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L'ora del diavolo: E altri racconti fantastici
L'ora del diavolo: E altri racconti fantastici
L'ora del diavolo: E altri racconti fantastici
Ebook188 pages2 hours

L'ora del diavolo: E altri racconti fantastici

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L’ora del diavolo” è un’antologia di racconti fantastici ispirati a leggende e tradizioni popolari lucchesi. Tredici storie che conducono il lettore nei sentieri oscuri della Lucchesia, della Versilia e delle Alpi Apuane, assieme al linchetto, alle sirene, agli streghi e a tutte le creature fantastiche che popolano l’immaginario locale. Storie di donne bellissime e maliarde, di guardiani di abissi oceanici, di uomini insicuri e inappagati, pronti a evocare il diavolo per chiederne i favori. Presenza incombente nella loro vita, mercante di sogni altrui, il diavolo tesse la sua tela all’ombra degli uomini, fautori inconsapevoli del proprio destino, e anche del suo.

L’ora del diavolo” contiene i racconti: L’ora del diavolo, Il guardiano degli Oceanini, Le voci alla Balza, La donna di fuoco, La luna sul fondo, La guerra del Fatonero, Il mercante di sogni, Gli uomini della neve, Il violinista del diavolo, Le fate di pioggia, Il risveglio degli Oceanini, Che fine ha fatto Babbo Natale?, In viaggio con te.
LanguageItaliano
PublisherNPS Edizioni
Release dateFeb 23, 2018
ISBN9788894210293
L'ora del diavolo: E altri racconti fantastici

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    L'ora del diavolo - Alessio Del Debbio

    Tobino)

    L’ORA DEL DIAVOLO

    Correva. Da ore correva, da quanto non lo sapeva più neppure lei, per le strade di una città immersa nella nebbia e sorda alle sue grida. Com’era possibile che nessuno la udisse? Che nessuno sentisse le invocazioni disperate che stava rivolgendo al Salvatore e a tutti i suoi angeli?

    Affannata, si voltò a guardarsi indietro e inciampò nella lunga gonna col pizzo, cadendo a terra, tra le pietre umide dell’acciottolato. Aveva piovuto per tutto il giorno, quel lunghissimo giorno che avrebbe dovuto essere l’ultimo della sua vita, impedendole di ammirare la sua città risplendere sotto il sole. Una città forte, elegante e stoica, proprio come lei.

    Quando la pioggia era cessata, era calata la sera brumosa, sprofondando Lucca e la sua campagna nel silenzio. Che ci fosse il suo zampino, Lucida Mansi non aveva dubbi. Il diavolo non si era dimenticato di lei e voleva divertirsi un po’, torturandola fino a farle implorare la morte. Fino a farle desiderare lo scoccare dell’ultima ora e il pagamento del conto.

    Tutti i crediti, in fondo, dovevano essere pagati e lei lo sapeva bene, lei che per trent’anni aveva avuto tutto dalla vita.

    Il latrare furioso la scosse e la spinse a rialzarsi, stringendo i denti per il dolore alla caviglia e per i piedi gonfi, non abituati a correre in scarpe eleganti. Dietro di lei non c’era nessuno, soltanto la foschia che aveva invaso via Fillungo, nascondendo i palazzi antichi, le botteghe e i ricordi di giorni in cui vi aveva passeggiato ammirata da tutti. Ma Lucida sapeva che stavano arrivando, le sembrava di sentirli ansimare sul collo, quei fetidi cani infernali.

    «Manca poco! Ce la posso fare!» si disse, voltandosi e fissando un punto imprecisato nel cuore di Lucca, dove stava cercando di arrivare da ore. Il diavolo doveva aver compreso il suo proposito, cambiando la disposizione dei palazzi della città e generando illusioni che Lucida non riusciva a superare. Era impossibile, del resto, che non fosse ancora giunta alla Torre delle Ore.

    La nobildonna prese fiato e ricominciò a correre, incurante dei ringhi alle sue spalle. Non doveva farsi distrarre; contro i cerberi non aveva speranza. La sua unica possibilità era lassù, nascosta oltre la cappa di morte che saturava l’aria di Lucca, nella torre più alta della città.

    Inciampò di nuovo, nei maledetti sampietrini della pavimentazione, togliendosi infine le scarpe e proseguendo a piedi nudi. Chissà se era in una di quelle botteghe che Augusto le aveva fatte preparare per lei, con quella bizzarra rosetta e quel tacco scomodo? Non che le fosse mai importato qualcosa di Augusto, uno dei molteplici amanti che avevano riempito le sue giornate, strappandola alla noia della vedovanza. Ma, tra i tanti, aveva apprezzato chi sapeva distinguersi con un regalo.

    Non gli aveva detto così l’ultima volta in cui l’aveva accolto a Villa Mansi? Prima che si facesse soffocante e pretenzioso, come tutti gli uomini tendevano a diventare dopo un paio di incontri, come se disponessero del diritto divino di farla loro. Avesse voluto un marito, si sarebbe risposata da tempo. Ma due le erano bastati.

    Poveri sciocchi! Aveva pensato, osservandone negli specchi i corpi avvizzirsi, fino a diventare polvere. Io non sono di nessuno!

    Mai come adesso quelle parole le parvero vuota ironia. Una bugia di cui si era riempita la mente per cacciare il pensiero di quella notte, per distogliere lo sguardo dal passare del tempo.

    Qualcosa di pesante le balzò sulla schiena, spingendola a terra e strappandola ai ricordi. Ormai non poteva concedersi neppure quelli. Si voltò, agitando un braccio a spazzar via la cosa che le aveva piantato gli artigli nella pelle, facendola sanguinare. Non la vedeva ma la sentiva fiatarle in faccia le fiamme dell’inferno.

    «Non… ancora!» avvampò, rialzandosi di scatto e gettando via il cerbero invisibile. Con un disperato slancio si tuffò nelle nebbie di via Fillungo, cercando di tenersi quanto più possibile vicina al muro sinistro. Lo toccò, per essere sicura che fosse reale, ne studiò la lavorazione e capì di essere ormai vicina. Riconobbe il posto, la bottega dell’antiquario dove Gaspare l’aveva condotta anni addietro, l’odore di legno lavorato che le riportava alla mente la fanciullezza, e seppe di essere arrivata.

    La Torre delle Ore sorgeva nell’isolato successivo.

    Svoltò l’angolo e… si ritrovò in un’ampia piazza, dalla forma ellittica, circondata dalle facciate di edifici che sembravano osservarla superbe e divertite. Non abitava proprio lì, vicino ai magazzini del sale, uno dei suoi primi amanti? Il giovane dalla pelle candida, appena uscito dalla pubertà, che aveva sedotto a un ballo? Oh sì, rammentava ancora il timido tocco delle sue mani, la prima volta in cui l’aveva posseduta, l’impaccio e poi l’intemperanza di un’adolescenza che lei aveva portato a termine.

    Come mai le fosse tornato in mente proprio in quel momento non seppe spiegarselo, né seppe spiegarsi perché si era ritrovata lì, convinta di aver già oltrepassato la Piazza dell’Anfiteatro.

    Si voltò per tornare sui suoi passi, ma inorridendo vide che alle sue spalle vi era soltanto una parete, murata con ciottoli fluviali. Spostò lo sguardo lungo i confini della piazza, cercando un’altra uscita. Doveva esserci, sapeva che ce n’era più d’una, e quel pensiero la fece correre avanti, nella nebbia.

    «Dove vai Lucida?» la chiamò una voce maschile all’improvviso. «Vieni da me?»

    «Ma no, sciocco! Non vedi com’è vestita? Viene da me» intervenne una seconda, mentre evanescenti sagome di nebbia spuntavano attorno a lei. «Guardatela, sembra una contadina, tutta sporca e scorticata! Ma lo sappiamo che a Lucida piace fare la sporcacciona! Ah ah!»

    Lucida si guardò attorno, spalancando gli occhi verdi nel riconoscere i fantasmi degli uomini a cui si era unita. Erano una moltitudine, ben più di quanti ne ricordasse, ma del resto non si era mai premurata di tenere il conto. Ciò che aveva desiderato era riempire il vuoto, fingendo di dare un senso alla sua esistenza.

    «Per cos’altro viviamo, in fondo, se non per godere a pieno di ogni momento?» amava ripetere ai suoi corteggiatori, quando, distesi tra le arruffate lenzuola di seta, li incitava a prenderla ancora, d’amore mai paga e di lussuria schiava.

    E ora erano lì, tutti quanti. Augusto, Vincenzo, Gaspare, il figlio del gonfaloniere, persino un principino della Lorena che si vantava di essere imparentato col Re di Francia. Ma non erano giovani e aitanti, come amava sceglierli, non vestivano gli eleganti abiti imbevuti di dolci fragranze importate dall’Oriente, non facevano a gara per chiedere la sua mano. Adesso erano vecchi e brutti e chiedevano indietro la vita che lei aveva strappato loro, la vita grazie alla quale non era mai sfiorita.

    «Vieni qui!» le sussurrò un uomo dal volto butterato, che Lucida riconobbe come il suo secondo marito, ucciso per incassare l’eredità. Gaspare avanzò con le braccia rachitiche tese in avanti, le dita che parevano artigli pronti a ghermire.

    Lucida indietreggiò, andando addosso ad altri che tentarono di afferrarla con dita scheletriche. Uno riuscì a chiuderle intorno al suo braccio ma lei si dimenò strillando e si allontanò, strappandogli l’arto, che rimase così, macabro promemoria della loro fine. Della fine di tutti loro.

    Reprimendo il disgusto, la nobildonna lo afferrò e lo usò come arma per tenere gli altri a distanza, ma non ottenne altro risultato se non strappare loro risate infernali. Con le orbite vuote, i crani in putrefazione e i capelli ridotti a lanuginosi fili grigi, quei morti viventi le chiusero ogni via di fuga, circondandola e allungando le mani su di lei.

    La gettarono a terra e la toccarono ovunque, palpandole le cosce che così tanto amava farsi carezzare e strappandole l’abito in più punti, per quanto Lucida cercasse di tenerlo a sé. Era strano come desiderasse nascondere la propria nudità quando in passato non aveva fatto altro che ostentarla, servendosene come arma di seduzione.

    Urlò, mentre gli spiriti si ammassavano attorno a lei, contendendosi il diritto di possederla, ma la sua voce sembrò il cinguettio di un pettirosso assediato da un branco di leoni.

    Pettirosso? Quale ironia! Uno dei soprannomi che Augusto le aveva dato, quando la ammirava danzare nuda per la camera, canticchiando allegri motivetti appresi nei salotti. E adesso quell’Augusto era proprio lì, con le nocche serrate attorno al suo collo, a pretendere vendetta per la vita che gli aveva strappato. Poteva forse biasimarlo?

    Stava per abbandonarsi al torpore, lasciando che facessero di lei quel che volevano, quando udì la risata beffarda che tanto temeva. La udirono anche gli spettri, che sollevarono il capo verso il cielo tetro e si guardarono attorno con ansia, prima che un boato li facesse strillare.

    Lassù, sopra l’anfiteatro apparve una carrozza di fuoco, il cui postiglione in abito nero frustava affamati cani demoniaci con una verga incandescente. Uno dopo l’altro, i fantasmi scapparono urlando e si dispersero tra le nebbie della piazza, ma il diavolo li chiamò a sé, risucchiandoli in una spirale di fiamme che illuminò il cielo. Una spirale al cui centro si ergeva lui, a braccia aperte, invitando Lucida a raggiungerlo.

    «Tic toc! Tic toc!» disse, piombando su di lei tra zolfo e strida.

    Fu con un ultimo sprazzo di lucidità che la donna si rialzò e si lanciò in una folle corsa verso il portale ad arco più vicino che l’avrebbe riportata su via Fillungo e da lì alla Torre delle Ore. Corse, incespicò, si ruppe le unghie dei piedi sanguinanti, mentre la figura demoniaca la inseguiva sghignazzando.

    Non seppe neppure lei come, ma riuscì a infilare nel tunnel sotto l’arco di pietra, uscendo dall’anfiteatro, e sobbalzò nel sentire le risate svanire. Forse il diavolo si era schiantato contro le mura sovrastanti?

    Meglio così! Si disse, fiondandosi verso l’altra uscita del tunnel, solo per ritrovarsi bloccata da un muro di fiamme sorto a sbarrarle il passo. E in mezzo a quel muro lui avanzava!

    Roteò su se stessa, ma alle sue spalle la piazza era sparita, inghiottita dall’oscurità. C’era solo una porta di legno, alla sua destra, che di certo conduceva a una delle case sorte attorno all’anfiteatro. Vi si gettò contro, la batté, la scosse, invocando aiuto in tutte le lingue note, finché non riuscì a sfondarla e a ruzzolare dentro, ritrovandosi su un pavimento di pietra. Davanti a lei, una tortuosa scala si inerpicava verso l’alto e là, in cima, Lucida sapeva cosa avrebbe trovato.

    Un morso a una gamba la fece strillare, mentre si dimenava per liberare l’arto ferito, scalciando il cerbero affamato. Si trascinò avanti e afferrò il legno della porta, gettandolo dietro di sé, contro mastini che non poteva vedere, quindi iniziò a salire le scale della Torre delle Ore. Corse finché la stanchezza non la prostrò, forzandola a un passo più lento. Troppo lento.

    Un altro morso a una gamba e le zanne andarono più a fondo, strappandole un grido e fiotti di sangue che ruscellarono lungo le scale. Cadde a terra, strascicandosi sui gomiti, abbrancando i gradini e la ringhiera, mentre i cani la mordevano, la azzannavano e cercavano di trascinarla in basso, là in fondo, dove divampavano le fiamme dell’inferno.

    Una bestia le staccò persino un dito dei suoi bei piedini, ma lei non se ne curò, sicura che qualche amante, magari un medico di Pisa, glieli avrebbe curati. Anche il vestito potevano farlo a brandelli, ne aveva a centinaia nella raffinata magione e altri ne avrebbe ordinati, mettendoli in conto a qualche spasimante. I capelli poi, che glieli strappassero tutti, avrebbe indossato parrucche, com’era in voga in Francia. E lei, vezzosa e capricciosa, avrebbe cavalcato la moda del momento.

    Il pensiero di tornare a Villa Mansi, ad ammirarsi giovane e bella nei cento specchi che ne ornavano le pareti, le diede la forza per l’ultimo scatto. Mancava poco ormai, solo un piano e avrebbe raggiunto la sommità della Torre delle Ore. La campana era lì, poteva vederla, poteva sentirne l’odore ferruginoso. Doveva solo alzarsi e prendere il batacchio, senza il quale la mezzanotte non sarebbe mai giunta e il contratto non sarebbe scaduto.

    Ma i cerberi non le diedero tregua, schiacciandola a terra e aprendole così tanti tagli sul corpo da finire quasi per dissanguarla. Priva di forze, capitolò a pochi passi dalla meta.

    «Posso aiutarti?» le chiese allora una voce cortese, proveniente dalla cima della torre.

    Lucida riaprì gli occhi insanguinati e vide un giovane, sui vent’anni, affacciarsi dal pertugio che conduceva alla campana. D’incarnato chiaro e ben curato, il ragazzo dagli occhi azzurri indossava un elegante abito nero, di certo confezionato in qualche sartoria di via Fillungo. Lucida ne riconobbe l’accurata lavorazione, la preferita tra quelli che amavano attirare le sue attenzioni, e il portamento signorile. Lo aveva già incontrato? Le pareva di sì. Forse era lui che abitava nella Piazza dell’Anfiteatro?

    Scosse la testa dolorante, mentre il ragazzo scendeva qualche passo, invitandola a raggiungerlo. La donna, distrutta e inebetita, accettò il braccio teso, ricambiando il sorriso.

    «Ti stavo aspettando, Lucida!» gli sentì dire, mentre la tirava su, con una forza che non immaginava possedesse. «Da trent’anni ormai!» Il suo sorriso si allungò, divenendo un ghigno di fuoco.

    Lucida urlò, ricordandosi di quel giovane, incontrato trent’anni addietro, dopo la morte del secondo marito. Anche quella notte aveva indossato lo stesso abito e lei era caduta ai suoi piedi, stipulando il patto che le aveva permesso di rimanere giovane, senza invecchiare nemmeno un giorno, assorbendo la forza vitale di coloro che la circondavano.

    Il patto che l’aveva legata al diavolo.

    «È tempo che tu li raggiunga!» disse il demonio, portandola in cima alla torre, dove la carrozza fiammeggiante la attendeva.

    I mastini infernali ringhiavano famelici, vomitando bava di fuoco, e tutto attorno ululavano gli spiriti dei dannati.

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