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L'estate è una cattiva stagione
L'estate è una cattiva stagione
L'estate è una cattiva stagione
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L'estate è una cattiva stagione

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About this ebook

Pensate all’estate e sentite l’odore del mare, il calore della sabbia, immaginate montagne e declivi verdi d’erba baciati dal sole caldo d’agosto. Fino a ieri. Dopo questi 15 racconti, scritti da autori tra i piú noti del panorama della narrativa nera, anche per voi l’estate sará una cattiva stagione.

AUTORI: Andrea Carlo Cappi; Roberto Carboni;Piera Carlomagno;Roberto Centazzo;Diego Collaveri;Manuela Costantini;Claudio Costa;Enrico Luceri;Sabina Marchesi;Luca Martinelli;Gianluca Morozzi;Fabio Mundadori;Marzia Musneci;Alessandro Noseda;Luca Occhi;Pierluigi Porazzi;Piergiorgio Pulixi
LanguageItaliano
PublisherDamster
Release dateMar 12, 2018
ISBN9788868103521
L'estate è una cattiva stagione

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    L'estate è una cattiva stagione - ANTOLOGIA AUTORI VARI

    AA.VV.

    L’ESTATE ネ UNA CATTIVA STAGIONE

    Prima Edizione Ebook 2018 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868103521

    Copertina

    Progetto grafico

    Massimo Casarini e Fabio Mundadori

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    L’ESTATE È

    UNA CATTIVA STAGIONE

    Racconti

    INDICE

    AMOR VOLAT UNDIQUE

    DALLA TUA PARTE

    LA CONFIDENZA

    BELLISSIMA,

    MA NIENT’ALTRO CHE UN TRUCCO

    LA SETTIMA GALLERIA

    UN TRUCCO DA QUATTRO SOLDI

    NEL BOSCO CHE LA ANNEGA

    L’AVVENTURA

    DELLA ZUCCHERIERA CINESE

    UCCIDERE DIO

    LA TIGRE: IL RITORNO

    IL DIECI PER CENTO

    IL DIAVOLO FA LE PENTOLE…

    VËLLA

    QUANDO L’AMORE UCCIDE

    L’ORO ROSSO

    GLI AUTORI

    COMMA21 la collana

    AMOR VOLAT UNDIQUE

    Andrea Carlo Cappi

    La direttrice dell’escort service è solo una voce al telefono. L’ho sentita molto volte, ma non l’ho mai vista di persona. Mi domando che aspetto abbia. Me l’immagino come la stagionata maîtresse di una casa chiusa d’altri tempi, anche se invece di accogliere i clienti nel foyer mantiene i contatti con e-mail e cellulare.

    Tolgo la comunicazione.

    Mentre cammino verso il Paradiso, penso che la serata si preannunci interessante.

    ***

    Mi è sempre piaciuto l’Hotel Paradiso. La vista del golfo di Napoli sembra quella di una cartolina.

    Lei è bruna, bassa, piuttosto carina, occhi verdi dietro il trucco pesante, capelli neri sciolti: una napoletana - anche lei da cartolina - in versione zoccola. Il culo è un po’ abbondante ma, da quando Jennifer Lopez è diventata un sex symbol mondiale, i canoni della bellezza si sono modificati. Indossa un abitino nero cortissimo, niente calze, scarpe con tacco vertiginoso.

    Comincio ad avere caldo. Mi tolgo la giacca nera di Trussardi, allento la cravatta regimental di Marinella e apro il minibar.

    – Sei di partenza? – chiede lei, occhieggiando il biglietto aereo bene in vista sul tavolino.

    – Devo tornare a Torino domattina, – rispondo, mentre esploro l’assortimento: prosecco, birra e bottigliette mignon. Sono fortunato. A volte ci si trova solo acqua minerale naturale. Altre volte il frigorifero è desolatamente vuoto. Con il mio mestiere ne vedo, di alberghi. – Dovrò alzarmi alle sette. Quindi vediamo di sbrigarci.

    Il mio è il classico tono di un manager settentrionale che non ha tempo da perdere. Ci vuole, con un certo tipo di donna.

    – Decido io se mi devo sbrigare o no, – dice lei. Non mi aspettavo tanta determinazione. Ma tutto sommato mi stuzzica.

    Guardo tra le bottigliette e trovo il solito scotch blended e un whisky del Tennessee. Preferisco gli irlandesi oppure gli scozzesi molto invecchiati: sono di gusti raffinati, io. Però il Jack Daniel’s non mi dispiace.

    Verso da bere per entrambi, mentre lei si toglie le scarpe.

    Poi si inginocchia davanti a me e mi abbassa la cerniera lampo. Molto bene: ha già capito chi comanda, qui. Mi massaggia con cura, apprezzando la mia reazione. Il contatto della sua lingua è una sensazione piacevole. – Vedo che conosci bene il tuo mestiere, – le dico.

    Lei non risponde. Conosce bene anche l’educazione: mai parlare con la bocca piena. Ma dopo mezzo minuto lascia la presa e si rimette in piedi. Mi rivolge uno sguardo di sfida, mentre beve un sorso di whisky.

    Io aspetto.

    Poi, inspiegabilmente, lei mi colpisce con un pugno in pieno stomaco. Mi piego in due, cercando di riprendere fiato, ma lei ne approfitta per darmi un calcio alla faccia. Mentre sono a terra mi accorgo che ha le gambe muscolose. Deve passare parecchio tempo in palestra, quella puttana.

    Un altro calcio, stavolta nelle costole. Mi ritrovo a faccia in giù sul pavimento. Lei mi afferra per la cravatta e la tira all’indietro. Ancora un po’ e mi strangola.

    – Stronzo, – mi dice.

    Non so cosa fare: in questa posizione non posso reagire. Sempre tenendomi al guinzaglio con la cravatta, mi sfila i pantaloni e i boxer. Con la camicia non va tanto per il sottile: i bottoni saltano sul pavimento, li sento rimbalzare tutt’intorno.

    Mi rigira, lasciando andare la cravatta. Mi sta sopra a cavalcioni. Non porta niente, sotto il minivestito. Se lo sfila da sola, poi risale verso la mia faccia, a gambe aperte. Un richiamo a cui non riesco a resistere, nemmeno in questa circostanza.

    Quando lei decide che ne ha avuto abbastanza, ridiscende e mi si innesta sopra. Fa tutto da sola, le occorrono solo pochi minuti. Poi si rialza e mi guarda.

    – Fuori dalle palle, coglione – mi dice.

    Mi rimetto lentamente in piedi, ancora dolorante.

    Lei ora è sul letto e non mi guarda neppure.

    Senza dire una parola, recupero dall’armadio la mia T-shirt, i jeans e le scarpe con cui sono entrato in questa camera mezz’ora fa. Esco, scendo le scale. Mi ritrovo fuori, all’aria aperta, che non è ancora mezzanotte.

    Me ne capitano di donne strane, da quando lavoro per l’escort service. Questa non è l’unica che mi fa imparare a memoria una parte, perché si eccita di più. Ma di sicuro è la più strana di tutte.

    Dalla tasca dei jeans estraggo il portafogli che le ho fregato dalla borsetta mentre lei era in bagno a travestirsi. Laura Esposito: stando alla carta d’identità è nata a Napoli, ha trent’anni e vive a Torino. Ci sono un paio di carte di credito e una tessera che la qualifica come manager di non so quale compagnia con un nome che sembra americano.

    Chissà se fa spesso questo giochetto.

    E se ogni volta manda in tintoria il vestito di Trussardi.

    Chissà poi di chi è, il vestito di Trussardi.

    Sfilo i fogli da cinquanta, a integrazione del compenso dell’escort service, e butto il portafogli in un cestino.

    La voglio vedere, domattina, quando si sveglia alle sette per prendere il suo cazzo di aereo per Torino.

    Quella puttana.

    DALLA TUA PARTE

    Roberto Carboni

    Mi ha inghiottito tre giorni fa, questa cantina che odora di muffa e dolore.

    O almeno credo siano passati tre giorni.

    Il tavolaccio sotto di me. Legacci di stoffa ben ancorati al legno.

    Il tessuto è stato bagnato poi lasciato asciugare, diventando tremendo per polsi e caviglie.

    Tre giorni e non è ancora accaduto niente. In certi momenti credo di essere impazzito per la tensione.

    Un lumicino da cimitero, ma a batteria. Alita appena, rossastro. Non raggiunge nemmeno tutta la cantina. Ma il tavolaccio lo vedo bene. E anche gli strumenti davanti a me, posizionati su un panno rosso, con maniacale ordine. Un punteruolo, un piccolo trapano elettrico. Diverse punte, alcune normali, altre sono frese per allargare il legno o spazzole di acciaio. Due martelli, uno più piccolo, per le articolazioni delle dita, per esempio. Il secondo può frantumare un ginocchio con un colpo solo.

    Osservo quegli strumenti fin dal primo momento che ho riaperto gli occhi. Stanno a nemmeno un metro da me.

    Non posso non immaginarne gli usi.

    I giornali ne parlano da mesi, del pazzo omicida che sta terrorizzando l’Italia. È senz’altro sempre lo stesso folle. Ha già torturato e ucciso almeno quattordici persone.

    E chissà quante altre non sono state ancora trovate.

    Sempre in cantine simili a queste. Insonorizzate. Sempre fino a far fermare il cuore alle vittime, per il dolore.

    I corpi sono stati ritrovati in stato di astenia. I prigionieri tenuti per giorni legati, prima che le loro carni venissero violentate.

    Sento il cuore esplodere al pensiero. Sollevo la testa quel po’ che posso, e la sbatto ripetutamente sul tavolone, finché non sento il calore del sangue che fuoriesce da sopra la mia nuca.

    Un paio di tronchesi. Una fiamma ossidrica portatile…

    Grido. Ringhio. Grido ancora e dalla mia gola escono suoni arcaici e animali.

    I giornali… vittime a Bari, Ancona, Sondrio, Genova, Latina…

    A Bologna il sesto omicidio. E allora perché di nuovo.

    Qui a Bologna era già stato ammazzato quell’uomo. È orrendo da dire, ma tutti ci sentivamo al sicuro. Come se il dio crudele esigesse un solo sacrificio. Come se noi potessimo arrogarci il diritto di decidere al posto del fato.

    Sento squittire un topo. Rimane nella zona buia, proprio di fronte a me. Scatto con tutto il corpo. Mi percorre dalla testa ai piedi una scarica elettrica. Anche lui, il roditore, o loro… potrebbero essere in molti… avranno fame. Mi sembra che mi tocchino… il pelo ispido strisciare contro la pianta del mio piede nudo. La mia carne esposta al loro appetito.

    E io… Santo cielo. E io?

    Grido, rischio di nuovo di impazzire.

    Devo resistere.

    Devo resistere. Invece la mia vescica è fuori controllo. Sento l’urina uscire.

    Accanto al mio viso, una tanica piena d’acqua e un tubicino di gomma. Posso bere.

    Perché tutto questo?

    Ancora topi. Grido, grido fino a sfinirmi, non ne posso più.

    Grido!

    Spalanco gli occhi, mi è sembrato di sentire un rumore. Il clangore metallico del catenaccio.

    Oddio!

    Tento di prendere aria a bocca aperta ma ho la gola serrata. Mi scoppia il cuore.

    Sta aprendo la porta, ne sono certo. E allora tutto diventa veramente follia. Non esistono più i topi, la puzza, il dolore che ho addosso. Nemmeno la paura esiste più.

    Tre giorni, qui. Rivedo il viso di mia madre: quanto bene mi ha voluto! E le mani di mio padre, il suo respiro… anche il suo respiro non c’era più quando se l’è portato via il cancro dei fumatori. E Laura, mia moglie… e Tommaso e Andrea i miei figli.

    E i miei piccoli peccati, lo confesso, lo confesso! Una volta, no anzi due, ho tradito Laura. Ma non ha significato niente. Viaggio per lavoro. Una volta si è trattato di una mia studentessa, l’altra è stata l’organizzatrice del corso.

    E mi sento male. E vorrei ripercorrere tutta la mia vita e forse potrei essere migliore. Almeno un poco. Cercare di rimediare agli sbagli umani. Perché siamo esseri umani, dobbiamo capire, accusarci, capire, accusarci.

    Mai condannarci.

    Vorrei avere un’altra possibilità. Essere stato diverso per essere diverso ora.

    Ma diverso da cosa?

    Ho la bocca impastata. Grondo sudore.

    Vaneggio.

    Mi si contorce lo stomaco, il respiro diventa sibilo. Mi sembra che gli occhi mi stiano schizzando fuori dalle orbite. Mi pizzicano le labbra. Tremo, tremo, tremo!

    La porta si apre. Vedo l’uomo.

    Lo riconosco!

    Sarà almeno uno e novanta, sovrappeso ma decisamente muscoloso.

    È fermo sulla porta e fissa dentro. Indossa un cappotto scuro e guanti di pelle. Ha lunghi capelli che tiene legati a coda.

    Quattordici vittime lasciate quasi a morire di inedia e poi torturate a morte per giorni.

    Torture, vittime.

    Lo riconosco!

    L’uomo allunga la mano a memoria sull’interruttore della luce. Il click non porta a niente. Solo il lumicino continua a rischiarare appena la cantina.

    Non ha ancora capito nulla, io invece sono scattato giù dal tavolone e gli sono già addosso. Finalmente è mio!

    Lo tramortisco con uno di quegli affari elettrici che servono per dare la scossa ai bovini. Lui è resistente e non crolla subito, e questo mi piace. Fa presagire che il nostro rapporto durerà più del solito.

    Ho impiegato una notte per insonorizzare e trasformare la sua cantina in una sala delle torture. Ho atteso qui tre giorni, nella mia tela di ragno. Senza mangiare per non dover essere costretto a soggiornare tra le mie feci.

    Mia moglie e i miei figli sono a casa, pensano che io sia a Roma per affari. Mi mancano. Ho bisogno di loro. Ma ho bisogno anche di questo, del dolore puro che infondo.

    E prima di farlo, ho un bisogno premuroso di stare con le mie vittime, dalla loro parte.

    Immaginarmi io stesso, candidato martire, digiuno, legato al tavolo. Mi fa capire cosa proveranno.

    Amplifica le mie emozioni di serial killer.

    Anche lui, Alberto, viaggia per lavoro e ha moglie e figli. Si sta svegliando. Legato. Non mangia da cinque giorni.

    Mi guarda pazzo di terrore.

    Sto arroventando un cucchiaino. È uno strumento perfetto per levare gli occhi.

    LA CONFIDENZA

    Piera Carlomagno

    I giornali li chiamarono pizzini, perché, da quando era stato arrestato Bernardo Provenzano, quella parola piaceva tanto alla stampa. Sta di fatto che il primo apparve la mattina di un afoso venerdì di metà giugno a vicolo Guaimaro IV, il vecchio vicolo dei principi. Due turisti americani, scesi da una nave da crociera per qualche ora, inoltrandosi dalle Botteghelle nel rione dei Barbuti, si erano soffermati a lungo davanti a un foglio di carta semplice, ma evidentissimo sulle mura della città vecchia, più delle poche frecce marroni che indicavano monumenti e chiese. "Sappiamo chi deposita l’immondizia senza differenziata e nei giorni sbagliati. Ora è finita!!!!! TI DENUNCIAMO. Si chiedevano, i coniugi stranieri, cosa meritasse l’enfasi di ben cinque punti esclamativi e l’importanza del tutto maiuscolo delle due parole finali. A deluderli e meravigliarli insieme fu l’architetto Rocco Costantini, che rincasava dopo la spesa e, nell’arrangiare una stentata traduzione in inglese, si agitò non poco perché il foglietto stava appiccicato al muro esterno della sua camera da letto e così pensò che fosse indirizzato a lui. Invece la mattina dopo, nello stesso punto da cui il primo era stato rimosso, comparve la risposta: E se voi mi denunciate, io racconto tutto delle corna che avete. Così, senza maiuscole né punti esclamativi, come se l’autore avesse ritenuto di sminuire, piuttosto, il clamore già notevole delle parole. L’architetto, che portava un cerchiettino d’oro al lobo sinistro e una piccola cresta come acconciatura dei pochi capelli che gli restavano, ma inalberava un tic nervoso ogni volta che qualcosa andava a disturbare l’ordine di una vita tutti i giorni ossessivamente uguale, scandita da lavoro, calcio in televisione e battute di pesca, fece il pazzo e minacciò, rivolto alle finestre chiuse, di andare dritto alla polizia. Quella notte non dormì e ogni ora apriva minaccioso le imposte per sorprendere gli anonimi sfidanti. Ma nessuno si fece vivo, lasciandolo alla luce giallognola delle lanterne, che penetrava tra le fessure della persiana, a pensare che il primo anonimo si era fatto così scoprire dal secondo e che quindi entrambi erano ora a conoscenza l’uno dell’identità dell’altro. Che senso potevano ancora avere allora quei biglietti privi di firma, come inviati da moderne Erinni, che non si nominano", dee della vendetta, del rimorso e della punizione? Il pensiero lo tranquillizzò. Nessun altro messaggio sarebbe apparso perché il gioco era finito senza dubbio. E cedette al sonno.

    Aveva ragione. La mattina dopo un sole abbagliante illuminava il muro perfettamente bianco.

    Fu solo il lunedì, due giorni dopo, che, nella sua stanza dell’ufficio Urbanistica del Comune, in cui passavano il primo controllo i permessi a costruire, sentì parlare un geometra sempre assai informato: un foglietto incollato al muro di un vicolo, ma questa volta con le lettere ritagliate dai titoli dei giornali, pare che lo avessero portato in questura. Di più non riuscì a sapere.

    Sorpresa, il giorno dopo il testo era spiattellato sui giornali: "Le corna che teniamo noi non sono niente rispetto a quello che fa tua moglie ogni volta che tu giri la faccia!!!". E giù punti esclamativi. L’anonimo numero uno era furioso, ma intelligente, pensò Rocco: aveva alzato il livello dello scontro, aveva capito che difficilmente altri biglietti sarebbero stati distrutti e si era premunito di rendersi irriconoscibile nel caso fosse stata aperta un’indagine. Fiutava il pericolo, ma non rinunciava a giocare. La sua ira era accecante, come dimostravano i punti esclamativi e le maiuscole del primo messaggio, e l’aggressività incontrollata, altrimenti non avrebbe rischiato. D’altra parte si era adeguato senza difficoltà al cambio di argomento: dalla raccolta differenziata, cavallo di battaglia della città moderna, alle infedeltà pruriginose di provincia infarcite di colore verbale del vicolo. La buona notizia era che il luogo dello scontro non era più il muro esterno della sua camera da letto, ma si era spostato più giù, oltre lo stretto cunicolo che sulla sinistra portava a vicolo Grimoaldo.

    Quando apparve il quarto pizzino i giornali spararono il titolo su sei colonne e si scatenarono con ipotesi e commenti. Perché il testo lasciava senza fiato: "Godetevi le vostre ultime ore di vita perché dopo vi ammazzo", senza enfasi anche questo. Pareva di vederlo l’anonimo numero due, quieto, una faccia da schiaffi.

    Si scatenò il putiferio. Si scoprirono tutti gli altarini: Allora sentite a me: quello è Tizio, si sa che mette le corna a Caio, No, ma che dici? Quella è la cognata di Caio che fa le corna a Sempronio, Ma allora non sapete niente? Sempronio se la fa con la moglie di Tizio già da almeno un paio d’anni e quella che pareva una comunità vivace sì, ma timorata di Dio, si rivelò un covo di vipere e becchi. Nelle ricevitorie del lotto a piazza Luciani e sotto il Comune si giocarono 77 le corna, 22 il biglietto e 12 le chiacchiere. Presero tutti a guardarsi con diffidenza e pure a lanciarsi messaggi in codice incrociandosi per strada. Ne vennero fuori un paio di risse memorabili, mentre nelle case era tutto uno sbattere di porte e frantumarsi di piatti.

    Piano piano il nome della fedifraga presunta venne fuori. Sì sì, concordavano tutti, la moglie infedele era certamente Rosannina Apicella. Bella donna, non c’era che dire, ma dall’ancheggiare un po’ troppo pronunciato, ridacchiavano. Soprattutto il barbiere Ninuccio, volentieri in quelle ore si concedeva fuori dalla bottega sempre piena, per partecipare con sapienti alzate di sopracciglia alle conversazioni in merito. Dietro quella fronte che si arricciava c’erano, voleva intendere lui, tanti ricordi. Non parlava solo perché era un galantuomo e quello si sa: gode e tace.

    La squadra mobile invase il quartiere e si mise alla ricerca dell’anonimo estensore della terribile minaccia, nel tentativo di intervenire prima che questa fosse messa in atto. Le indagini erano state prese molto sul serio e il vice questore Dario Santoro ordinò ai suoi uomini di entrare nelle case e di setacciare i magazzini, di perlustrare ogni angolo, vicoli e vicoletti, slarghi e piazzette, salitelle e gradinate. Partendo da niente. In mano non aveva niente. Solo un’intuizione forte, un terribile sospetto che infatti si fece realtà.

    Il giovedì mattina, esattamente una settimana dopo la scoperta del primo messaggio, l’agente Felice Gallo, entrando in un appartamento di vicolo Barbuti, il cui proprietario sarebbe andato a pescare per qualche giorno secondo i vicini, ma - constatò l’agente - aveva lasciato la porta aperta, trovò due cadaveri e sangue dappertutto. Tirò fuori la pistola, perse la calma, scattò in posizione di allerta. Poi capì dalla puzza. Che quel duplice omicidio non era cosa recentissima.

    Diede l’allarme, arrivò la volante più vicina e il capo della squadra mobile a piedi, ché quello non era uno che si formalizzava e dalla questura erano quattro passi.

    Il nastro bianco e rosso fu srotolato e fissato all’imbocco del vicolo e davanti al portone, la gente cominciò a chiedere, i balconi a riempirsi e in breve fu il finimondo.

    Gli uomini della Scientifica e il magistrato di turno dovettero farsi largo tra la folla che si accalcava intorno al luogo del delitto spuntando da tutte le parti. Le ricevitorie si prepararono al nuovo assalto con il 62, o’ muort accis e il 13, ‘o sangue, ma nel frattempo stavano tutti là a mormorare e ricostruire come e più della polizia. Perché la casa in cui era avvenuto il fattaccio era proprio quella della bella Rosannina.

    Lei era a Vietri da qualche giorno, come faceva sempre quando il marito andava a pescare. Si trasferiva dalla mamma e si godeva quel mare di Costiera che conosceva sin da bambina. Almeno, questo era quanto raccontava.

    Il vice questore Dario Santoro e il sostituto procuratore Rosa Lupo, appurarono che i due morti si chiamavano Luigi Coppola detto Gino o’ pazzo e Raffaele Alfano detto fragolone. Il primo, 41 anni, era il padrone di casa, pescatore con qualche precedente per spaccio di droga e un fratello trafficante più famoso (almeno per le forze dell’ordine) arrestato dopo una lunga latitanza in Sud America, dove era stato trovato stranamente povero in canna, ma felice, a convivere con una ragazza del posto e devotissimo a una Santa Muerte vestita di rosa che venerava in una casetta semplice, pulita e in riva al mare. Era lui, Luigi, il marito, peraltro gelosissimo cominciarono a raccontare i testimoni, di Rosannina, che fu mandata a prendere dalla mamma a Vietri.

    L’altro, 45 anni, era un piccolo imprenditore edile, con numerosi precedenti penali, la cui moglie aveva fatto denuncia di scomparsa proprio il giorno prima. Gli agenti le avevano detto che era presto e la cosa era finita nel dimenticatoio. Santoro s’infuriò perché nessun collegamento era stato fatto con le ricerche legate ai volantini, visto che ormai aveva ricevuto le confidenze dei vicini sul fatto che i due cadaveri appartenevano proprio ai protagonisti del litigio via pizzino.

    Come erano morti? Si erano uccisi a vicenda, probabilmente in un duello tra cornuto e traditore, con due pistole semiautomatiche stranamente entrambe caricate con proiettili 9mm Parabellum, comunissimi, a basso rinculo e silenziate.

    Il medico legale assicurò che la morte risaliva ad almeno tre giorni prima. Strano – pensò Santoro – il biglietto che minacciava l’omicidio era stato affisso solo da due giorni.

    Rosannina arrivò, con i tacchi che si infilavano continuamente tra i basoli, una gonna color panna, stretta stretta sui fianchi generosi e una maglietta allegra come un prato di fiori. Entrò, lanciò un urlo e scese subito con la faccia nascosta tra le mani. Dietro di lei l’altra moglie, molto più dimessa, con il volto scarno e privato pure delle lacrime, la guardava con rabbia e odio profondo: si erano ammazzati per lei quei due deficienti, pensava.

    Rosannina invece, con la faccia nascosta, pregava. Pregava e ascoltava. I commenti, le comunicazioni della polizia, le conclusioni dei giornalisti: duello, gelosia, tradimento, corna e soprattutto, dopo le minacce dei foglietti, tutto si era concluso esattamente come era prevedibile.

    Rosannina ascoltava, pregava e sospirava. Di sollievo e un poco pure di orgoglio. Perché mica era stato facile convincere il marito a intestarle tutto il patrimonio ricevuto in dono dal fratello dal Sud America prima che lo arrestassero. Ancora più difficile era stato ingelosirlo al punto giusto per la presunta corte ricevuta da fragolone, raccontandogli ogni giorno di come lui la fermasse per strada, le facesse avances, la spogliasse con gli occhi e cercasse sempre una scusa per toccarle un braccio o sfiorarle le spalle nude. Ed era stato altrettanto noioso concedersi

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