Il nostro tempo è terminato
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Il nostro tempo è terminato - Salvatore Parise
Table of Contents
Salvatore Parise - Il nostro tempo è terminato
Salvatore Parise IL NOSTRO TEMPO È TERMINATO
IL NOSTRO TEMPO È TERMINATO
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Profilo biografico
Salvatore Parise - Il nostro tempo è terminato
Musicaos Editore, 2018
Fablet, 9
Progetto grafico
Bookground
Illustrazione di copertina Carbouval
I personaggi e i fatti descritti nel romanzo sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti e a persone reali è puramente casuale.
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano – tel. 0836.618.232
www.musicaos.org
info@musicaos.it
Isbn 97888949660202 (ebook)
Isbn 9788899315894 (libro)
Salvatore Parise IL NOSTRO TEMPO È TERMINATO
IL NOSTRO TEMPO È TERMINATO
1
«Allora? Ramy! È il quinto messaggio vocale che ti invio, fai finta di non sentire! Lo so che sei in doppia cuffia, sento le tue dita battere sulla tastiera, non venirmi a dire anche questa volta che eri in video conferenza col professore! Ramy?!? Ho in chat la Titty e la tintura ad orgoni a caldo sulla testa. Ramy?!?»
La madre spazientita mette in attesa l’amica Titty, toglie l’auricolare, attraversa il corridoio col collo rigido come se i capelli potessero caderle di dosso; le mani a mezz’aria per fare asciugare le unghie; è dietro la porta della stanza del figlio, bussa con i piedi. «Ramy?!? Scollegati immediatamente e apri questa porta!» – batte col palmo della mano sulla porta, controlla le unghie. Ramy gira la testa – la voce si fa improvvisamente più dolce, scorge il suo fondoschiena riflesso dalla finestra; tira un po più su la tuta attillata, si alza sulle punte – «Ramy» – come se stesse chiamando l’amante. Un breve e acuto segnale di notifica proveniente dalla cucina l’avvisa dell’arrivo di un nuovo messaggio, potrebbe essere la Titty; punta di nuovo i suoi occhi infuocati sulla porta e inizia a prenderla violentemente a calci. «Ramy! Se non apri questa porta stacco la corrente» non l’avrebbe mai fatto «ti vieterò per sempre il letto palmare digitale», le dita del figlio correvano velocissime sulla tastiera; quel ticchettio, la mandava su tutte le furie, più di ogni altra cosa; chissà di cosa stavano parlando in chat; chissà se la Titty era ancora online, «niente più doccia crepuscolare, ti spegnerò il cane! Sì, adesso vado e spengo per sempre quel brutto mostriciattolo peloso! Ramy, non vuoi più bene alla tua mamma?» – voce rotta dal pianto – «non vuoi più vedere il tuo cagnolino? Lo sai che mamma non te lo spegnerebbe mai, mamma non ti farebbe mai una cosa del genere, cuoricino mio» – di colpo l’illuminazione – «cuore mio, ti regalerò il microchip per la notte» – oramai la madre di Ramy lisciava la porta con tutte e due i palmi delle mani. Il ticchettio velocissimo sui tasti di colpo si arrestò; anche il cuore di lei sembrò bloccarsi per un attimo; poggiò l’orecchio sulla porta, in attesa: sentiva Ramy liberarsi dalla doppia cuffia, adagiarla su enormi matasse di filo elettrico – il suo cuore riprese a pompare violento – udì la sedia spostarsi, breve e fulmineo ticchettio sui tasti, e poi la musichetta che annunciava lo spegnimento del computer. Il viso della madre si inondò di lacrime; erano giorni che non sentiva quella soave musica, una colonna sonora dolce che le ricordava la bellezza e l’importanza di essere madre. Una vittoria.
La chiave gira, sei, sette volte, la porta si apre lentamente, l’occhio di Ramy spalancato, impaurito, spia come se stesse giocando a nascondino o qualcosa del genere. Squadra la madre da sotto a sopra: le pantofole di peluche a forma di smartphone; la tuta attillatissima, la vagina gonfia che lui guarda per mezzo secondo, un anello infilato nell’ombelico scoperto, canotta bianca con stampa Monnalisa pop, collo bianco, morbido, labbra rosse di rossetto, occhi neri sul viso bianco reso ancora più bianco dall’impasto nero catrame sulla testa.
«Perché piangi?» disse senza tono – il suo occhio mobile andava da sotto a sopra. La madre spalancò la porta: «ma che ne sai tu, sciocchino». L’abbracciò.
Adesso i due visi erano uniti, guancia a guancia – lei si infastidì per il pungente odore di acido sudore elettrico che la investì. Riprese di nuovo a piangere, strinse gli occhi, li riaprì subito in preda allo spavento: il figlio era di ghiaccio, le braccia penzolanti ondeggiavano ad un minimo tocco, le sembrava di abbracciare una cosa inanimata, e stringendolo in preda all’emozione credette di fargli male, di stritolarlo. Staccò la guancia dalla sua, lo fissò negli occhi per qualche secondo e poi lo riabbracciò forte forte. Le braccia di Ramy penzolavano come due impiccati – la madre gli sussultava dentro la cassa toracica, ma niente: come se col computer si fosse spento pure lui.
Erano ancora guancia a guancia, l’intensità emotiva della madre sembrò scemare d’improvviso; spalancò gli occhi, quando vide il letto di Ramy in perfetto ordine – «Chissà da quanti giorni non dorme» – tre schermi collegati a due computer, cuffie, due smartphone, hi–watch, occhiali 6D, sulla parete residui tecnologici formavano la scritta Stay Hungry Stay Foolish, sul soffitto roteavano ologrammi a lei incomprensibili. Adesso era di nuovo padrona di se stessa, l’emozione era quasi del tutto svanita; si staccò dal figlio quasi meravigliata, turbata, come se davanti a lei ci fosse uno sconosciuto: si asciugò un po gli occhi e li buttò nell’abisso degli occhi di Ramy.
Occhi cerchiati, una sottile linea rossa seguiva le ciglia a bordo palpebra incorniciando la pupilla; ogni tanto batteva le palpebre lentamente: la fissità del suo sguardo ameno avrebbe potuto uccidere una persona senza il minimo tocco. Capelli neri, unti di lucido, qualche ciuffo sulla fronte e sul viso bianchissimo; basette incolte coprivano quasi tutte le orecchie; un viso bianco scavato su due labbra rosse quasi carnose, fresche d’adolescenza; braccia penzolanti in un pigiama beige leggermente grande, che accentuava la sua magrezza. Sembrava appeso dentro al pigiama. Macchioline di sperma incrostate sui pantaloni beige che andavano a finire abbondantemente sotto i suoi piedi ricoperti da calze misto lana blu.
«Guarda chi c’è», disse la madre quasi rinvigorita. Un bassotto dagli occhi intermittenti si avvicinava scodinzolando: non aveva un’andatura regolare, la coda non aveva quel movimento fluido e rapido; era lento, maledettamente lento. Le labbra di Ramy si mossero a un impercettibile accenno di sorriso, gli occhi non tradivano la benché minima emozione, sembravano dipinti. «Mà?!»
«Dimmi, cuoricino mio.»
«A momenti lo perdevamo», la sua voce senza tono, senza suono, sempre uguale, fece girare la testa alla madre che dovette fare uno sforzo notevole per mantenersi lucida e non cadere a terra svenuta: indossò un sorriso che era una tragedia. Il cane strusciava la testa sulla gamba di Ramy. «Ma no, figliolo, ti sbagli, guarda», si allontanò di qualche metro, si accucciò a terra e sfregando pollice ed indice chiamò il cane a sé, «Wordy! Hey bello, vieni che ti dò una cosa». Wordy alzò un orecchio, lentamente alzò la coda, andò verso la padroncina con le sue tre zampe; la posteriore destra aveva smesso di funzionare.
«Hai visto, Ramy? Funziona ancora alla grande, è vivo! Poi sai benissimo che sei tu quello che deve badare al cane, quando lo hai costruito noi abbiamo capito che hai delle capacità, ma ti ricordi che all’inizio eravamo contrari, cuoricino della mamma, te ne ricordi? Dai, adesso andiamo in cucina, lo metteremo in carica mentre pranziamo.»
«Mamy.»
«Dimmi, amore.»
«Perché prima piangevi?»
2
La madre attraversa velocemente il corridoio, piomba sul suo cellulare, clicca sull’icona verde di whatsapp: Titty, offline. Una vampata di calore le sale improvvisa in testa, legge l’ultimo messaggio dell’amica: «Visto che non mi rispondi io stacco, devo preparare assolutamente una doccia crepuscolare per il mio Ziggy. È uscito dalla sua stanza dopo due giorni... giovani d’oggi», seguono quattro faccine emoticon sorridenti con le lacrime agli occhi.
«Vanity?» – voce baritonale proveniente da grossa cassa toracica – aveva cercato di metterci tutta la dolcezza possibile: sarebbe stato capace di esprimere tutta la sua quindicennale sottomissione, di comprimerla miracolosamente in una parola? Niente.
«Loser?» – girando la testa di scatto, come se il marito si fosse materializzato d’improvviso – «che voce indegna che hai!» – ancora a denti stretti, con voce un po rauca – «Che c’è? Cosa vuoi? Non vedi che sono impegnata?» Il marito d’istinto abbassò gli occhi e un po la testa: «No, Vanity, no, era per dirti…»
«Cosa Loser, cosa?!?» urlando, stringendo gli occhi, le vene delle tempie ingrossate, la saliva agli angoli della bocca.
«No, era solo...»
«Parla Loser, parla per Dio, adesso muoio!»
«Eri davanti al plasma tv», come a confessare il più atroce degli omicidi.
«Davanti al plasma tv?» – poggia il cellulare