L'incredibile storia di Cursi di Piandiscò
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L'incredibile storia di Cursi di Piandiscò - Franco Quercioli
soprannome.
CAPITOLO 1
Alla fine del 1800
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DATE STORICHE DEL REGNO D’ITALIA:
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Il nostro racconto ha le sue radici che risalgono praticamente a due secoli fa. Mio nonno ha vissuto solo 70 anni, ma nella sua memoria conservava i ricordi almeno del suo nonno, se non anche precedenti, e quindi risaliamo quasi ai primi anni del 1800; inoltre la sua vita continua anche nel ricordo che io conservo di lui… ed arriviamo ai giorni nostri; poi morirà con me, ma sto scrivendo appunto questo libro per farlo vivere ancora a lungo.
Dei racconti che gli hanno narrato i suoi genitori e i suoi nonni non so niente, ma sapere che quelle persone hanno vissuto negli stessi anni in cui erano vivi ed operavano i grandi uomini del nostro Risorgimento (il re Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso Conte di Cavour, Giuseppe Mazzini, …), mi fa pensare che il ricordo delle loro gesta fosse ancora ben vivo nella gente d’Italia e che anche mio nonno abbia vissuto di riflesso l’eccitazione e l’orgoglio, che dovevano riempire il cuore degli Italiani (anche se magari non proprio tutti).
Francesco Cursi nacque il 29 aprile 1893 a Montevarchi (Arezzo) (appena 11 anni dopo la morte di Garibaldi) in una povera famiglia contadina, con altri tre fratelli (Giovanni, Ottavio e Ferruccio) e due sorelle (Teresa e Giulia). Purtroppo non ho alcuna testimonianza del periodo della sua giovinezza; lui era un uomo di poche parole e comunque con pochissimo tempo da dedicare alle chiacchere
. Poi è morto quando io avevo 13 anni e i miei ricordi dell’epoca si limitano a pochi particolari; Dei suoi pochi racconti e dei semplici commenti ricordo un particolare della Prima Guerra Mondiale (che vi dirò nel seguito), la sua scarsa considerazione dell’America e degli Americani (da buon comunista), le sue abbastanza frequenti spiegazioni sulla lavorazione del pane (probabilmente ha anche sperato che io potessi proseguire la sua attività di fornaio), le bonarie minacce di usare la cinghia
dei pantaloni se non obbedivo (a volte se la toglieva per farmi vedere che l’avrebbe potuta usare davvero, ma non l’ha mai fatto)… Da quello che mi raccontavano i miei genitori, la sua doveva essere una famiglia molto povera. Ha frequentato le scuole elementari, ma solo fino alla seconda, o al massimo la terza classe. All’epoca poi la frequenza scolastica era anche necessariamente legata alle esigenze dei raccolti nei campi; anche i bambini più piccoli dovevano dare il loro aiuto nei momenti di maggiore esigenza (il raccolto, la trebbiatura del grano, …). A scuola si andava se e quando possibile. E questo non dovrebbe meravigliare molto, se si pensa che anche almeno fino al 1945, erano in tantissimi i bambini che aiutavano nel lavoro già dalla tenera età di 5 – 6 anni e altrettanti quelli che non superavano l’istruzione elementare (mia madre ha smesso a metà della quarta elementare e mio padre ha finito appena la quinta). Bisogna sempre ricordare che il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II diventa re d’Italia e proprio in quell’anno si scopre da un sondaggio che l’80% della popolazione dell’Italia unita non sa né leggere né scrivere. Il nostro Paese provò a porre rimedio a questa terribile realtà (e al ritardo rispetto agli altri paesi europei) con la legge Coppino del 1877. Questa legge portò la durata del primo ciclo di istruzione scolastica a 5 anni e introdusse l'obbligo scolastico fino al primo triennio delle elementari. L’obbligo fu comunque effettivo (ma spesso non rispettato) solo per i primi due anni (tanto che, con la riforma della legge elettorale del 1882, il diritto di voto fu esteso a chi avesse frequentato i primi due anni di scuola o pagasse almeno 20 lire di tasse annue e naturalmente solo agli uomini). Ma per comprendere la situazione educativa alla fine del 1800 bisogna ricordare anche che nel 1894 (mio nonno aveva un anno) il ministro della pubblica istruzione Baccelli, nel programma sulla riforma della scuola, disse che "E’ sufficiente insegnare a leggere e scrivere, dare maggior risalto all’educazione domestica, mettere da parte l’educazione alla critica… infatti, l’istruzione può risultare rischiosa per chi esercita il potere, in quanto può avere l’effetto di rompere equilibri consolidati". Da tutto ciò è facile comprendere come anche l’obbligo di frequenza nel primo triennio delle elementari fosse molto scarsamente sia rispettato, che imposto. Il successivo intervento legislativo in materia fu la riforma del Ministro Giovanni Gentile del 1923, che portò l’obbligo scolastico all’età di 14 anni; ma il governo fascista era rigoroso sull’applicazione di questo obbligo solo fino alla terza elementare (e già fu comunque un enorme passo avanti: in 20 anni l’analfabetismo degli italiani passò dal 35% al 12%). Data l’ancora diffusa povertà della popolazione, anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, i successivi governi democratici imposero un obbligo rigoroso solo fino alla quinta elementare. E solo con la riforma della scuola media unica, nel 1963, l’obbligo fino a 14 anni è divenuto davvero effettivo. Da queste consi-derazioni deriva che mio nonno, iscritto alla prima elementare nel 1899, frequentando anche la seconda, o al massimo la terza elementare, aveva conseguito un grado di istruzione appena sufficiente a leggere e scrivere, e saper usare solo l’aritmetica più elementare. Ma era anche uomo di grande intelligenza, grande forza di carattere e decisa caparbietà; per cui riuscì ad ottenere competenze da autodidatta che lo elevarono a sufficienza dalla iniziale condizione di minima alfabetizzazione.
Mio padre amava raccontare che, prima della seconda guerra mondiale, moltissime famiglie vivevano in una povertà tale che la carne era per loro un lusso inarrivabile. Le storie più eclatanti che amava portare ad esempio erano le seguenti:
1)Il pane bianco (poco) veniva mangiato come una vera leccornia, accompagnato da tanto pane nero (quello che oggi chiamiamo integrale, ma che ora è molto più raffinato).
2)Un piatto molto comune era la polenta, che veniva stesa direttamente sul tavolo e che tutti i commensali consumavano insieme, raccattandola direttamente con il cucchiaio (o anche con le mani). Sulla sommità della polenta venivano appoggiate alcune salsicce, in quantità tale che, finita la polenta, ne toccasse un pezzettino a testa (di certo mai una intera).
3)Un’altra usanza divenuta a dir poco leggendaria era quella dell’aringa appesa al soffitto con uno spago. Tutti i componenti della famiglia sbattevano due fette di pane (nero) sopra l’aringa (a tipo sandwich), in modo da assorbirne un po’ il sapore e naturalmente si mangiavano quel pane da solo. Quando poi l’aringa iniziava a sciuparsi e perdere consistenza, allora potevano prenderne un pezzetto a testa.
Non sono mai riuscito a sapere quanto queste storie fossero vere, a quale periodo storico fossero riferite e quanta parte della popolazione si trovasse in tale stato di povertà… ma, durante la mia infanzia e anche nell’adolescenza, ho sentito questi racconti da tante persone (non solo da mio padre) e, studiando anche molti resoconti storici accreditati, ho dovuto concludere che si trattava purtroppo della verità. Del resto, sempre nel 1861 il 70% della popolazione lavorativa risultava occupato nell’agricoltura e nella pesca (mentre l’industria occupava poco meno del 20% e i servizi poco più del 19%), quindi l’Italia si reggeva su un’economia decisamente povera e di scarsissima produttività. La prima rivoluzione industriale non aveva ancora portato miglioramenti di rilievo e, oltretutto, l’Italia era anche rimasta più arretrata della media dei paesi europei. Sommando a tutto questo il fatto che l’80% della popolazione era ancora analfabeta, è facile immaginare in quale stato di indigenza vivessero la maggior parte degli Italiani. Come vi racconterò nel seguito di questa storia, io stesso sono stato testimone di esempi di povertà non molto lontani da quelli sopra descritti.
E penso davvero che anche la famiglia di Francesco si sia molto avvicinata a tale situazione. Non per niente mia madre mi raccontava che il nonno aveva pensato seriamente di emigrare in America e che era rimasto qui solo perché c’era lei, oltretutto già orfana della mamma a soli due anni (morta al parto del secondo figlio, assieme al neonato).
In quegli ultimi anni del 1800 l’Italia stava subendo le conseguenze negative della politica espansionistica e coloniale voluta dal presidente del consiglio Francesco Crispi, che era ossessionato dall’idea di portare l’Italia allo stesso livello delle grandi potenze di allora. Nel 1890 era nata la colonia d’Eritrea e, dopo varie scaramucce di ordine politico, l’Italia iniziò nel 1895 una lunga e dispendiosa guerra contro l’Etiopia (guerra d’Abissinia). Le enormi spese militari sostenute ritardarono inevitabilmente il decollo industriale italiano. Tra il 1898 e il 1899 la fame e la disoccupazione portarono il paese in una situazione drammatica. Fra gennaio e luglio del 1898, i tumulti popolari si estesero a moltissime città in tutta la penisola. Il governo reagì alle proteste con estrema