i grilli del giardino e il moiré del lago dove s’apriva a ventaglio la scia di un motoscafo.

    Tecla rigovernava in cucina. Avevano cenato insieme in sala da pranzo, come faceva coi suoi. In silenzio. Salvo poche frasi generiche. Si conoscevano da anni, non abbastanza per parlare.

    Appena tutto finito le avrebbe fatto lavare e disinfettare da cima a fondo. E via materassi, coperta di piqué, lenzuola, federe, cuscini. Oltre quanti armadi da svuotare.

    Sin dal mattino s’era offerta di rimanere. Prima che pensasse chiederglielo. Nemmeno si immaginava chiederglielo.

    Restando lei, doveva restare lui. Sostegno, qualora si sentisse sola. Ma non voleva restasse. Non voleva nessuno.

    Sostenerla! Quando, lei, lì stava perché d’accordo coi suoi.

    Gli scorse nitida la scena. Non vista ma indubbia. Mesi o qualche anno prima fra sua madre e Tecla.

    Ragazza mia, se dovesse succedere qualcosa.

    Oh, signora Eugenia, cosa pensa?

    Se dovesse! Fernando vorrà o dovrà rimanere, fermati anche tu, fammi il favore, non lasciarlo solo, il posto per dormire lo hai.

    E via sua madre ad assumere il tono adatto per far intendere a Tecla che lui troppo poco homme de ménage per ricordarsi, la sera, di chiudere le tante finestre o trovare caffè e caffettiera al mattino. Figuriamoci farsi il letto, che infatti Tecla aveva già preparato. Neanche avesse voglia di dormire.

    Di cosa aveva voglia? Prima o poi avrebbe dormito. Quando fu la nonna, dormì, però aveva sedici anni. O diciassette. Se sonno tranquillo o inquieto non ricordava.

    Tecla non l’avrebbe fatta rimanere. Né gli serviva né la voleva.

    ***2***

    Morti.

    Come, morti?

    Non parole. Peso che lastrica in gola. Che tiene rigido e affloscia. Più nitido delle parole.

    Che si gonfia nel cranio.

    Dilatandolo.

    Peso che preme.

    Bolla, non di emicrania.

    E nello stomaco lieve nausea da mal d’auto.

    Così le sensazioni alla telefonata. Gli erano memoria che scorre, pulviscolo di passato che staziona. Con l’amaro ai bordi della lingua, ma senza l’acme dell’impatto.

    ***3***

    Professore, sono Tecla, i suoi! Oh Dio, venga subito! Ho già telefonato al dottore e a don Vincenzo, anche in municipio, ho fatto bene, no?, erano lì tutti e due a letto, al buio, quando arrivo invece c’è sempre la luce accesa e la radio, ma lei lo sa.

    Non l’aveva detto, Tecla, però era chiaro dalla voce scossa, dalle frasi spaurite che svagavano per rincuorarsi l’un l’altra. Soprattutto perché nemmeno un accenno al 118. Chiarissimo per Tecla che inutile il 118. Ecco perché, prima che a lui, le telefonate istituzionali. Comprensibili. Per questo non gliele aveva rimarcate.

    I miei?

    Un secondo di pausa. Quello che scioccamente sembra enorme. E altrettanto scioccamente questa domanda, necessaria, che Tecla attendeva. Come per isolarsi, la domanda. Per non credere.

    Sì, io arrivo alle otto, otto e cinque. Prima compero il pane per me e per i suoi, porto a casa il mio e dopo sono lì. Alle otto suo padre aveva sempre già fatto la barba e era vestito, no, cosa dico?, fino a un annetto fa. Adesso gliela dovevo fare io dopo che lo aiutavo a alzarsi. Sua mamma invece, dopo che avevo fatto alzare anche lei, stava in vestaglia fino alle undici perché prima di quell’ora non voleva vestirsi sennò non riusciva a digerire per via delle pastiglie che doveva prendere.

    Successo.

    Questo lo schiocco nella sua mente. Senza parole. Guardando l’orologio. Le otto e quattordici.

    I miei cosa, Tecla? ripeté. Era sulla soglia dell’aula. I ragazzi del seminario dentro in attesa.

    Ripensandoci non era sicuro di averlo ripetuto. Gli sembrava d’essere rimasto zitto in ascolto. Inutile parlare.

    E beveva la voce agitata di lei, che parlando si calmava.

    Come quando da piccolo beveva il sorso d’acqua fresca nella camera, buia anche con la luce accesa dopo i brutti sogni. L’acqua che gli portava sua madre. In camicia da notte. Odorosa di caldo e letto, sua madre. Il letto le accentuava la fragranza della tintura dei capelli – camomilla acre e peluria di sudore mieloso emanava da lei. E lui beveva da quel bicchiere che sembrava mai vuoto. Frammenti di sorsi. Scendevano a fatica. Fatica maggiore, aprire la bocca. Neanche fuori ci fosse qualcosa in attesa di precipitarsi per mangiarlo dall’interno. Le mani di sua madre gli asciugavano le gocce dal restio angolo instabile delle labbra. Però cercava di starle discosto per l’odore di letto non suo. No, l’odore della propria vergogna di mostrarsi impaurito.

    ***4***

    Quarantacinque anni prima. Di più. Cinquanta e passa.

    Non era l’acqua che importava. Era riceverla, essere blandito a berla.

    Fare qualcosa che nel sogno non esisteva, che annullava il sogno, teneva fuori dal sogno. E fuori teneva il brutto sogno.

    Suo padre arrivava poco dopo in una passatoia di lampade. Restava in piedi a fianco. Qualche volta lo prendeva in braccio per metterlo fra loro nel letto. Spalancava gli armadi per esibire che vuoti.

    Che cosa, Tecla, i miei? credeva d’aver di nuovo chiesto.

    Buongiorno dormiglioni! gli ho detto – proseguiva Tecla – Mi scusi professore, m’è venuto non lo so nemmeno io il perché, sarà che non li avevo mai visti così. E intanto accendevo la luce e poi ho tirato le tende. C’è un sole, oggi! gli ho detto, anche la finestra ho aperto, come al solito, ma loro… così sono andata vicino, è sua mamma che dorme dalla parte della finestra, avevo come una cosa dentro. Signora Eugenia! la chiamavo, che per farmi uscire la voce! Ma niente. Ormai m’ero accorta che era successo qualcosa e non ci volevo credere.

    Lui sì, ci credeva. E inteso. Non solo cos’era successo. Perché.

    Vengo subito, Tecla. Resta lì?

    Queste era certo di averle pronunciate. Di getto. Cacciando giù la nausea. Svuotandosi da dentro. Il collo chino. La schiena china.

    Ah, il campanello. È il vigile, professore. Vado ad aprirgli. Sì, sì, resto.

    Un’oretta e sono lì.

    Intanto, gli si formulava, sarebbero giunti i carabinieri. Se non sostituto procuratore e medico legale. Quindi autopsia. Possibile evitarla? Sottrarli a quell’ultima umiliazione dopo che, se l’avevano fatto, era per rompere la catena delle altre cui il corpo li costringeva?

    Aveva comunicato agli studenti di doversi allontanarsi per un’improvvisa necessità familiare o qualcosa del genere. Di preciso nemmeno si era accorto delle proprie parole. Sommarie pure quelle in presidenza di facoltà.

    Per arrivare un’ora c’era voluta tutta. Dura, no, inquieta, macché! Neanche aspra. Trascorsa.

    E poi la casa. Le finestre aperte. Tranne quella della camera.

    ***5***

    L’accelerata d’orgoglio, questo avevano scelto.

    Da tempo supponeva potesse, dovesse anzi, risolversi così. Era un suo punto di vista, di cui mai aveva fatto cenno con loro.

    Età. Invalidità.

    Dolori, cure, rinunce, vincoli, limiti, divieti. Salute, non-salute. Restava altro da fare?

    Ogni volta che questo grumo gli affiorava avvertiva una fitta intercostale. Al cinema, guidando, con un boccone in bocca, leggendo, tagliando le unghie, sotto la doccia. In facoltà non avveniva. In facoltà si dedicava agli studenti, li stimolava ricevendone stimoli. Con gli allievi si costruiva un mondo su misura, adatto ad assorbire energie e che isolava dalle inquietudini. Era una delle sue vite. Convinto Fernando che se ne hanno più di una in contemporanea.

    Tecla era allibita, come solo poteva essere.

    Ogni volta nel solco della fitta gli scorreva la domanda su che cosa avrebbe dovuto fare per intendere se fondata la propria ipotesi. E, nel caso, per intervenire.

    Se, intervenire.

    Contro la vecchiaia invalidante. La loro.

    Contro loro dunque. O a loro favore.

    Erano osservazioni che teneva per sé senza neppure crederle fino in fondo, da un lato; dall’altro le condivideva, augurandosi fossero anche in loro.

    E che attuassero la scelta conseguente. Erano abbastanza intellettuali per pensarlo? Ne dubitava. Abbastanza debilitati, quindi sensibili, sì.

    Al termine di queste congetture sempre s’imponeva la domanda se fosse suo dovere aiutarli nel concretizzare la scelta; o se dovesse sostituirsi a loro, qualora così sfatti d’essere privi di autonomia.

    Del decadimento fisico si lamentavano a ritmo crescente, in sua madre maggiore.

    C’era altro oltre le lamentele?

    Ora aveva la risposta.

    ***6***

    Sicché ci erano giunti.

    Bravi. Anche nel conservare il segreto, bravi.

    Magari persino nell’intendere i suoi dilemmi e prevenirlo.

    Fosse così, seppe mentre ascoltava Tecla, erano da ringraziare. Con astrattezza lo seppe. E un brivido. Ma loro non potevano sapere dei suoi dilemmi, perché mai un accenno lui. Con nessuno.

    Bravi anche nel prepararsi. A letto.

    Come? Pigiama e camicia da notte? A Tecla non aveva avuto modo di chiederlo. Per la concitazione di Tecla, per l’assommarsi delle urgenze. Formali. Le altre, inutili per sempre.

    Li aveva visti che in pigiama e camicia da notte. E mano nella mano. Don Vincenzo aveva tenuto a sottolinearlo. Era rimasto ad attenderlo per comunicarglielo di persona, neanche lui fosse così cieco da non vederlo da sé.

    ***7***

    Allibito don Vincenzo. Non si capacitava l’avessero fatto. Gliela avessero fatta.

    "Ero venuto a trovarli a fine maggio – ripeteva guardando Tecla per ottenerne conferma – Prima, per Pasqua e avevo somministrato la comunione. Avevano i loro problemi, si sa, l’età era quella che era, le malattie anche, tante, poveretti, però

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