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Favola per sognatori perduti
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Favola per sognatori perduti

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About this ebook

A volte, compaiono persone che ci aiutano a vedere i nostri limiti. Possono spronarci a cambiare. Una bambina dai biondi riccioli vi condurrà in un bosco incantato. Una donna con il volto della luna saprà aprire il vostro cuore. Nel profondo della natura fatata, emergeranno le passioni e i veri desideri di un uomo che si era smarrito, ma che saprà trovare la sua strada per la felicità.
Una fiaba, per fare la pace con la fretta. Una fiaba per raccontare che nulla è scontato.
LanguageItaliano
PublisherBlonk
Release dateFeb 21, 2018
ISBN9788827575680
Favola per sognatori perduti

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    Favola per sognatori perduti - Simona Pafundo

    Shakespeare

    Capitolo I

    La pazzia, signore, se ne va a passeggio per il mondo come il sole, e non v’è luogo in cui non risplenda.

    -La dodicesima notte- W. Shakespeare.

    Mi ero perso. Dannazione!

    Ero fermo sulla riva sassosa di un ruscello, dopo aver vagabondato nel bosco alle mie spalle. Spiai i tronchi imponenti, che nascondevano parte dell’azzurro sopra la mia testa. Formavano una fitta rete, con i loro rami intrecciati alle piante più basse, le invisibili ragnatele e le grosse radici contorte.

    Una bella trappola. Una gabbia, dalla quale ero riuscito a scappare.

    Sollevai le braccia e intrecciai le dita, portandole dietro la nuca.

    Ma per quale dannata ragione, avevo deciso di entrare nel bosco?

    Era umido, tetro e non c’erano tracce dell’ipotetico sentiero che avrei dovuto percorrere. Avrebbe dovuto essere segnalato. Io, di segnali, non ne avevo visti. Anzi, non avevo visto né un cartello, una freccia, un’indicazione colorata, né tantomeno la loro ombra!

    Invece di rilassarmi, mi stavo innervosendo.

    Chissà dove mi trovavo. Chissà qual era la direzione giusta da prendere, per tornare in paese.

    Mi fossi ricordato di prendere una cartina, una bussola, un qualcosa per orientarmi! Avrei dovuto pensarci, prima di partire per l’avventura, come uno sprovveduto qualunque. Ma perché ero entrato nel bosco? Io non sapevo come orientarmi in un ambiente naturale. Ero abituato a cartelli segnaletici che mi indicavano, senza troppa fatica, dove dirigermi e, spesso, anche il perché farlo. Ero abituato alla giungla asfaltata. Non all’ammasso verde che incombeva su di me.

    Cercai il sole, alzando lo sguardo oltre le fronde scure. Almeno sapevo che, quando il sole si fosse trovato esattamente sopra la mia testa, sarebbe stato mezzogiorno. O mi sbagliavo?

    Avevo bisogno di certezze.

    Dannazione.

    Sassi, acqua, foglie, rami, alberi. Questo avevo intorno.

    Nulla di utile.

    Dannazione.

    Il mio sguardo si fissò su un largo sasso piatto, proprio accanto all’acqua gorgogliante. Mi ci sedetti sopra. Tanto, che altro potevo fare? Riflettere da seduti era meglio che riflettere in piedi, ma la nuova posizione non mi aiutò in nessun modo. Come avrei fatto a tornare in paese? Ero decisamente nervoso.

    Dannazione, non avevo intenzione di farmi prendere dal panico. Avrei trovato una soluzione. Ero sempre stato capace di trovare una soluzione a un problema e l’avrei fatto anche in quell’ambiente privo di controllo. Stavo fissando l’acqua del ruscello, accanto a me. Il suo rumore mi catturò. Era la sola cosa che mi ricordava il traffico cittadino, in cui ero sempre immerso. Mi dava una parvenza di normalità. Era l’unico particolare che mi dava una vaga sicurezza.

    Mi passai una mano sul viso, sugli occhi. Maledissi la mia incoscienza. Avevo lasciato il mio telefono, spento, in albergo. Faceva parte della ricetta per rilassarmi, per curarmi. Vacanza forzata con distacco dalle abitudini quotidiane. Era per quelle assurde idee che mi ritrovavo solo e perso in un bosco sconosciuto. Perché? Per un po’ di stress, di nervosismo esasperato? Perché vi erano momenti in cui il mio cuore partiva senza controllo e mi sembrava di impazzire?

    In fondo, il mondo era quello e tanto valeva ballare, piuttosto che rimanere a guardare. Anzi, cosa avrei dovuto guardare? Quella distesa insensata di foglie e tronchi e sassi? Ma, poi, perché non me ne ero stato tranquillo in albergo, facendo assolutamente nulla?

    Rimpiangevo la mia quotidianità. Avevo confessato al mio psicoterapeuta che, negli ultimi tempi, la vita mi era sembrata un vortice senza fine e, soprattutto, senza uno scopo. Ero stato costretto a fare qualche seduta con lui, dopo l’ennesimo attacco di panico. Maledissi la mia confessione e maledissi pure lo psicoterapeuta. Non avrebbe potuto darmi una bella pillola, da prendere tutte le mattine? Una pillola del buonumore. No, per me ci voleva una pillola del Guarda la vita com’è bella e via. Io non volevo fermarmi a pensare. Avevo sempre evitato di riflettere su questioni filosofiche, come sui grandi perché della vita. I classici: Chi sono?, Dove vado?.

    Assurdo.

    Non avevo tempo per filosofeggiare.

    Non volevo farlo.

    E sapevo perché.

    Non volevo vedere com’era realmente la mia vita. Non volevo essere messo di fronte alla realtà di ciò che era la mia esistenza, di chi ero. Le mie giornate erano piene di parole. Parlavo in continuazione. Mediavo. Mediavo fra le richieste del mio capo, mio padre, e quelle dei miei clienti. Fra quelle della mia famiglia e della mia ragazza. Cercavo di rendere tutti sicuri del fatto che le loro richieste sarebbero state soddisfatte, in tempi brevi.

    Mentivo.

    Mentivo così bene, che credevo io stesso a ciò che dicevo. No, dai. Non mentivo, dicevo solo una parte di verità, quella che gli altri volevano sentirsi dire per essere felici. Omettevo dei particolari, in alcuni casi. In quel modo, ero felice anch’io. Facevo quel lavoro da così tanto tempo, che anche le mie relazioni erano diventate così. Anch’io. Ero una parte della verità di me. Omettendo alcuni miei particolari. E poi, naturalmente, dovevo sostenere le loro richieste. Tutti chiedevano e io impazzivo per soddisfare tutti. Tanto, io sembravo esistere solo nel momento in cui servivo.

    Eccolo, il fiato corto.

    Stavo facendo fatica a respirare. Ed ero in vacanza!

    Era tutto inutile. Inutile.

    Il mio cuore impazzava. Sentivo il suo battito sconnesso nelle mie orecchie.

    Dovevo smettere di andare in vacanza.

    Così, sarei esploso definitivamente.

    Fissavo l’acqua davanti a me.

    Nuotavo nei miei pensieri, con le mani strette a pugno.

    «Ciao.»

    Sollevai la testa di scatto. Vidi che accanto a me era comparsa una bambina, alta poco più di un metro. Aveva i capelli biondi, mossi, lunghi fino alle spalle. Incrociai con lo sguardo i suoi grandi occhi verdi. Il loro colore era davvero intenso. Luminoso. La pelle chiara del suo viso si colorava di rosa sulle guance.

    «Ciao» le risposi. Accennai un mezzo sorriso. Dovevo calmare il mio cuore impazzito. Non potevo andare avanti in quel modo. Inspira, mi comandai. Espira. Inspira lentamente. Espira lentamente. Sciolsi la tensione delle mani, allargando le dita.

    «Cosa fai? Ti sei perso?» mi domandò. Faticava a dire la r. Quella consonante le usciva più simile a una l, rendendo la sua parlata tipicamente infantile.

    «No» le chiarii. Avevo risposto velocemente, il tono della mia voce era stato perentorio. Non volevo dissimulare il fastidio che la sua domanda mi aveva procurato. Ed ero a disagio. Non ci sapevo fare con i bambini. Per fortuna, il mio respiro stava tornando normale. Mi alzai dal masso. La fronteggiai.

    «E, allora, cosa stai facendo qui?» chiese la piccola, senza staccare gli occhi da me.

    Non mi sembrò per nulla colpita dalla mia reazione. Inoltre, con la mia altezza quasi doppia rispetto alla sua, la stavo sovrastando. Dovevo essere un gigante, per lei. O no?

    Mi irritai.

    «Mi stavo riposando.»

    «Sì. Questo è un buon posto per riposare.» La bambina mosse il capo dall’alto verso il basso, come se volesse rafforzare il senso delle sue parole.

    Quella era l’osservazione più assurda che io avessi mai sentito. Come faceva un sasso in riva a un ruscello, disperso nel nulla, a essere un luogo ideale per rilassarsi?

    Era scomodo. Era freddo. Era esposto alle intemperie.

    Sollevai un sopracciglio ma la bambina aveva sul volto l’espressione di chi è convinto delle proprie idee. Teneva le minuscole mani nascoste dietro la schiena. Indossava un vestitino verde che mi ricordò il colore di un semaforo: dei tre, quello più in basso. No, non aveva, però, quell’intensità elettrica. Era decisamente più tenue, come tinta.

    «Io mi chiamo Bucaneve. E tu, come ti chiami?»

    «Ti chiami Biancaneve?» domandai. Abbandonai all’istante la mia posa irritata. Ero sbalordito. Che razza di nome le avevano dato?

    «No» mi corresse la bambina. Scosse il capo con vigore e i suoi capelli dorati si mossero in onde scomposte. «Mi chiamo Bucaneve. Bu-ca-ne-ve. Come i primi fiori della Primavera» mi spiegò. Nella sua voce c’era un’infinita pazienza, come se sapesse di dovermi spiegare una verità che io non potevo comprendere.

    Rimasi a bocca aperta. Nel senso, che davvero aprii la bocca senza riuscire a dire nulla per qualche istante. Che genitori fantasiosi! Non avrebbero potuto chiamare la figlia con un nome più normale, che ne so, un Claudia o Silvia? La gente era insuperabile, quando tentava di distinguersi dagli altri. E poi, ero in grado di comprendere realtà ben più complesse. Era quella bambina a non capire chi si trovava davanti a lei.

    «Sai quali fiori sono?» m’incalzò Bucaneve, imperterrita.

    «No.» Figuriamoci se mi ero mai interessato a una cosa del genere! Ero piuttosto seccato. Non me ne importava nulla, dei fiori. Né dei nomi dei bambini, di genitori estrosi, di stagioni e di posti dove riposare. Volevo soltanto ritrovare la strada per il paese.

    Dovevo aver espresso tutti i miei pensieri in quell’unico monosillabo, perché vidi il viso di Bucaneve rabbuiarsi. Abbassò lo sguardo al suolo e il sorriso scomparve dalle sue labbra. Non ci sapevo davvero fare con i bambini.

    «Magari, potresti farmi vedere tu, che fiori sono» risposi. Mi sentivo in colpa. Dannazione. Volevo rimediare a ciò che avevo fatto.

    Gli occhi della bambina si fissarono nuovamente su di me e mi sorrise. Mi sentii sollevato. In fondo, soddisfare gli altri era ciò che sapevo fare meglio. Anche se non me ne importava nulla di chi avevo di fronte. Ormai, era un riflesso incondizionato.

    «È un po’ tardi per riuscire a trovare dei bucaneve, ma possiamo cercare insieme!» esclamò lei, allegra. Quella r sembrava proprio non uscire dalla sua boccuccia.

    Mi passai una mano fra i capelli. Certo che, se a un bambino dai un dito, lui ti prenderà tutto il braccio! Forse la mia proposta non era stata una buona idea.

    «Dov’è tua madre? Dove sono i tuoi genitori?» le chiesi. Scelsi di ignorare la sua risposta. Volevo andarmene da lì. Il prima possibile. Dannazione, non potevo però lasciare da sola una bambina, sulla riva di un fiume sconosciuto, in

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