Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

ABC (Crime Line)
ABC (Crime Line)
ABC (Crime Line)
Ebook235 pages3 hours

ABC (Crime Line)

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Immaginate di essere negli Stati Uniti degli anni '90. Immaginate di essere in un vicolo e di trovarvi di fronte un uomo grondante sangue che vi dice di aver appena compiuto una strage. Immaginate di accompagnarlo in un bar o, meglio, in una bettola poco distante e immaginate che lui inizi a raccontarvi una storia, la sua storia. Questo è ABC, il romanzo d'esordio di Rino Tagliafili, che costruisce una imponente trama action attorno al personaggio di Andrew B. Crook, immaginario criminale ricercato da polizia e malavita, e facendo vivere al lettore i momenti della vita che lo hanno portato a diventare uno dei ricercati numero uno negli USA.
LanguageItaliano
PublisherPubGold
Release dateFeb 27, 2018
ISBN9788894839333
ABC (Crime Line)

Related to ABC (Crime Line)

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for ABC (Crime Line)

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    ABC (Crime Line) - Rino Tagliafili

    Psycho

    Copyright

    © 2018 Collana Crime Line, Pubme – Martina Franca (TA)

    Collana Crime Line

    Pubme Srl

    74015 Martina Franca (TA)

    web: pubme.me

    I EDIZIONE, febbraio 2018

    La presente opera è protetta dalle vigenti leggi in materia di diritto d’autore. Essa non può essere riprodotta in toto o in parte senza l’espressa autorizzazione scritta dell’editore.

    Tutti i diritti riservati.

    Grafica e copertina a cura di Righe Gemelle – Servizi editoriali

    Nella stessa collana:

    Danio Mariani, Jack

    Federico T. De Nardi, Betty Suicide

    Rino Tagliafili, ABC

    Rino Tagliafili

    ABC

    A mia mamma per l’amore

    A mio fratello per tutto

    "Quello che ci lasciamo dietro e quello che ci aspetta

    sono niente in confronto a quello che è dentro di noi."

    Ralph Waldo Emerson

    "È un paradosso

    C’ho la terra sotto i piedi

    eppure ha un peso che schiaccia

    Sadico come il foglio

    La vita più bastarda

    che ingravida di un sogno

    e fa abortire a calci in pancia

    Dammi una traccia e farò a pezzi i miei ricordi

    Sopra al tavolo coi ferri

    Messo al muro ai ferri corti

    Sempre stato pronto ai colpi

    Pronto a sanguinare

    Resta da parlare

    e glielo lascio fare a un pubblico di sordi"

    Salmo ft. Mezzosangue - Sadico

    I

    Autunno 1995

    Rosso. È tutto quello che riescono a vedere i miei occhi, o quello che ne rimane. Due sottili linee sbilenche infossate in due altrettanto sbilenchi, enormi, ematomi. Nero e rosso, con qualche sfumatura di viola, volendo essere più precisi.

    Nel mio cranio pulsa un rimbombo incessante. Il fiato è pesante. La testa accompagna il beat dei movimenti che ogni singolo muscolo del mio corpo si impone per riuscire a respirare. In alto e in basso, in alto e in basso. Come a un concerto hip-hop.

    Le spalle si aprono e si chiudono. Il capo si incassa sul collo e resuscita. Il petto si infossa e si espande. Il mio corpo deve permettere ai polmoni di aprirsi a sufficienza per accogliere l’ossigeno. Il mio corpo non vuole che io muoia. Il mio corpo non è come me. Ogni respiro è fuoco nella gola. Ogni respiro è lungo, profondo. Tutta la mia riserva respiratoria si consuma e si reintegra. Sembra voler fuggire da me, da quello che sono.

    In bocca sapore di sangue e vomito. Metallo e hamburger. Ruggine e macinato scadente. I denti non sono che un lontano ricordo. Cerco di non pensarci. Cerco di concentrarmi sul dolore alla testa, sulla pressa che, inesorabile, me la schiaccia.

    Un fischio nelle orecchie, di quelli che ti rimbalzano sulle pareti del cranio dopo cinque ore passate sotto-cassa. Un fischio che ti penetra, stridulo, che vorrebbe farti schizzare le pupille fuori da quella testa di cazzo che ti ritrovi. Anche se adesso dei tuoi occhi, imprigionati in due grossi ristagni gonfi di sangue pulsante, rimane davvero poco.

    Il naso non è altro che un grumo carnoso gocciolante. L’ho rotto talmente tante volte in talmente tanti punti che non ci faccio nemmeno caso. Respirare da lì è impossibile. Maledetta, stupida appendice penzolante.

    Le mani sono anchilosate, come in una morsa. Come quando stai scalando una parete rocciosa altissima e all’improvviso scivoli: nell’esatto momento in cui ti stacchi dalla parete, quando realizzi che è finita, non fai di certo caso a come sono le tue mani. Pensi solo al miserabile cumulo di carne e ossa che rimarrà di te. Potresti pensare al dolore dell’impatto, a quel mezzo secondo in cui tutte le tue ossa si fracasseranno. O forse moriresti di infarto cardiaco nella caduta. Lo sai? Se ti buttassi nel Grand Canyon prima di toccare il fondo avresti il tempo di fumarti una sigaretta intera. Magari penseresti forse riesco ad accendermi un’ultima paglia, ma non faresti sicuramente caso a come sono le tue mani nell’istante in cui perdessi la presa dalla tua vita. Con le mani così, completamente rotte e ormai insensibili, l’unica cosa che mi rimane da fare è cercare di guardare.

    Senza udito, senza gusto, senza olfatto e senza tatto non mi resta null’altro da fare. E l’unica cosa che riesco a vedere è l’asfalto sfocato. Il cemento. Così solido, così duro. È difficile resistere alla tentazione di abbandonarcisi sopra. Nella speranza di venire ritrovato da qualche stronzo che non si fa i cazzi suoi o, meglio ancora, di morire. Morire lì, sopra quello strato di carbonato di calcio e bitume. Calcare e petrolio. Mi piacerebbe tanto. Non per trovare la pace o vergini o una di quelle altre cazzate da religiosi. E comunque sia non andrei mai in paradiso e l’inferno, ne sono certo, non saprebbe che farsene di uno come me. Il diavolo in persona non avrebbe idea di come punirmi. La regola del contrappasso.

    Vorrei morire semplicemente per svanire. Essere dimenticato. Abbracciare il buio eterno. Non riuscendo a espiare tutti i miei peccati vagherei nell’oscurità perpetua. In una giostra che gira all’infinito. L’oblio.

    Lo vorrei davvero, ma sento ancora che non è arrivato il mio momento. Dentro di me sento una fornace che nonostante tutto brucia ancora, più forte che mai. Ignoro chi la alimenti, lo vorrei uccidere con le mie mani. Ma non ci riesco e non posso fare altro che andare avanti. Sino a che il fuochista non sarà troppo vecchio per adempiere al suo lavoro o non finirà il combustibile.

    Non posso fare altro che rimanere seduto sul marciapiede a guardare la strada di una cittadina in culo all’America. Dovrebbe essere ormai l’alba. L’alba di un nuovo, inutile giorno come tanti altri. Un’altra mattina in cui le persone si alzano dai propri letti con la convinzione di poter cambiare il mondo, di poter dare una svolta alle loro vite. Un giorno che verrà ricordato in eterno dall’umanità. Un giorno come tanti.

    Dietro di me un piccolo magazzino industriale, vecchio e cadente. Il portone semichiuso. Cadaveri all’interno. Uomini. Nessuna traccia di scasso; molti chiari segni di colluttazione.

    Nessun altro nel raggio di miglia. Non ancora.

    Oggi sono già nati novantatremiladuecento bambini, di cui un sedicesimo solo in Cina, sono stati abbattuti cinquemilioniottocentoquindicimila alberi e la Terra ha percorso quattrocentoundicimila miglia, ed è solamente l’alba. Un giorno come tanti.

    L’aria, da quello che mi sembra di percepire, è fresca. Una chiara mattina di settembre. Non chiedetemi di descrivervi rumori, impressioni o altre stronzate. C’è silenzio e sono a tanto così dallo svenire. È da quel cazzo di mezzo hamburger di ieri a pranzo che non mangio e da quasi ventiquattr’ore che non cago. Quando piscio mi sembra di orinare latte rossastro e non ricordo l’ultima volta che ho fatto una doccia. Non sono nelle condizioni di descrivere uccellini, brezze e colori. Tranne ovviamente il rosso e il nero-viola.

    Da dietro un angolo sento provenire delle voci. Meno male che non doveva esserci nessuno. Chissenefrega. Tanto prima o poi verrò scoperto, non è più la bella vita di un tempo. Non ora, non in questo luogo. Non in queste condizioni.

    Un giorno come tanti.

    II

    Le voci che ho sentito smettono di confabulare. Mi hanno visto. L’oscurità in cui ero piombato si dissolve e i miei occhi si riabituano lentamente a vedere. Metto a fuoco la pozza di sangue e muco che si è creata fra i miei piedi.

    Silenzio.

    Solo il mio respiro corto e catarroso interrompe la quiete di questo momento. In questa cittadina. Quanto vorrei conoscerne il nome. Che onore sta per ricevere. In questo buco di culo sta per compiersi una delle più grandi catture della storia: Andrew B. Crook sarà arrestato qui. La latitanza di ABC si interrompe in questo sputo di Dio a malapena schizzato sulle mappe. Non New York, non Los Angeles, non Buenos Aires. Non so se questa cosa mi faccia incazzare o mi renda felice. Con il mio curriculum mi sarei meritato una grande metropoli per la mia caduta. Ma per la feccia che sono, forse, mi merito questo.

    Sono due uomini, probabilmente due barboni, dalla zaffata di alcol e marcio che mi invade quando uno dei due si avvicina.

    «Tutto okay amico?»

    Chi cazzo è tuo amico? Non ti conosco, lurido sacco di merda ficcanaso.

    «Tutto okay.»

    «Non sembri in gran forma, ti serve una mano?»

    Quanto lo vorrei uccidere. Ne sarei capace, anche in queste condizioni. Ma sono due e l’altro è lontano. Non avrei la forza di rincorrerlo e la polizia arriverebbe prima d’avere il tempo di rifugiarmi chissà dove.

    «No, sto bene.»

    «Dico sul serio amico, sei ridotto una merda.»

    Respiro più forte del necessario. Il fuochista starà facendo gli straordinari. Devo stare calmo.

    «Ho detto che sto bene, bada agli affari tuoi.»

    Lo guardo. Sulla cinquantina, leggermente sovrappeso, con un berretto di lana viola, una felpa nera e un giaccone verde militare sporco da fare schifo. Scarpe da ginnastica sfondate. Nello sguardo un misto di alcol e sospetto in quel grugno incartapecorito e peloso. Decisamente un barbone. O uno che ha avuto una nottata peggiore della mia.

    «Vuoi che chiami qualcuno?»

    Il suo amico si avvicina lentamente al magazzino. Io non gli stacco gli occhi di dosso. Sulla quarantina, alto, abbastanza massiccio, imbacuccato come se dovesse partire per una spedizione al Polo. Non fa così freddo. Non riesco a inquadrarlo. Lui fa finta di niente e sbircia all’interno del portone. Vede quel macello. Sento che lo vede. Lo percepisco come un fottuto cane percepisce lo stato d’animo del padrone. Il suo aspetto non cambia, l’espressione è sempre la stessa ma sento che non vivrà mai più la vita di prima. Non dopo aver guardato lì dentro.

    Si gira verso di me.

    «Cosa è successo qui dentro?»

    «Io.»

    «Tu cosa?»

    «Sono stato io.»

    Magari si cagheranno addosso e scapperanno. Sarebbe la loro unica via di salvezza.

    «Sei stato davvero tu?»

    «Cosa ha fatto, Zack?» chiede l’altro.

    «Un bordello, non venire qua.»

    Mi osserva. Ha paura. Nei suoi occhi ne vedo tanta. Come quando scivoli dalla parete che stai scalando. Quando cadi nel canyon. Quando di colpo accetti che la tua vita è finita. Che la tua famiglia sarà distrutta per sempre. Che la tua ragazza ti piangerà e poi si troverà un altro. Che i tuoi amici faranno una festa ogni anno nel giorno della tua scomparsa ubriacandosi e brindando a te ma nel frattempo la loro vita andrà avanti. Che della tua vita, di ciò che sei e sei stato non rimarrà che un becero ricordo idealizzato. Nonostante tutto. Perché dei morti ci si ricorda e si pensa sempre bene. Quello sguardo che vede il cielo allontanarsi, come tutti i suoi sogni, i suoi ideali e le sue idee. Quello sguardo di incredulità e rabbia. Esattamente quella espressione che ha il mio nuovo amico sulla soglia del portone del magazzino.

    Si avvicina. Lo vedo tremare.

    «Chi sei tu?»

    Mi inizia a piacere. Non so perché. A pelle. Questo tipo comincia ad andarmi a genio.

    Da qui a un paio d’ore la zona industriale dove siamo sarà immersa nel traffico di camion, auto e mezzi di una normale giornata lavorativa. Qualcuno scoprirà cosa è successo. Qualcuno chiamerà la polizia. Nessuno chiamerà un’ambulanza, non ce ne sarà motivo. Tutti vorranno un colpevole.

    Cappotto lordo lo guarda sorpreso.

    «Zack! Che cazzo è successo?»

    «Sta’ zitto Harry.»

    Si avvicina ancora. Non so se per curiosità, disperazione o semplicemente pazzia. Mi piace sempre di più.

    «Chi sei?»

    D’impulso, gli voglio offrire una possibilità. Voglio offrirmi una possibilità. Una possibilità di redenzione. Di perdono. Di condivisione del mio fardello. Le mie spalle sono ormai stanche di portare questo peso, alcune cose le devo affidare a qualcuno.

    «Se mi offri un giro te lo dico», gli sorrido dalla mia bocca sdentata.

    Non trovo un senso a quello che sto provando ma sento di doverlo fare. Per una volta nella vita mi sento di condividere quello che sono, ciò che ho vissuto e che ho fatto con un perfetto sconosciuto. Magari lo ucciderò appena finito di raccontare. Magari scapperanno a metà della storia. Voglio scoprirlo.

    «Di qua.»

    III

    Harry ci segue come un pulcino segue la sua mamma. È Zack che comanda tra i due. È lui l’alfa.

    Zack fa strada, non mi rivolge neppure uno sguardo, forse sente che per ora non sono una minaccia. Forse è solamente scemo. Harry chiude la fila puntandomi gli occhi alla nuca. Inconsapevole. Povero Harry. Oggi non sarà la tua giornata migliore. Goditi quest’alba che potrebbe essere la tua ultima. Ancora non lo so.

    Ci fermiamo pochi isolati più avanti. Una bettola per camionisti aperta ventiquattr’ore. L’entrata è interrata, circa tre metri sotto la strada. Una ventina di gradini sotto la vita normale, il quotidiano passeggiare delle persone. Un locale in cui se muori sei già sottoterra. Harry corre ad aprire la porta. Che strano modo di comportarsi. Sembra un suddito con il suo re.

    La bettola puzza di muffa, birra scadente e legno fradicio. Un antico, presuntuoso intento di farla assomigliare a un pub inglese. Forse trent’anni prima. Forse un paio di gestioni prima. Nessuno sembra aver fatto nulla per abbellire quel bancone sudicio, quei quattro tavoli pieni di schegge e quel tavolo da biliardo che deve aver visto la sua ultima partita negli anni cinquanta. Nessuno si è preso la briga di aggiustare le mensole, rattoppare la moquette o dare almeno una pulita alle pozzanghere di vomito secco presenti in svariati punti del locale. Il fumo opprime il piccolo spazio e dà un senso di soffocamento e claustrofobia. Nessuno si è sprecato a sistemare, perché posti del genere devono continuare a esistere. Luoghi in cui chiunque può andare a bersi una birra o un whisky senza dover rendere conto a nessuno. Nell’anonimato. Un luogo in cui puoi essere il presidente o l’ultimo stronzo sulla faccia della Terra ma quel miscuglio di acqua, cereali e lievito lo paghi come tutti gli altri, nessuno ti chiede come stai e la polizia non ci mette mai piede. Una specie di chiesa al contrario. Una mecca per i peccatori, dove tutti sono i benvenuti: non importa chi tu sia ma devi aver combinato per forza qualcosa. Dove ti aspetti di incontrare gente come te o peggio. Dove non ci si aspetta di incontrare nessuno in particolare. Perché qui dentro non si cerca nessuno ma si possono trovare varie cose: la cirrosi, la sifilide, la legionella, l’epatite, il tifo, la pertosse, la tubercolosi, il colera, il tetano o, almeno, la mononucleosi o la diarrea. L’aria è densa, sembra di respirare nel deserto. La stessa cappa di calore e umidità ma senza sabbia, solo polvere. La luce è poca. Filtrata dalle piccole finestrelle che dal basso guardano la strada. Meglio così, nessuno ci deve vedere. Il barista sta dormendo su una sedia. Le maniche della camicia logora e sudata tirate fino ai gomiti, i piedi su un tavolo. Nessuno si intrufola qui dentro per rubare. Nessun onesto criminale entrerebbe per fare casino. Questo è un luogo di stallo. Un’oasi dove genti diverse si incontrano, magari si scambiano un cenno con la testa, ma finiscono la loro consumazione e se ne vanno per la propria strada. Non c’è legge ma ci sono le regole non scritte del reciproco rispetto o della reciproca indifferenza. Certo quei muri avranno visto più risse che tutti i ring di boxe del mondo. Saranno caduti più denti qui che da tutti i dentisti di New York. Ci saranno state più sbronze qui che in tutti i paesi nordeuropei. Imprecazioni, coma etilici, botte, disperazione. È questo quello che questi muri mi trasmettono. Abbandono, rassegnazione, fallimento. È questo quello che respiro. Nessuno che entra qui ha buone intenzioni ma chiunque ne avesse non avrebbe il diritto di entrarci.

    Zack si avvicina a un tavolo e si accomoda su una sedia mezza mangiata dalle tarme. Il rumore che produce mentre la sposta sveglia il barista che borbotta sottovoce e, asciugandosi la fronte madida con la manica, si avvia dietro al bancone per ricevere le nostre ordinazioni. Non fa domande, nemmeno si dà la pena di concederci più di un’occhiata. È il pane quotidiano per lui. Uomini coperti di sangue, sporchi, che possono appena aver rapinato una banca o ucciso una persona. Nel secondo caso ci avrebbe azzeccato.

    «Tre birre», abbaia Zack, che da quando è entrato sembra, se

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1