Nati per morire
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Un evento che lacera la trama del passato e che arriva fino a oggi. Fili di un enigma che il maresciallo Spada dovrà riannodare uno a uno per scoprire che dietro la fuga di un bambino è nascosto un segreto terribile.
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Book preview
Nati per morire - Giorgio Simoni
Giorgio Simoni
NATI PER MORIRE
Prima Edizione Ebook 2018 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868103552
Copertina
Progetto grafico
Massimo Casarini e Fabio Mundadori
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
Giorgio Simoni
NATI PER MORIRE
Romanzo
INDICE
Personaggi
Nota del maresciallo
Prima dell’1
1 – La caserma dell’Arma
2 – Un medico sbadato
3 – La sparatoria
4 – Il bambino rumeno
5 – Il risveglio
6 – Mangiavento
7 – I Ludici
8 – Il primo messaggio
9 – La stagista
10 – Ezio Santellini
11 – Controllo a I Ludici
12 – Il secondo messaggio
13 – La morte non dorme
14 – Un ciclista agitato
15 – La fuga
16 – Il terzo messaggio
17 – Colazione da Eminguei
18 – Il quarto messaggio
19 – L’ospedale
20 – Don Turbino Casati
21 – Prendiamo una decisione
22 – Al convento
23 – Vera Saltarigo
24 – Il direttore Viganò
25 – Dov’è Yari
26 – Che giornata!
27 – La partita
28 – La malattia
29 – Alla ricerca di Yari
30 – Al mare
31 – Il maresciallo Tiralongo
32 – Il quinto messaggio
33 – L’atroce sospetto
34 – Recuperiamo Yari
35 – L’inseguimento
36 – L’ira di Spada
37 – La Libellula colpisce
38 – L’incidente
39 – L’ospite
40 – Il segreto di Mangiavento
41 – Insonnia d’inferno
42 – La rivelazione
43 – Nella tana del lupo
44 – Clarissa è gelosa
45 – Un accordo coraggioso
46 – Ogni cosa al suo posto
Dopo il 46
Ringraziamenti del maresciallo
L’autore
Personaggi
Ettore Spada: maresciallo
Dora Panerai: capitano
Giordano Scarelli: brigadiere
Attilio Scolaborsa: appuntato
Oliviero Sibari: medico legale
Pintacuda: procuratore capo
Antonio Benedetti: sostituto procuratore
Clarissa Oggiano: dottoressa e fidanzata di Spada
Manlio Marmugi alias Eminguei: barista - ristoratore
Tullio Merini: medico chirurgo
Yari Dragan: bambino rumeno
Vera Saltarigo: assistente sociale
Giacomo Saltarigo: figlio di Vera
Amelio Santi alias Mangiavento: clochard
Simona Curani: moglie di Amelio Santi
Marta Santi: figlia di Amelio e Simona
Artemio Ferrucci: ciclista
Lucio Viganò: direttore casa di accoglienza I Ludici
Suor Concetta Corfù: suora carmelitana
Camilla Capezza alias Tigrottina: stagista laboratorio analisi ospedale
Don Turbino Casati: parroco
Ezio Santellini: funzionario di banca
Eva Santellini Dari: moglie di Santellini
Marco Santellini: figlio di Eva e Ezio
Eugen Petru: zio di Yari
Nunzio Tiralongo: maresciallo
Sergio Felician: carabiniere
Nota del maresciallo
Sono Ettore Spada, comandante della stazione dei carabinieri di Fittoneta e con questa nota volevo solo informarvi che i personaggi e la vicenda raccontati in queste pagine, sono frutto della fantasia dell’autore e se anche casualmente trovaste delle somiglianze con luoghi, fatti o persone di vostra conoscenza, l’assimilazione è stata del tutto involontaria e casuale. Buona lettura.
Ettore Spada
Prima dell’1
Fittoneta, maggio 2007
Amelio Santi guardò la moglie seduta dall’altra parte del tavolo e le sorrise. Lei sostenne il suo sguardo, gli occhi verdi brillarono e finalmente un timido sorriso le illuminò il volto. Amelio fece scivolare il palmo sulla tovaglia e le prese la mano stringendola con dolcezza, rimase a fissare i suoi lineamenti sottili e soffiò a uno dei boccoli biondi e ben curati che le era scivolato sulla fronte. Anche in quel momento magico, vide passarle negli occhi un impercettibile disagio. Cercò di non badarci e si avventurò sul vestito leggero a fiori, che le accarezzava la figura esile, mettendone in risalto le rotondità. Era bella, sì, per lui era bella, anche se ciò che contava davvero era dentro al cuore. E nel suo cuore c’era sicuramente Marta. Anche lui, certo, lo sapeva, ma Marta era più importante. Amelio si voltò a guardare le due sedie poste una accanto all’altra. La bambina era avvolta nel giacchettino e dormiva. A quell’ora, aveva ceduto alla stanchezza Le sue guance arrossate spiccavano in quel faccino dolce. Era così tenera, un bocciolo a primavera. Aveva appena compiuto tre anni ed era la cosa più bella che avessero mai fatto nella vita.
Il locale dove sedevano era sbiadito come una cartolina antica. Il pavimento in graniglia, le vetrate con le tendine in poliestere e i tavoli con il piano in formica, erano ancora quelli degli anni ottanta. L’insegna all’esterno, ricavata da una grande tavola lavorata dal mare, declamava: Eminguei
.
La cena era finita, avevano mangiato rispettando gli usi del locale: menù a sorpresa, ma sempre e solo pesce. Nei piatti c’erano le lische delle orate, fresche di giornata, altrimenti niente… il pesce surgelato Eminguei non sapeva nemmeno che esistesse. Se la giornata di pesca della marineria locale non era andata bene, o il mare non aveva permesso di uscire, allora solo bruschette, toast e caffellatte coi biscotti. La bottiglia di Vermentino di Bolgheri era lì sul tavolo, vuota. Avrebbe dovuto far salire lo spirito, ma Amelio non credeva che fosse riuscita nell’intento. Con un filo di speranza tornò a nutrirsi dell’energia magnetica che comunque lo sguardo di sua moglie riusciva a esprimere.
— Buon anniversario — le sussurrò.
— Anche a lei professor Santi… — scherzò la donna senza convinzione, poi aggiunse: — Lo sai che dovrei dimenticarmi del lavoro, per rendere questa serata meravigliosa.
— Simona perché non riesci a liberarti… almeno questa sera. — La guardò contrariato. — Lascia stare il resto e pensiamo a noi. — E si voltò ancora verso la piccola Marta.
— Hai ragione, ma è proprio per questo… per lei — esitò Simona. — I bambini sono tutti uguali. Sono tutti… nostro figlio. O sbaglio?
Amelio vide gli occhi della moglie incupirsi e improvvisamente riempirsi di lacrime; l’attimo di spensieratezza era già finito, anzi, non era nemmeno iniziato. Lei non sarebbe stata più come prima.
— Non puoi… — brontolò Amelio, — Non possiamo… — ripeté, poi la fissò deciso: — Faremo quello che c’è da fare. Non possiamo vivere così.
— Ho tante di quelle prove in mano che sarà impossibile, anche per un maledetto tribunale fasullo, renderle inattendibili. — Si sfogò Simona accarezzando delicatamente il viso di Marta. Poi lo guardò addolcendo la voce: — Scusa.
— Non sarà facile Simona, ma dobbiamo farlo e… lo faremo — la rassicurò lui.
Quando uscirono dal locale, Amelio teneva Marta tra le braccia, ancora addormentata. Alzò lo sguardo al cielo. Di maggio, con quella nitida profondità, gli sembrò di sbirciare lo sfondo di un caleidoscopio. Le lucine brillanti si moltiplicavano in un ghirigoro magico e seducente. Tornò a guardare Simona e, lungo la via, la fila diligente dei lampioni spennellava d’arancio la dolce aria della sera. Le biciclette erano appoggiate al primo lampione della fila. Lei ne prese una e montò in sella. Lui si avvicinò e con delicatezza sistemò Marta nel seggiolino, tirò le cinghie e le fissò al punto giusto. Le fece una carezza e vide i suoi occhi chiudersi, la testa reclinò fino ad appoggiarsi allo schienale; era già tornata al suo sogno. A quel punto si scostò, prese l’altra bicicletta e salì in sella. A quell’ora, con il traffico azzerato, era ancora più piacevole pedalare sui dolci falsipiani della città. Forse era un uomo vecchio stampo, ma il caos di adesso non gli piaceva. Forse la bicicletta avrebbe ancora potuto salvarli tutti. Un mondo più slow
poteva far recuperare i rapporti, forse la ragionevolezza, forse un po’ di educazione… forse.
Amelio si concentrò di nuovo su Simona e quando la vide partire, iniziò a pedalare rimanendole alle spalle per tenere d’occhio Marta seduta sul seggiolino. In prossimità di ogni lampione si divertiva a guardare le ombre scorrere da una ruota all’altra, come se quel corridore invisibile si divertisse a sorpassarli per prendersi gioco di loro. Intanto le mani di Marta sporgevano dal seggiolino, lucide e rigogliose come acini di uva fresca. Si sentì bene, anche se quel mondo non era così bello come poteva sembrare guardandolo riflesso negli occhi di un bambino.
Amelio fu costretto ad abbandonare i suoi pensieri, attratto dal rombo di un motore potente che si stava avvicinando. Stavano per affrontare il sottopassaggio della ferrovia, quando un grosso SUV li superò a velocità sostenuta dileguandosi oltre la fila dei pini del viale di Marina. A conferma di quanto stava pensando prima, sul pianeta, di rappresentanti dell’umana demenza ce n’erano proprio tanti. Accigliato alzò la testa e si accorse che Simona si era allontanata; aumentò l’andatura e impegnandosi sui pedali cercò di riavvicinarsi. Dal fondo del viale avvertì ancora il rombo di quel campione transitato poco prima. Sicuramente stava tornando indietro. Si preoccupò di raggiungere Simona, ma era ancora troppo avanti, avrebbe voluto gridarle di fermarsi, ma i fari del grosso automezzo ingigantirono avvicinandosi. Non ebbe nemmeno il tempo per rendersi conto da quale parte della carreggiata si trovavano. Si rese conto soltanto che erano vicini… troppo vicini! Un attimo dopo un rumore lacerante gli squarciò la mente. Ebbe solo il tempo di vedere sua moglie e sua figlia scomparire in quel bagliore di luce azzurra. Sentì un brivido gelido bloccargli il cuore, poi l’uragano luminoso si avventò su di lui. L’impatto fu tremendo, la bicicletta s’accartocciò tra le mani e lui volò, non avrebbe saputo dire per quanto tempo, forse non lo avrebbe saputo mai.
1 – La caserma dell’Arma
Fittoneta, sette anni dopo: luglio 2014 - lunedì
— Allora Spada, che cos’ha stamattina? Mi sembra più scocciato di sempre. Ha capito che deve dirmi come si trova in questa compagnia? Devo compilare il format del Ministero… — insisté Dora Panerai. — E voglio sapere se nella testa le frulla qualche idea per migliorarne l’efficienza — continuò lei, abbassando lo sguardo sul foglio, per non irritarsi ancora di più per l’atteggiamento apatico del maresciallo.
— E lei, signor capitano, come si trova qui a Fittoneta? — chiese Spada rilassato, mentre continuava a far piroettare tra le dita un lapis arraffato dal portapenne lì vicino.
Dora, allibita, alzò lo sguardo dall’elenco di quesiti e quadratini da smarcare e cercò di capire le intenzioni del maresciallo, ma il suo atteggiamento parlava da solo e prima di rispondere esitò un attimo. Era o non era lei il capitano lì dentro, quel grado le era costato anni di studio e disciplina ferrea. Era uscita dall’accademia con il massimo dei voti e ora non poteva farsi prendere per il culo da quel… paraculo, e il gioco di parole l’avrebbe anche divertita se ora non avesse già oltrepassato il limite della sopportazione. Per aumentare l’effetto del suo rimprovero adombrò decisamente il viso e incupì ancora di più gli occhi neri. Adesso erano un pozzo profondo, dove brillava il riflesso di una spregiudicata vitalità. La tempesta ormai era montata, e grandi cavalloni spumeggianti spingevano la sua determinazione.
Dora spostò il peso sulla poltroncina, si avvicinò alla scrivania e squadrando il maresciallo, fece fuoco, ma solo con la lingua: — Allora Spada, se non la smette di trattarmi come una sprovveduta, giuro che la faccio trasferire! Lontano! Molto lontano. — Non aveva ancora finito, ma osservò comunque le reazioni del sottufficiale e notò la sua calma imposta. Sperò davvero nel suo buonsenso. Aveva letto il suo curriculum e sapeva che quel quarantenne ancora in forma, era anche un ottimo elemento. Ma se continuava a guardarla con quel sorrisetto da ho tutto sotto controllo
come poteva andarci d’accordo? Anche se, per essere onesta con se stessa, Spada era un bell’uomo e la divisa d’ordinanza lo migliorava. Ma quella consapevolezza, così ostentata, lo rendeva davvero caustico e, anche se gli uomini sicuri di sé alla fine le piacevano, adesso era arrivato il momento di marcare il confine.
Dora trattenne per un attimo il respiro e, avvicinandosi ancora, sbottò: — Allora vuole collaborare o no?
— D’accordo… forse ho esagerato, ma volevo solo aiutarla — disse Spada rimettendo il lapis al suo posto per poi ricomporsi in una posizione più attenta.
Dora lo seguì in quei gesti studiati e apprezzò lo sforzo del collega, finalmente le sembrava ben disposto e quella specie di resa, le ridette la carica. Almeno quell’impenitente dimostrava di conoscere l’educazione
. Stava per riprendere da dove s’era interrotta col questionario, ma Spada la anticipò: — Scusi, non me ne voglia, ma per l’appartamento ha risolto? — E lo vide sfoderare ancora quel sorriso ruffiano.
— Ancora? Allora non ha proprio voglia di ascoltarmi. Lo facciamo o no questo maledetto questionario? Vorrei migliorare l’organizzazione di questa compagnia e devo inoltrare questa relazione entro le diciassette!
— Sì, ho capito, ma ero curioso di saperlo, perché…
— Basta Spada! Lei non deve occuparsi di me. Lei deve rispondere alle domande. Non ne posso più — si lasciò sfuggire Dora, allo stremo.
— D’accordo signor capitano, come vuole, ma l’unica cosa che si può migliorare qua dentro, è il distributore del caffè… quello che c’è, ruba le monete e spesso non dà la bevanda. Per il resto, non si cambiano le condizioni di una compagnia con quattro croci su un questionario. Si dovrebbe cambiare l’Italia… e gli italiani, allora sì.
Dora sentì un fremito montarle dentro, dovette contare fino a dieci, certo non poteva sperare che, al suo primo incarico, fossero tutte rose e fiori. Uno stronzo doveva metterlo in conto. Senza perdere la calma abbassò la penna e fissò scoraggiata la faccia da saputello che il maresciallo le mostrava impunemente; avrebbe voluto schiaffeggiarlo.
— Non mi guardi così dottoressa — riprese Spada facendosi più serio. — Abbiamo il tetto massimo di spesa anche sulla carta carburanti, ma dove vogliamo andare!
— Va bene Spada, ho capito. Oggi con lei non c’è niente da fare. Se ne vada a fare un bel giro di ricognizione e mi mandi su Scarelli… Grazie!
Quel grazie
era uscito dalle labbra ben disegnate di Dora, gelido come un chicco di grandine, e si era abbattuto con tutta la sua forza sulla determinazione del maresciallo.
— Agli ordini, andrò in perlustrazione, — rispose Spada: — Sempre che ci sia gasolio nel serbatoio — aggiunse per avere l’ultima parola.
— Vada fuori maresciallo!
Ettore piegò leggermente la testa e indugiò nel dietrofront. L’ufficio del capitano era molto più grande del suo e questo gli era sempre scocciato. Però in quel momento apprezzò la comparsa di una bella pianta di ficus al margine del tavolo per le riunioni. Notò anche le tende che gli sembrarono diverse, ma forse la differenza stava solo nel fatto che adesso venivano usate e si trovavano in posizione diversa. Senza dubbio quella stanza si era trasformata; rispetto allo squallore di prima, adesso era molto più accogliente. Non c’era niente da fare, doveva ammetterlo, quella ragazza gli piaceva. Quando si arrabbiava poi, gli pareva ancora più sexy. Era intelligente e con gli attributi giusti per far valere il proprio ruolo anche con i furbetti come lui. Se l’Arma per riorganizzarsi e reggere il confronto con le nuove tecnologie aveva scelto giovani laureati così competenti, c’era ancora speranza. Sempre che i vecchietti
come lui, con i gradi conquistati a suon di azioni pericolose e udienze in tribunale, con tanto di tirata di orecchie da parte del sostituto procuratore di turno, avessero potuto continuare a fare da professori sul campo. Un aiutino agli inesperti neofiti per districarsi tra l’intransigenza della legge e la tolleranza della strada, senza uscirne travolti, poteva sempre essere utile.
Anche se il colloquio non si era svolto come voleva, uscì dall’ufficio della Panerai con il sorriso sulle labbra. Non c’era dubbio, da quando lei era arrivata al comando compagnia il lavoro era più divertente. Con quella consapevolezza, imboccò il corridoio e subito sentì il passo elastico e inconfondibile del brigadiere Scarelli che saliva le scale. Appena svoltato l’angolo se lo trovò di fronte. Per non urtare quel fascio di muscoli arrotondati, si fece da parte e gli sorrise. Quel ragazzone era entrato nell’Arma grazie all’atletica leggera e ancora si allenava quotidianamente mantenendosi in forma perfetta. Senza dargli il tempo di parlare gli scricchiò un occhio e disse: — Vai… che tocca a te.
Vide la faccia del brigadiere aprirsi al sorriso, sembrava uno di quei duri dei film americani: capelli biondo cenere, mandibola squadrata, occhi scuri, a dire la verità un po’ piccoli, ma comunque era sempre un bel figliolo. Alla fine fece una smorfia e chiese: — L’hai fatta arrabbiare di nuovo?
— No. Come sempre, piccoli scambi di vedute — Ettore si interruppe e batté una pacca sulla spalla del trentenne.
— Qualche giorno ti ritroverai a prestare servizio in Barbagia — sorrise Scarelli.
— Dici? Vedremo; poi mi racconti com’è andata. E non farle il filo… capito?
Il brigadiere a sua volta fece l’occhiolino, poi si avvicinò alla porta, afferrò la maniglia ed entrò. Ettore scosse la testa e imboccò le scale. Arrivato al piano terra, si diresse verso l’ufficio. Stava per entrare quando la voce dell’appuntato Scolaborsa lo fermò: — Ettore… ti ha telefonato la fidanzata, ha detto di richiamarla subito.
— Porca puttana Attilio… il cellulare silenziato! — esclamò lui frugandosi freneticamente in tasca. — Ti è sembrata arrabbiata? — chiese preoccupato mentre iniziava a digitare sul display.
— Be’… mi sembrava come mia moglie quando mi cerca — rispose senza enfasi l’appuntato e subito si voltò per andarsene.
— Eh… immagino — sospirò Ettore e non poté fare a meno di seguire con lo sguardo quel cinquantenne di origini abruzzesi che, nonostante fosse in Toscana da più di venti anni, non aveva ancora perso la calata pescarese. Quando vide la figura tozza e contorta dell’uomo svoltare verso il suo ufficio, si concentrò di nuovo sul cellulare e guardando il display, vide il messaggio della fidanzata. Digitò la sequenza e riportò la suoneria udibile e mentre si avviava verso l’ufficio la chiamata si attivò.
— Ettore! Finalmente… — La voce saettante di Clarissa gli penetrò nel condotto uditivo devastandolo. — Dov’eri finito? Di nuovo dal capitano?
— Ciao; è successo qualcosa? — chiese lui cercando di modulare la voce con un tono suadente.
— Non fare il furbo con me, da quando è arrivata quella lì, il cellulare è sempre irraggiungibile e ti dimentichi del nostro anniversario.
— Clarissa perché ti devi sempre agitare? Quella lì
è il mio superiore e io sono un militare… per l’anniversario ti ho già chiesto scusa due volte.
— Ettore, quella lì
oltre a essere il tuo superiore è anche una sventola bruna di nemmeno trent’anni, per quanto mi risulta libera come il vento, e appena arrivata a Fittoneta, dunque senza un giro di amici. Secondo te, vorrà fare la monaca di clausura o cercherà qualcuno per passare qualche serata in buona compagnia?
— D’accordo Clarissa, ma non esagerare. Sei un chirurgo, non Sherlock Holmes. Ora rilassati, non sarò io il boy scout che aiuterà la Panerai nelle sere di solitudine, stai tranquilla.
— Comunque quel cellulare tienilo acceso — insisté lei. — Avevo chiamato per dirti che Merini ha fatto un cambio di turno e questa sera sarò libera.
— Ecco, questa è una buona notizia. A proposito di Merini, sai che è stato testimone di una brutta faccenda?
— Sì, lo sanno tutti. Ma lui non ne parla volentieri. Qui in reparto non l’ha raccontato a nessuno. Ultimamente è ancora più scontroso del solito. Avrebbe bisogno di un mese di ferie.
— Oggi pomeriggio probabilmente andrò a fargli qualche domanda su quello che ha visto. Devo inventare una scusa per arrestarlo? — propose con ironia.
— Puoi dirgli di andare a farsi fottere. Ci vediamo stasera.
— Passo alle sette e mezzo e andiamo da Eminguei.
— D’accordo ruffiano di un militare… alle sette e mezzo.
Ettore chiuse la telefonata e il broncio sornione di Clarissa gli solleticò la fantasia e avrebbe voluto averla lì per darle un bacio. Ma ora l’importante era recuperare la gaffe dell’anniversario dimenticato e doveva impegnarsi, perché lui con le ricorrenze non ci sapeva fare: che strazio dover pensare al regalo, alla cenetta, alla telefonatina giusta, al vestito fico… insomma lui aveva i bioritmi da orso e questo per le public relation non giocava proprio a suo favore.
Spezzò il filo dei pensieri e decise di chiamare immediatamente Eminguei. Manlio Marmugi era l’unico a preparare il cacciucco alla livornese, più cacciucco di tutti, diceva lui. E sin dal primo giorno che lo aveva visto dietro al bancone, Ettore aveva capito che quel cinquantenne calvo, sempre in canotta e muscoli in evidenza, il broncio burbero stampato lì dal sole del Tirreno, doveva essere stato ben altro che un cuoco. E quando Eminguei aveva deciso di raccontargli le origini di quel nomignolo, aveva scoperto che per anni era stato un pescatore. Un giorno aveva avuto una disputa, così l’aveva definita, con un grosso tonno pinna gialla. L’animale, approfittando della sbornia del suo aguzzino, aveva provato in ogni modo a ritornarsene in mare e quei pochi fortunati che avevano assistito alla scena, avevano raccontato di una battaglia rocambolesca, con i due contendenti che saltellavano sulla barca come indemoniati. Insomma la sfida tra il Vecchio e il Marlin, descritta ne Il vecchio e il mare
di Hemingway, a confronto era sembrata una novella per bambini. E dunque, per diritto acquisito, a Manlio era stato affibbiato il soprannome del famoso scrittore che lui in seguito, non disdegnandolo affatto, aveva deciso di adottare come nome per il suo bar-ristorante di via Garibaldi. Ma siccome non sapeva come scriverlo correttamente, l’aveva trascritto sull’insegna così come lo sentiva pronunciare. Da quel giorno per tutti era diventato semplicemente Eminguei
.
Spada all’improvviso sentì la voce dell’amico dire: — Pronto?
— Ciao baleniere, sono Ettore.
— Che cerchi ancora, non ti è bastata la colazione di stamani?
— Cosa prepari di buono per cena, avvelenatore?
— Zuppa di mare e baccalà alla livornese. Il pesce... Spada non l’hanno pescato oggi.
— Spiritoso! Lasciami il solito tavolo. Arrivo alle otto.
— Porti anche la bimba mora che gioca con il bisturi?
— Non t’impicciare e apparecchia per due. Curioso!
— Allora c’ho azzeccato! Ormai è andata, caro mio. Questa volta le manette le hanno messe a te. — Eminguei non gli dette il tempo di replicare e riattaccò.
Ettore sentì cadere la comunicazione, pensò alle manette, ma lui non la provava affatto quella sensazione; Clarissa al contrario era il più bel modo di evadere che gli era mai capitato.
Finalmente si sedette alla scrivania, dopo la pantomima della sfilata dal capitano e le pendenze amorose da risolvere, era arrivato il momento di organizzare la giornata lavorativa. Guardò la pagina di scarabocchi che faceva capolino da sotto la tastiera, la prese e iniziò a decifrare i vari geroglifici. Nell’angolo in basso riuscì a leggere abbastanza chiaramente: Chiama Oliviero. Ripensò a quello che doveva chiedere al medico legale e non lo ricordava. Prima di chiamare avrebbe dovuto prepararsi bene. L’insofferenza di Sibari rasentava la nevrosi e nonostante la professionalità e la competenza era difficile per lui assecondarlo tutte le volte.
Quei pensieri sul conto di Oliviero Sibari gli avevano dato modo di rammentarsi il motivo per chiamarlo: si trattava della vicenda in cui era stato coinvolto il dottor Merini. Il proprietario del cane morto nella sparatoria di via Montenero aveva sporto denuncia contro ignoti per maltrattamento e uccisione di animali. I figli di buona donna che avevano sparato passando a tutta velocità a bordo di uno scooter, avevano colpito il povero cane e si