La borsa
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Book preview
La borsa - Solène Bakowski
Colophon
Titolo originale
Un sac
© Bragelonne, 2017
© Edizioni le Assassine, 2018
Tutti i diritti riservati
Traduzione dal francese di Rosalba Sabatini
Progetto grafico copertina e interni: studioquasar
ISBN della versione e-book 978-88-94979-04-6
www.edizionileassassine.it
info@edizionileassassine.it
Solène Bakowski
La borsa
Traduzione di Rosalba Sabatini
Edizioni le Assassine
Milano
Intermezzo 1
Ai grandi uomini la patria riconoscente.
Questa frase le risuona nella testa e la fa rabbrividire. Questa frase la guarda dall’alto in basso, si prende gioco di lei e la stordisce con la sua solennità. Questa frase la squadra, la giudica. La donna, lei, è piccola e non è troppo a suo agio.
La notte è profonda sul piazzale del Pantheon. I lampioni illuminano il selciato e danno al posto uno splendore di altri tempi, affascinante, propizio ai sogni a occhi aperti, all’abbandono di sé e del mondo. Quel mondo che d’altra parte sembra arrestarsi lì e ora. Seduta contro un muro, al riparo dalle auto, la donna fa fermare la barca della sua esistenza. La pace la invade, la serenità la sommerge. Il mondo non esiste davvero più. Schiacciata tra l’imponente Facoltà di Legge e il pretenzioso palazzo comunale della V circoscrizione, guarda il Pantheon così come il Pantheon guarda lei. La testa immensa, il corpo di colonne magnifiche, le splendide decorazioni, la invitano e nello stesso tempo la tengono a distanza. Tra lei e lui è certo che esiste qualcosa, qualcosa che esisterà per sempre. Gli affida quello che lei è, con la massima fiducia. Lui si sfoga, stremato da quella gloria troppo pesante. Insieme piangono. È lei a essere grande, mentre lui è piccolo. È lei l’adulta che consola, è lui il bambino che piange.
Alle sue spalle, materializzatosi dal nulla, un motorino scoppietta e interrompe quell’incredibile faccia a faccia tra l’essere umano e la pietra. Il rumore insopportabile del motore fa vibrare il cuore e il ventre della donna. Una borsa verde giace accanto a lei, ai suoi piedi. Il vento ne sfiora dolcemente la superficie e la materia risponde alla carezza con un leggero fruscio del tessuto. Con discrezione la brezza non si insinua all’interno ma l’abbraccia, gentile e rispettosa.
1
Mi chiamo Anna-Marie Caravelle e sono un’emarginata. Senza un’esistenza ufficiale, senza un’identità verificabile, senza niente. Tutti coloro che avrebbero potuto testimoniare ciò che sono, o ciò che sono stata, non ci sono più. La mia colpa è stata solo di non avere fortuna. Sono una paria come ne esistono a migliaia, e sono sola fin dall’inizio, o quasi. Ho fatto scelte contestabili, ma mai contestate. Allora ho continuato. Vi sembrerò spaventosa, eppure non sono un mostro. Diciamo che sono fatta al contrario, una reazione verso tutto. La mia storia non parla né a mio favore, né a mio sfavore. Va già bene se riesco a trovare qualche circostanza attenuante. Se vi racconto tutto questo oggi, è soltanto per alleggerirmi un po’ e perché so bene che se rimango con queste parole sul cuore, finiranno per divorarmelo. Riverso tutto quello che sono in queste pagine e lascio giudicare chi vorrà.
Sono nata un po’ più di ventiquattro anni fa, in fondo alla rue Chanzy, nell’XI circoscrizione. Un piccolo ratto rosa di un po’ meno di tre chili, una voglia gigantesca color vinaccia nel bel mezzo della faccia, come una ferita di guerra, una ciocca biondo-arancio persa su un cranio che aveva ancora i segni delle spinte: ero, il giorno del mio arrivo, una neonata piuttosto brutta. Va detto che mi avevano messo al mondo nello stesso modo in cui avrebbero gettato un uomo in mare in una sera di tempesta, senza boe, senza salvagente e, soprattutto, senza speranza. E senza rumore, anche. Allora è inevitabile che questo lasci delle tracce. A lungo.
Frédéric Caravelle, mio padre, era uscito di scena sei mesi prima. Suicida, a quanto pare. Otto mesi dopo il matrimonio, ovvero centoventicinque giorni prima di diventare il modello maschile di tutta la mia vita, quell’imbecille aveva trovato il modo di farla finita. Trentasei ore esatte dopo aver appreso la possibilità della mia esistenza dalla bocca di sua moglie, quel feto insignificante era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Esasperato dalle scenate domestiche, stufo del suo lavoro di piccolo contabile di merda, esaurito da tutto quello stress inutile, Fréderic Caravelle si era ripromesso di non farsi più distruggere dalle responsabilità. L’automedicazione era dunque stata la sua ancora di salvezza: quattro tubetti di antidepressivi e tre di sonniferi lo avevano accontentato. Di lui mia madre conservava solamente il cognome e quattro o cinque ricordi sparsi qui e là.
Per quanto riguarda mia madre, invece, si chiamava Élise. Una giovane bruna e minuta di ventisei anni dal carattere forte, con una crisi postadolescenziale divorante e i capricci da diva, sapeva quello che voleva e aveva le idee ben precise sulla strada che doveva prendere la sua vita. I genitori, il fratello e la sorella, stanchi da anni delle sue bizze e dei suoi pasticci, e soprattutto della sua incapacità cronica, al limite del patologico, di mettersi in discussione, avevano finito con il tempo per distaccarsi da lei, come del resto avevano lasciato che lei si allontanasse da loro. Dunque, il suo matrimonio con Frédéric, giovanotto arrogante che le sparava grosse, deciso nel giro di qualche mese, era riuscito a consumare la rottura definitiva con la famiglia. Ma Élise se ne infischiava: aveva il suo uomo, e tanto peggio se in quel cambiamento non aveva avuto la benedizione dei parenti.
Dire che aveva sofferto della scomparsa del marito ha quasi dell’indecente. Quando di ritorno da un week-end in campagna aveva scoperto il corpo senza vita del compagno, aveva emesso un vero urlo interiore, del genere che emette chi si sente tradito dalla vita. Ormai sola, incinta, non si era accorta di quello che le stava per capitare. Ancora la sera prima, aveva chiamato il marito dicendogli quanto fosse dispiaciuta che non si fosse potuto liberare per andare a godere con lei dell’aria aperta. E lui a rispondere che, purtroppo, il lavoro era il lavoro, che non si poteva fare sempre ciò che si voleva, ma che la volta dopo ci sarebbe stato sicuramente.
Come poteva infatti confessare a Élise che detestava la campagna, la gente della campagna, l’odore della campagna, e soprattutto quella donna, sua moglie, diventata insopportabile e portatrice di un elemento di disturbo
? Élise allora aveva riagganciato, felice all’idea di poter ben presto far visita alla famiglia con un marito amorevole e un bambino in arrivo. Come le era apparsa semplice la vita, per tutto il resto di quella giornata! Come avrebbe potuto solamente immaginare che qualche ora dopo si sarebbe seduta accanto a un cadavere, in balìa dell’assurdo spettacolo della vita e della morte? Che abbia sentito, in quel momento, dal fondo della mia piccola coscienza in divenire, l’ironia di quel momento che rendeva me, non ancora nata, testimone della decomposizione del mio genitore?
Mia madre doveva aver certamente gridato, e abbastanza forte, perché una vicina era venuta a bussare alla porta, inizialmente piano, poi in modo più deciso, fino a martellare nel vero senso della parola quella maledetta porta che nessuno si degnava di aprire. Passato il tempo fatidico di cinque minuti, la vicina si era ricordata di avere la chiave da usare nel caso in cui…
. Giudicando che si trattava di un caso in cui
, aveva attraversato a passo spedito l’atrio del palazzo in un senso, poi nell’altro, un mazzo di chiavi tintinnante in mano. Di ritorno davanti alla porta di casa di mia madre, eccitata e felice all’idea di riempire la sua giornata insignificante di fatti nuovi, aveva infilato una delle chiavi nella serratura, aveva constatato dopo tre tentativi infruttuosi che la chiave non girava, ne aveva presa un’altra, aveva riprovato ancora senza risultato, aveva infine afferrato l’ultima e aveva avuto la meglio sulla resistenza della porta. Dopo che lo scatto magico della serratura che cede le era giunto alle orecchie, la nostra cara vicina, la signora Bonneuil – sessantadue anni, vedova senza figli ma provvista di uno yorkshire che rispondeva al dolce nome di Poupoune – attese per qualche secondo sulla soglia. Poi, non facendocela più, entrò con passo deciso nell’appartamento silenzioso, con la fierezza e la sicurezza di chi sa cos’è giusto fare.
Signora Caravelle? Signooora Caraveeelle? È lì? Ehi? C’è qualcuno? Signora Caravelle?
Mia madre, incapace di comprendere e abbruttita dal dolore, rimaneva sorda ai richiami ripetuti della signora Bonneuil, i cui passi erano ormai vicini al soggiorno.
Signora Caravelle?
ripeté la vecchia, spazientita. Signora Car…
La signora Bonneuil si fermò di colpo. Davanti a lei mia madre vegliava, seduta, impassibile, il corpo senza vita di mio padre. Una folata di panico si mise a soffiare nelle orecchie della signora. Le dita dei piedi le si irrigidirono, le gambe cominciarono a cedere, le mani si fecero sudate, il mento le tremò e i denti presero a battere. In breve, quel corpo preso dall’agitazione sentì il bisogno di appoggiarsi per non cadere. L’emozione era troppo forte e la violenza della scena, inimmaginabile. Non se l’aspettava. Certamente, non se l’aspettava proprio. Monique Bonneuil, inebetita, con il corpo talmente appiattito contro il muro che si sarebbe detto che lo volesse quasi penetrare, sentì la testa in fiamme e la fronte sudata. Si passò una mano sulla parte superiore del viso e, ancor prima di essersi ripresa dalle emozioni, si avvicinò timidamente alla giovane vedova. Con la voce piena di apprensione, si rivolse in tono sommesso a mia madre: Signora Caravelle? Io… io sono qui. Voglio dire… alle sue spalle. Sono la sua vicina, si ricorda… Monique… Monique Bonneuil… mi riconosce, non è vero?
.
Mia madre, imbambolata, non si girò. Mia madre, rimbecillita, non pronunciò nemmeno una parola. Mia madre, ormai completamente ebete, non capiva. In realtà, non c’era già più. Monique Bonneuil, non potendo restare insensibile alla scena che accadeva davanti ai suoi occhi divorati dalla cataratta, e provando l’urgente necessità di parlare per non cedere a un collasso, si fece violenza e si avvicinò ancora un po’ di più alla coppia immobile.
Io… io… io vorrei aiutarla. Immagino… infine, lo so… è difficile.
Niente, ancora niente. Nemmeno un rumore. Non un soffio. Un gesto. C’era da chiedersi chi tra i due fosse il morto. La voce di Monique Bonneuil si fece più chiara, quasi fragorosa in quel cimitero silenzioso, mentre con un grande respiro si avvicinava sempre più, fino a toccare la spalla di mia madre: Madame Caravelle? Mi sente? Oh, ma c’è? Mi sta ascoltando? Mi risponda, subito! Mi fa paura! Oh, si svegli, mio Dio, si svegli!
.
Lei la scosse, come si scuote un bambino che non sta ad ascoltare o che non vuole intendere ragione. La scosse ma Élise Caravelle non si mosse, povera marionetta, ormai morta dentro.
2
Monique Bonneuil era stata, fino ad allora, una vecchia insignificante e disperatamente sola. Nata da una madre mammana e da un padre ignoto, era cresciuta dietro a una porta osservando sua madre al lavoro. Accasatasi molto giovane con un uomo a cui aveva voluto bene e che, soprattutto, le aveva permesso di trasferirsi nella capitale, si era ritrovata vedova nel pieno degli anni. Da quando era in pensione dal lavoro di aiuto infermiera, si era costruita una vita tranquilla dove i giorni scorrevano come gocce d’acqua sempre uguali su una finestra dopo la pioggia, ritmati dall’andare in bagno, mangiare, fare le commissioni, ritirare e aprire la posta, portare fuori la cagnolina a intervalli regolari. La sua routine quotidiana, però, era spezzata da attimi di panico e profonda angoscia. Rimpiangeva di non avere avuto figli. D’istinto, sapeva che quella mancanza l’avrebbe condannata presto o tardi alla solitudine estrema.
Più il tempo passava e più la vecchia signora temeva il momento in cui, fisicamente in difficoltà, non avrebbe avuto altra scelta che essere allontanata dalla protezione del suo triste bilocale in rue Chanzy. Ma, impotente di fronte alla corsa inesorabile del tempo, si era rassegnata e aspettava pazientemente che il suo destino si compisse.
La vecchia signora esibiva un fisico da bambola antica: piccola, ben in carne, i capelli castani perfettamente messi in piega
, una faccia tonda, gli occhi marroni, una bocca piccola da bambina. Il suo aspetto era sempre impeccabile, anche per portare Poupoune a fare pipì. La sicurezza che mostrava era tuttavia guastata da un tic, che peggiorava in caso di contrarietà: serrava le labbra sottili e le faceva sparire e riapparire in meno che non si dica, anche per dieci volte di fila.
Dotata di discrezione, Monique Bonneuil non era una donna cattiva. Affabile e premurosa, era apprezzata dai negozianti del quartiere e dai vicini che spesso le affidavano le chiavi del loro appartamento, in cambio di qualche souvenir portato dalle vacanze. Tuttavia quella sua abitudine di dire sempre quello che pensava senza preoccuparsi degli altri, con il pretesto che l’età la dispensava dal fare troppi complimenti, la condannava a delle relazioni superficiali. La Monique faceva in fondo parte di quelle persone che sono lì vicino ma che nessuno vede veramente. Insomma, era un mobile del quartiere che si sarebbe preferito cambiare per qualcosa di più moderno, ma che in fondo non si ha il coraggio di buttare. Né più, né meno.
Alla vista di quel cadavere e di quella povera ragazza muta, il suo cuore si era spezzato. Un po’. Non poteva non fare niente. Doveva aiutare, offrire qualcosa, mostrare che c’era. E poi, essere utile faceva così bene. Significava esistere ancora un po’, per qualcuno, per una causa. Era una nuova ragione di vita per chi non ne aveva più molte.
Allora chiamò i soccorsi. Allora attese che portassero via il morto. Allora stette accanto a Élise Caravelle per quello che le era possibile. In uno slancio di carità ben ponderato, prese mia madre e la condusse nel suo piccolo bilocale, almeno per quella notte. Perché bisognava bene che qualcuno si prendesse cura di quella povera ragazza.
Il giorno dopo, l’energica Monique e la Poupoune tutta pimpante ritrovarono un’Élise dal