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Finché ho te sarò felice (Floreale): Vol. II Felice perché ho te
Finché ho te sarò felice (Floreale): Vol. II Felice perché ho te
Finché ho te sarò felice (Floreale): Vol. II Felice perché ho te
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Finché ho te sarò felice (Floreale): Vol. II Felice perché ho te

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Finché ho te sarò felice è l'attesissimo seguito del bestseller “Felice perché ho te” di Hazel Pearce.

"Di una sola cosa ero certa in quel momento e cioè che io, senza Alessandro Alinovi, non potevo esistere." Il mondo di Aurora sembra distrutto. Dopo la burrascosa fine della più travolgente storia d’amore che avesse mai potuto vivere, lei si ritrova con un cuore spezzato e un’anima rabbiosa. Il destino, però, sembra volerle giocare ancora un brutto scherzo e sarà una telefonata, l’ennesima, che devasterà completamente le sue abitudini: una persona a lei cara non c’è più e la ragazza è costretta a ritornare in quel passato che l’ha portata a toccare il fondo. Sarà proprio lì che Aurora dovrà misurarsi con la sua vita, ritrovandosi ad affrontare quell’uomo che l’ha distrutta. Alex non l’ha mai dimenticata e nemmeno lei, nonostante credesse il contrario. La chimica e la passione tra i due riesplode violenta, ma c’è qualcosa di troppo oscuro nel trascorso di Alinovi che lascerà dei segni indelebili sulla loro incredibile e, ormai indistruttibile, storia d’amore.

"Era di nuovo riuscito ad avermi, ero di nuovo tra le sue braccia; dovevo arrendermi a quell’uomo: l’imprenditore Alinovi otteneva sempre quello che voleva e io ne ero l’esempio palese. Non avevo più voglia di combattere per stargli lontano, non volevo più resistergli. Il bisogno disperato che avevo di lui ormai si era insinuato in ogni meandro della mia anima. Non c’era posto per nient’altro se non il desiderio e l’ardente necessità di amare Alessandro Alinovi con tutta me stessa."

"Sei tu la mia felicità" è il terzo ed ultimo volume della serie, disponibile dal 29 ottobre in tutti gli store

Per info: collanafloreale@gmail.com

Altri libri della Collana:

- “Come la Pioggia, accarezzami l’anima” di Elisabetta R. Brizzi;
- “Il diario di Ilary” di Alice Steward;
- “Profumo di zucchero e vaniglia” di Elena Ungini;
- “L’inverno nei suoi occhi” di Marta Arvati

Segui la Pagina Facebook: Collana Floreale
LanguageItaliano
PublisherPubGold
Release dateFeb 20, 2018
ISBN9788894839289
Finché ho te sarò felice (Floreale): Vol. II Felice perché ho te

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    Book preview

    Finché ho te sarò felice (Floreale) - Hazel Pearce

    l’odio

    Prologo

    La città risplendeva sotto il gelido sole invernale. Case basse, palazzi in stile Barocco, strade affollate di gente e macchine che sfrecciavano allo scattare dei semafori. Suoni e musiche popolari che suonavano nelle piazze, odori e sapori provenienti da tanti paesi diversi.

    Tutto si annullava non appena entravo in quel posto. Passeggiare tra i corridoi silenziosi, scrutare i reperti, notare i volti esterrefatti ed entusiasti dei turisti. Le loro smorfie scioccate, i loro sospiri sorpresi.

    Staccare sempre alle ore beate, dare libero sfogo alla rabbia e alla collera che da un anno a quella parte erano ormai tratti distintivi del mio animo. Una nuova Aurora, una persona del tutto diversa da quella che ricordavo di essere solo poco tempo prima. Quella sorridente e solare, capace di amare ed essere amata, non c’era più, sepolta insieme al cuore che ormai non batteva più. Non mi interessava capire ed essere capita. Mi bastava prendere il mio generoso stipendio, tirare calci ad un sacco imbottito e sparare una scarica di pallottole contro un bersaglio di carta. Al di fuori, per me era tutto opaco e privo di senso.

    Nessuna passione sfrenata, nessuna voglia matta di calore umano. Solo me e la mia miserabile solitudine che ormai era la mia migliore amica. Avevo interrotto ogni possibile contatto con il mondo che ormai mi ero lasciata alle spalle. Niente più Camille e Isabel, niente Flavia o Emanuele. Arianna non esisteva ormai da tempo. Era stata lei la causa del mio cambiamento ed era grazie ad essa che la mia aggressività dominava il mio carattere.

    Così i giorni scorrevano lenti, le ore infinite e i secondi eterni. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, il mio quieto vivere stava riprendendo forma davanti ai miei occhi, ma evidentemente, al destino non piaceva che io vivessi tranquilla.

    Tutto di nuovo, completamente stravolto da una maledetta telefonata.

    Capitolo 1

    Il periodo antecedente le feste natalizie era critico per il Museo Egizio di Torino. I turisti arrivavano da ogni parte del mondo.

    I primi giorni erano stati terribili. Lavorare rinchiusa dentro quelle mura mi dava la sensazione di soffocare. Mi ci abituai col tempo, sarebbe stato strano ora se avessi dovuto accompagnare gruppi di turisti a zonzo per le strade di Torino.

    Non era passato molto tempo da che il mio nome risultò nuovamente nella lista delle guide disponibili per un ingaggio. Avevano chiamato e mi avevano fatto quella proposta che all’inizio vidi come uno spreco di tempo. Tutto per me lo era. Guidata dal buon senso di mia madre, avevo afferrato al volo quella nuova opportunità che la vita mi stava offrendo per voltare pagina. E lo feci.

    I sorrisi, la cordialità e i buoni modi con i quali lavoravo, si spegnevano definitivamente una volta uscita dal museo. Mi trasformavo nell’anima solitaria che ero ormai diventata da un pezzo: nessun sorriso, nessuno scambio di battutine con i miei nuovi e numerosi colleghi. Fredda e distaccata. Dare confidenza alla gente mi aveva rovinato l’esistenza e aveva completamente cambiato il mio modo di vedere le cose. Nessuno che appartenesse alla mia stretta cerchia di affetti si meritava quel briciolo di cuore che mi era rimasto. Avevo troppa paura che si spegnesse anche quello e lì sarebbe stata la fine per me.

    Il corso di autodifesa che frequentavo spesso nell’arco della settimana, aveva modificato anche il mio aspetto fisico: addio ai rotolini di ciccia sui fianchi, ora solo un ventre quasi piatto. Le gambe flaccide si erano tramutate in fasci di muscoli sottili.

    A rilassare ancora di più i nervi tesi, non c’era nessun corso di yoga o cose del genere. Maneggiare quella calibro trentotto era meglio di una cucchiaiata di Nutella. Posizionavo le cuffie sulle orecchie, sistemavo gli occhialetti protettivi e lasciavo andare il dito sul grilletto, aspettando che quello scattasse a vuoto prima di ricaricarlo e riprendere a trivellare quella sagoma che, ad ogni giro, assumeva il volto di tutte quelle persone che mi avevano ferita: chi mi aveva mentito, chi mi aveva tradita e chi mi aveva sbrandellato l’anima. Non ero ancora abbastanza instabile da prendere il treno per andare a puntare la canna della pistola in mezzo agli occhi della gente, ma mai dire mai.

    Finito il giro con gli ultimi turisti gallesi, mi recai a passo spedito verso gli spogliatoi. Ero in ritardo per la lezione di autodifesa con Karina, una donna-armadio di due metri in grado di sbrindellare una colonna di cemento armato con un pugno (non scherzo, gliel’ho visto fare davvero).

    Spinsi la porta sbattendola contro il muro, incurante delle due ragazze che si stavano cambiando e chiacchieravo sedute sulla panchina. Con la coda dell’occhio le vidi sobbalzare e scrutarmi con aria perplessa. Erano state assunte da poco, avrebbero presto imparato il tipo di persona che ero e avrebbero iniziato anche loro ad ignorarmi, così come facevano tutti, così come facevo con tutti. Aprii l’armadietto sospirando, tirai velocemente giù i pantaloni, sfilai le scarpe e slacciai la camicetta nera. Gettai tutto alla rinfusa nel borsone, indossai i pantaloni in stile thai e il maglione in flanella. Misi le sneakers ormai ridotte a brandelli e richiusi l’armadietto, ricambiando con un mugugno al saluto delle due giovani nuove guide.

    La fresca sera autunnale mi riempì i polmoni. Accesi la sigaretta, stringendola tra le labbra, e mi avviai alla macchina.

    «Aurora!» urlò la sua voce alle spalle. Sospirai seccata buttando fuori il fumo dalla bocca e proseguii, facendo finta di non averlo sentito. Un scalpitio di passi si avvicinò velocemente e la sua mano mi afferrò la spalla. Odiavo essere toccata, specialmente se a farlo era un seccatore insistente che non accettava un no come risposta. «Aurora!» ripeté con il fiato corto.

    «Hai bisogno di qualcosa, Fabio?» gli domandai senza nascondere la mia aria contrariata.

    Come al solito quello non la colse o fece finta di nulla. Sorrise sornione e mise le mani ai fianchi, scrutandomi con aria emblematica. «Sì, avrei bisogno di cenare con te» mormorò. «O anche solo prendere un caffè… o magari tutti e due!» esclamò allegro.

    Lo fissai vitrea, portai la sigaretta alla bocca, aspirai e buttai ancora fuori il fumo. «No» tagliai corto e ripresi a camminare.

    Ovviamente, non demorse. «Dai Aurora, che ti costa?» domandò angosciato seguendomi. «Una cena tra semplici amici…».

    Quella frase non mi piacque affatto. Somigliavano tanto a quelle che un bastardo senza scrupoli mi aveva sussurrato all’orecchio un anno prima. Il suo volto, per un solo istante, mi apparve davanti agli occhi e la rabbia mi accecò. Lo afferrai per il colletto del piumino e lo fissai maligna. La mia pazienza aveva un limite molto basso e lui lo aveva appena superato. «Io non ho amici. Non ho amanti né fidanzati e non ho intenzione di averne» ringhiai a denti stretti. «Perciò adesso se vuoi farmi il favore di lasciarmi andare o mi farai fare tardi alla lezione».

    Fabio seguì il mio scatto d’ira con i cerulei occhi sgranati per lo spavento e la sorpresa. Aveva avuto la possibilità di lasciar perdere più volte. Avevo perso il conto delle volte in cui aveva cercato di invitarmi a cena o comunque di accalappiarmi in qualche modo, ma ad ogni rifiuto sembrava incallirsi ancora di più. Stesso modus operandi di un imprenditore che mi aveva rovinato l’anima. Sollevò le mani in segno di resa. Lasciai la presa sul colletto e lo spinsi via, facendolo barcollare all’indietro. Camminai senza porgergli le mie scuse o comunque congedarlo in maniera cordiale. Non ero più in grado di fare nulla di tutto ciò.

    Arrivata finalmente alla macchina, gettai il mozzicone a terra ed entrai nell’abitacolo della nuova auto che mi avevano regalato i miei genitori e mio fratello per il compleanno. Misi in moto e, non appena quella si accese, dallo stereo partì "Welcome to the Jungle" dei Guns’n’Roses.

    Guidai spericolatamente tra le vie della città, in tempo per arrivare in palestra. Acciuffai il borsone e richiusi l’auto, correndo a perdifiato verso lo spogliatoio. Indossai i leggins sportivi, il top che fasciava il seno cresciuto di una taglia e mezza (non credevo che il cambio della pillola potesse portare a quell’effetto alla mia età) e lasciai i piedi nudi. Sudata e con il fiato corto, irruppi nella palestra riempita solo da un enorme tappeto blu e specchi che circondavano il perimetro della stanza, giusto in tempo per vedere Karina entrare.

    Mi lanciò un’occhiata compiaciuta. Ero la sua preferita e forse era anche un po’ cotta di me, ma, a differenza di molti altri gradassi, non aveva mia avanzato avances nei miei confronti, se non toccarmi inutilmente i fianchi mentre facevo un esercizio. Presi posto nel cerchio degli allievi e ascoltai la mia mentore che quel giorno ci avrebbe istruiti su come placcare una persona e indebolirle gli arti. Fino a quel momento ero diventata solamente brava a sferrare calci e tirare pugni, senza una visione ben precisa della persona che mi sarei trovata davanti. Mi accontentavo di picchiare duro. Avvertire quella potente scarica di adrenalina che si impossessava delle mie membra non faceva altro che accrescere il mio animo violento.

    Una volta eseguiti addominali e piegamenti sulle braccia per riscaldare i muscoli e dopo aver sferrato una quantità indefinita di calci ad un sacco da boxe, cominciammo finalmente con la nuova figura di difesa. Karina afferrò lentamente il braccio del povero manichino ormai distrutto. Ci mostrò i movimenti e i gesti da fare per bloccare e tramortire l’aggressore. Ci lasciò, come sempre, qualche minuto di tempo per fare pratica da soli, finché non ci richiamò all’ordine. Sceglieva lei chi avrebbe dovuto fare da cavia, dandogli il tempo di prepararsi e munirsi di tutte le imbottiture necessarie per non farsi male. Karina prese a girare lentamente e a scrutarci in volto uno ad uno. Puntò il dito su Diana, una gracile ragazza vittima per anni di violenza domestica da parte del padre tossicodipendente. A lei toccò Gregorio come avversario. La dimostrazione fu un disastro. A mio parere, lei troppo lenta e lui troppo teso per lasciarsi abbattere. Provò poi Dafne, la giovane prostituta che era da poco riuscita a scappare e a denunciare il suo sfruttatore. Anche per lei, Gregorio era troppo spesso e troppo alto, sembrava una montagna di muscoli e ossa imbattibile.

    «Aurora» esclamò finalmente con il suo marcato accento tedesco. «Vuoi provare tu?».

    Non me lo feci ripetere due volte. Mi misi in piedi davanti allo sbruffone. Gregorio mi sorrideva con aria altezzosa. Ricambiai il sorriso, divertita, prendendo la prima posizione di difesa, aspettando che fosse lui a fare la prima mossa. Scattò verso me, ma non mi colse impreparata. Non appena fu abbastanza vicino, gli sferrai un calcio all’altezza del ginocchio che lo fece piegare in un rantolo di dolore. Quello non era previsto nella figura, ci mettevo sempre un po’ del mio quando si trattava di mettere in atto una dimostrazione. Forse era anche per questo che Karina mi adorava. Trovandomi di fronte al dolorante e mezzo inginocchiato Gregorio, gli afferrai velocemente il braccio, lo piegai bloccandolo dietro alla schiena e lo costrinsi a voltarsi. Avvinghiai il collo con il braccio e gli diedi uno strattone, ringhiando tra i denti e godendo delle urla di dolore del povero fantoccio umano. Per un momento, una misera frazione di secondo, mi immaginai che a gridare in quel modo fosse qualcun altro.

    «Ok, basta così Aurora!» esclamò estasiata l’istruttrice.

    Diedi ancora una stretta alla presa, giusto per ricordargli di non sfidarmi la prossima volta e poi finalmente lo mollai, lasciandolo cadere a terra. Le spettatrici si sollevarono in un marasma di applausi e incitamento. Andai a riprendere il mio posto, osservando divertita la scena che mi ritrovai davanti agli occhi: Gregorio si contorceva dal dolore tenendosi il ginocchio con entrambe le mani e rotolava, lagnandosi come una femminuccia. Karina gli si avvicinò, dandogli un colpetto con il piede sul fianco.

    «Alzati palle mosce, hai preso solo una botta. Non hai nulla di rotto» lo riprese seccata.

    Terminato l’allenamento, ci alzammo dal tappeto e andammo tutte negli spogliatoi. Mi divertivo a sentire i commenti sotto la doccia delle altre, potevo vantare una certa fama all’interno del mio corso.

    La sera era ormai inoltrata, accesi l’ennesima sigaretta ed entrai in macchina, con "Welcome to the Balck Parade" che rimbombava nell’abitacolo.

    Rientrare nel mio silenzioso e solitario appartamento rappresentava la massima espressione di piacere per me. Nessuno nei dintorni, nessuna espressione forzata da mantenere con la gente, niente sorrisetti di circostanza o buone maniere. Solo me, la mia anima malconcia e il mio carattere burbero. Tolsi il giubbotto gettandolo alla rinfusa nell’attaccapanni di fianco alla porta. Serrai quella con quattro giri di chiave a andai in cucina, dove la solita e triste insalata mi attendeva, pronta da condire, nel frigorifero. Presi il telefono, l’unico momento in cui lo calcolavo, e guardai tutte le notifiche che lampeggiavano sullo schermo. Un piccolo sussulto quando vidi quella marea di telefonate ricevute per tutto l’arco della giornata. Mia madre non poteva essere; avevo il suo numero e sapeva benissimo che, prima di quell’ora, io non ero reperibile. Stesso discorso per mio fratello e mio padre. Quella era l’unica cerchia di persone con la quale avevo ancora un contatto. Finii di condire la mia insalata e tirai fuori il petto di pollo dal frigo, buttandolo sopra la piastra incandescente. Guardai ancora una volta quella quantità indefinita di chiamate e continuai ad ignorarle. Un brutto presentimento mi attanagliò lo stomaco.

    Quando la carne divenne ben cotta e la parte esterna abbrustolita al punto giusto, spensi la fiamma e impiattai il tutto, mettendomi a sedere a tavola. Mangiavo scrutando il silenzio e senza pensare a nulla, ma ogni tanto l’occhio ricadeva sullo schermo del cellulare, come se volessi guardarmi da quello. La stanchezza iniziava a vincere e non finii nemmeno di mangiare l’insalata che ancora riempiva a metà la ciotola in vetro. Mi alzai dal tavolo gettando i piatti sporchi dentro al lavandino.

    La vibrazione del telefono mi fece sobbalzare. Mi voltai e lo acciuffai. Ancora quel numero. Erano le undici passate. Quello sconosciuto mi aveva chiamata per tutto il giorno senza ricevere risposta e lo stava facendo ancora. Non risposi, potevo solo lontanamente immaginare chi fosse e non avevo alcuna intenzione di scoperchiare quel pentolone che avevo sigillato da un bel pezzo. Presi a sciacquare distrattamente i piatti, quando quello riprese ancora a vibrare, insistente. Chiusi l’acqua, abbassai il capo e respirai profondamente. La testa in subbuglio, la sensazione del cuore che batteva come un martello. Non la provavo da un bel pezzo. Mi voltai solo per guardare il display, ancora quelle cifre sconosciute. Come un automa, mi asciugai le mani sul panno di fianco al lavabo, acciuffai il cellulare e trascinai il dito sullo schermo.

    «Pronto» risposi atona.

    «Santo cielo, Aurora» esclamò sollevata la voce dall’altro capo del telefono.

    «Chi parla?» chiesi perplessa.

    «Sono Flavia» mormorò con un filo di voce.

    Un colpo al cuore. «Oh, ciao» replicai freddamente. «Hai bisogno di qualcosa?» tagliai corto.

    Silenzio. «Ecco… ho chiamato per dirti una cosa» replicò confusa, con una nota malinconica nella voce. «Ma… come stai?»

    «Bene grazie. Dimmi» ribattei vitrea.

    La sentii sospirare pesantemente e subito dopo, una serie di singhiozzi presero a martellarmi le orecchie. «Arianna…» balbettò. A sentire nominare quel nome, mi venne la pelle d’oca. A sentirlo nominare in quel modo, mi fece mozzare il respiro in gola. «È morta» concluse.

    Sentii le gambe molli, il sangue ghiacciato nelle vene. Mi lasciai cadere sulla sedia.

    «Che cosa?» blaterai sconcertata.

    Tirò su con il naso. «L’hanno trovata senza vita nel suo appartamento, questa mattina…» Singhiozzò. «…E credono si tratti di suicidio» disse.

    Poggiai la mano sulla fronte che prese a sudare veemente. «Flavia, mi stai prendendo in giro? È una tattica per farmi tornare a Parma?» sbottai confusa e stanca.

    «Aurora, come puoi pensare una cosa del genere?» ringhiò. Non l’avevo mai sentita così a pezzi. «Cerca su internet! Tutte le testate giornalistiche di Parma non parlano d’altro!» esclamò, riprendendo a piangere. «Aurora…» mi richiamò con un filo di voce. «È morta» ripeté.

    La testa girava come un mulinello, le gambe formicolavano e il cuore era come inesistente nel petto. Cercai di non farmi travolgere da quelle sensazioni. Il freno della freddezza placava ancora ogni mio istinto. Era pur sempre la donna che aveva contribuito a rovinarmi la vita. Sospirai pesantemente, poggiandomi allo schienale della sedia. «Mi dispiace» commentai laconica. «Che dovrei fare io?» Non rispose. «Flavia?»

    «Aurora, ma che ti è successo?» domandò con voce flebile. «Non so quali siano stati i vostri malintesi, ma come puoi parlare in questo modo di lei?» continuò. «Dopo tutto quello che ha fatto per te! Per tutti noi!» disse, cominciando ad alzare gradualmente il tono della voce. «Non ti scalfisce minimamente pensare che sia morta?» urlò isterica. «Come puoi comportarti in questo modo di fronte ad una cosa del genere?»

    «Flavia, per me Arianna è morta già da molto tempo» risposi freddamente. «Condoglianze a tutti voi. Non so che altro dire» conclusi distaccata.

    Tirò ancora su con il naso e prese un bel respiro. «Bene. Se ti interessa, lunedì ci saranno i funerali» borbottò imbronciato.

    «Non credo verrò ma grazie per avermelo detto. Buona notte, Flavia».

    Riagganciai la conversazione e feci scivolare il cellulare sulla superficie liscia del tavolo. Finii di sciacquare i due piatti sporchi e mi rintanai sotto le coperte.

    Nella testa vorticavano una serie di sensazioni ed emozioni che cominciarono a farmi innervosire: Flavia non era a conoscenza di tutti i dettagli sulla relazione tra me e Arianna. Per ciò che ne sapeva, avevamo solamente litigato e potevo comprendere che non capisse a fondo il mio comportamento di fronte ad una notizia del genere. Quel sentimento di rimorso iniziò a farsi strada nel cervello: dispiacere. Mi dispiaceva aver trattato Flavia in quel modo, averla tenuta lontana ed essermi mostrata così fredda e cinica con lei che non mi aveva mai nemmeno torto un capello. Avrei potuto chiederle come sta la piccola Matilde, come sta suo marito, come se la passasse lei; anche se, a giudicare dal tono di voce e dal pianto disperato, non doveva essere la persona più felice del mondo.

    Giocherellando con una ciocca di capelli tra le dita, l’immagine di Arianna distesa sul suo letto priva di vita, mi fece avvertire una fredda fitta allo stomaco. Morta. Arianna è morta continuavo a ripetermi nella testa, non riuscendo ancora in pieno a realizzare quello che fosse accaduto. Confusione, ecco tutto ciò che provavo di fronte a quel pensiero: era stata una delle persone più significative per me quando vivevo a Parma e potevo considerarla una madre. Questo prima che cominciasse a farmi trovare cuccioli di corvo stecchiti davanti agli occhi con messaggi minatori. Tutto non faceva altro che portarmi a pensare che fosse lei la responsabile di tutto: l’odio che provava nei confronti dell’imprenditore era mosso dal fatto che lei avesse un’attrazione malata per lui. Magari si era comportata allo stesso modo con Ginevra, la sua adorata nipotina dai boccoli rossicci, proprio come li aveva lei; per quello era scappata a gambe levate da quella storia, così come avevo fatto io. Mi balenò alla mente idea di cercare quella Ginevra per poterle chiedere tutto ciò che mi ronzava per la testa e che non aveva ancora ricevuto risposta, ma ci ripensai subito: pessima idea.

    Si sono messe di mezzo troppe persone era la frase che continuava a ronzarmi in testa. Angelica me lo aveva detto e così era successo anche tra me e l’imprenditore: Arianna e Michela, una relazione a quattro che non sarebbe mai potuta esistere. La zia psicopatica, la traditrice, il maschio alfa e la povera e inutile Aurora.

    Mi rigirai sul fianco, cercando di scacciare via quelle immagini che tornarono a colpirmi la testa come un violentissimo pugno. Sentivo riaffiorare la nausea e il disgusto per quel periodo che era stato allo stesso tempo il più bello e il più tremendo di tutta la mia vita. Avevo conosciuto l’amore, avevo ripreso ad amare spassionatamente dopo tempo che non lo facevo. Avevo amici, uscivo, ridevo e conducevo, tutto sommato, una vita abbastanza serena. Tutto finito nel dimenticatoio per colpa di una maniaca ossessiva e di una sconosciuta che mi aveva portato via l’uomo con il quale credevo di poter passare il resto della mia vita.

    Tutto completamente stravolto. Quel bambino era ormai nato da tempo. Avrà avuto qualche mese. Immaginavo le loro facce sorridenti, quel piccolo fagottino tra le braccia. Finalmente Michela avrebbe avuto qualcuno al proprio fianco che la adorasse e la rispettasse come desiderava, come Lorenzo non era mai stato in grado di fare. Sarei dovuta essere io al suo posto, ma lei era stata più scaltra di me.

    Con la testa che sembrava di essere sul punto di esplodere, mi alzai dal letto cercando di regolarizzare il respiro. Non sarei riuscita a chiudere occhio quella notte, i ricordi avevano ripreso ad accoltellarmi la schiena. Andai in bagno e aprii il mobiletto dei farmaci, afferrando il flacone con i sonniferi. Riempii il bicchiere con la giusta dose di acqua e calai giù la pillola. Mi rintanai sotto le coperte, iniziando immediatamente a sentire i muscoli molli e le palpebre pesanti. Era passato molto tempo, ma gli incubi, quella notte, ritornarono a dilaniarmi l’anima.

    Capitolo 2

    Fissavo la tazza di caffè con fare distratto. Il traffico scorreva davanti a me. Sarebbe arrivata a momenti. Aspettavo con trepidazione quel giorno della settimana in cui potessi vedere l’unica donna a me davvero leale e affezionata. Sospirai appoggiandomi allo schienale della sedia e tirai indietro i ciuffi ribelli, portandomi la tazzina alle labbra e sorseggiando lentamente il liquido ormai freddo, portandomi poi la sigaretta alle labbra e l’accesi, avvertendo l’amaro sapore della nicotina cominciare a scorrere nelle vene, infondendomi un certo senso di serenità.

    «Fumi troppo» mi redarguì la sua voce alle spalle. Mi sollevai sorridendo e strinsi tra le braccia la figura piccola e paffuta di mia madre. Sprofondai tra i suoi capelli e annusai intensamente quell’odore di lavanda e giglio. Solo quello mi faceva sentire davvero al sicuro: averla al mio fianco. «Come sta la mia piccola stella?» domandò, sciogliendo lentamente la presa.

    Mi sedetti e tirai con le labbra la sigaretta. «Non c’è male» risposi laconica, mentendole spudoratamente. Rimase immobile sulla sedia a scrutarmi con quegli occhietti scuri uguali ai miei. «Che c’è?» chiesi.

    Sollevò il sopracciglio. «Non mentirmi» borbottò. Sospirai stanca, mentre Emma si sporgeva verso me, appoggiando i gomiti sul tavolo. «Aurora, giovedì mattina mi ha chiamato la tua collega…».

    «Non è più la mia collega da un pezzo» la interruppi caustica.

    Chiuse gli occhi abbassando il capo. «Mi ha chiamato Flavia» riprese, cercando di frenare l’istinto di tirarmi uno schiaffo. Non amava quando qualcuno, specialmente sua figlia, le rispondeva in malo modo. «Sembrava abbastanza scossa» continuò. «Ti cercava. Ha detto che aveva urgente bisogno di parlarti».

    La scrutai con occhi sgranati. «Le hai dato tu il mio numero?» sbottai stizzita.

    Respirò a fondo. «Cosa avrei dovuto fare? Sembrava che avesse premura di parlarti di qualcosa di importante!» esclamò.

    «Mamma…». M’interruppi, ignorando la sfilza di insulti e imprecazioni che avrei voluto urlare con tutto il fiato che avevo in gola. «Questo significa che dovrò ricambiare numero di telefono… lo sai, vero?» la ripresi duramente.

    Mi fissò in silenzio, senza mostrare alcuna emozione. «Che cosa voleva?» chiese infine. Voltai gli occhi intorno a me. Non mi andava ancora di parlarne. «Aurora?» mi richiamò adirata.

    «Arianna è morta» esplosi cinicamente fredda.

    Aggrottò la fonte, scuotendo velocemente la testa, come a volersi scrollare di dosso quello che le avevo appena vomitato addosso. «Cosa?» balbettò confusa.

    Diedi un altro tiro di sigaretta. «Pare si tratti di suicidio. L’hanno trovata l’altra mattina nel suo appartamento, senza vita» ripetei come un automa le parole che mi aveva urlato quella sera Flavia al telefono.

    «Tesoro, mi dispiace…» mormorò, afferrandomi delicatamente una mano.

    Alzai velocemente le spalle e scossi la testa. «Non hai di che dispiacerti, è una cosa che non mi riguarda» sentenziai senza far trasparire emozioni. «Arianna non faceva più parte della mia vita da un pezzo, la cosa non mi sfiora» conclusi, spegnendo la sigaretta nel posacenere sul tavolino.

    «Aurora…» provò a dire angustiata.

    «Mamma, no!» la interruppi adirata. «Non c’è altro da dire».

    «Ma stiamo parlando di Arianna!» esclamò.

    «No! Stiamo parlando della donna che mi ha perseguitata e minacciata! La donna che mi ha rovinato la vita e che mi ha fatto passare un periodo terribile!» la interruppi, digrignando i denti.

    Mia madre sapeva tutto. Mi aveva vista arrivare a casa aggrappata alla giacca di Federico. Il volto pallido e smorto, il corpo debole e privo di emozioni. Aveva seguito il mio calvario, accorrendo al mio letto ogni volta che mi sentiva anche solo tremare per gli incubi che mi tormentavano. Mi aveva vista dimagrire, rifiutare il cibo e qualsiasi contatto con il mondo esterno. Mi stava vedendo morire davanti ai suoi occhi e mi piangeva il cuore quando la sentivo singhiozzare nella sua camera da letto, confortata da mio padre. Non sapeva che cosa fare, non poteva fare nulla di fronte ad una figlia che non desiderasse altro che chiudere gli occhi per non svegliarsi mai più. Dopo tutto ciò, anche lei sarebbe dovuta essere furiosa con certe persone, non capivo quella presa di posizione.

    Sospirò ancora, nascondendo il viso tra le mani. «Dovresti andare almeno al funerale» sentenziò.

    Ridacchiai perplessa. «Che?» domandai spaesata. «Non ci penso nemmeno! Sarei dovuta andare al suo funerale un anno fa, quando ho cominciato a considerarla una persona morta!» esclamai scocciata.

    Emma espirò arrendevole. Ero sempre stata testarda. La cocciutaggine era forse il mio peggior difetto, ma adesso che si ritrovava di fronte una persona ferita, oltre che ferma sulle proprie idee, sembrava completamente disarmata. «Aurora, pensa a tutto quello che ha fatto per te…» iniziò.

    «Ma perché continuate a ripetermi questo?» sbottai, zittendola all’istante. «Perché nessuno vede quello che mi ha fatto? Il modo in cui mi ha perseguitata?» esclamai, cominciando a perdere la pazienza. «Mamma, quella donna era malata! Aveva dei seri problemi mentali e ha rischiato più volte di uccidermi!» sbottai esagitata. «Come potete chiedermi una cosa del genere? Io dovrei andare al suo funerale e avere anche la faccia tosta di presentarmi davanti ai suoi famigliari? Credo sarebbe un atteggiamento alquanto ipocrita, considerato il fatto che non la vedevo e non la sentivo da un anno» conclusi, accendendomi la seconda sigaretta.

    Mia madre me la strappò dalle labbra e sospirò ancora. «Senti Aurora, adesso basta!» scattò irritata. «Dio, io non ti riconosco più!» continuò, alterando sempre di più la sua voce. «Non ti rendi conto che ti abbasseresti al suo stesso livello se non ti presentassi a quel funerale?».

    «Non mi importa! Io non devo più rendere conto a nessuno di quello che faccio!» risposi vitrea.

    Alzò gli occhi al cielo, poi mi fissò con occhi amorevoli. «Non è stando da soli che si dimostra di essere forti» mormorò.

    La guardai.

    «Non è isolandosi e ringhiando contro tutti che proverai di essere una persona forte» continuò, prendendo ancora la mano nella mia. «Non è prendendo a calci un sacco e sparando contro un bersaglio che sfogherai la tua delusione».

    «E cosa dovrei fare? Andare al funerale e urlare alla tomba tutto il male che mi ha fatto?» esclamai con voce tremante. Piansi due volte nel giro di ventiquattro ore, non capitava da un po’. «Dovrei andare da Alessandro e gridargli in faccia quanto l’ho amato? Magari proprio mentre tiene in braccio suo…». Mi fermai, non riuscendo più ad andare avanti. Il fiato si mozzò in gola e le parole morirono in bocca.

    Non riuscii a pronunciare quella frase, il dolore era troppo. Mi morsi il dito chiuso nel pugno per provare a soffocare quel pianto.

    Riesplose tutto nel giro di due secondi: la rabbia, la frustrazione, la delusione. Si riversò tutto nelle lacrime che iniziarono a scorrermi lungo le guance. Chiusi gli occhi e abbassai il capo, come se mi vergognassi di farmi vedere piangere.

    Le braccia esili e calde di mia madre mi avvolsero le spalle, tempestandomi la tempia di piccoli e dolci baci. «Adesso calmati» mormorò. «Non serve a niente piangere».

    «Mamma… fa male» balbettai straziata. «Non ce la faccio».

    La mano mi carezzò dolcemente la nuca. «Sì che ce la fai, bambina mia. Hai affrontato situazioni peggiori di questa».

    La guardai con il volto rigato dalla rugiada. «Ah sì? Essere perseguitata da quella che credevo essere una delle persone più care al mondo e tradita dall’uomo con il quale avrei pensato di passare tutta la vita?» domandai angosciata. «No, mamma! Questo è stato troppo! Io non sono più la stessa perché ho una paura fottuta di soffrire ancora e di stare peggio!» borbottai, asciugandomi le guance umide di lacrime.

    «Ascoltami bene» iniziò, sistemandosi per bene a sedere. Prese le mie mani e le strinse tra le sue fredde e consumate dal gelo. «Devi affrontare tutto questo, Aurora. Non è scappando che si risolvono i problemi. Te ne sei andata da lì senza chiedere spiegazioni a nessuno e credo che molte persone te ne debbano dare tante».

    «Una non c’è più…» mormorai con la voce rotta.

    Mi sorrise amorevole. «Vero, ma ci sono altre persone vicine a lei che credo possano chiarire i tuoi dubbi».

    Scossi velocemente la testa. «Se ti riferisci al parlare con gli Alinovi, no! Non lo farò».

    «Aurora» mi redarguì soavemente. «Affronta la tua vita!» esclamò. «Prendi quella maledetta macchina, parla con chi di dovuto e andrai al funerale con un peso in meno sulla coscienza. Tornerai qui avendo chiarito tutto quello che c’era da chiarire e prego che tu possa ricominciare a vivere, bambina mia».

    Ricominciare a vivere: sarei davvero dovuta ritornare nel posto che aveva segnato la morte della mia anima per poter vivere di nuovo?

    Le luci si spegnevano una dopo l’altra nel corridoio. Camminavo con la testa immersa in mille altri pensieri mentre mi recavo nello spogliatoio. Pensieri che mi avevano tormentata per tutto il giorno e che non volevano saperne di lasciarmi in pace. Scesi i gradini silenziosi, spinsi la porta, ritrovandomi davanti Lara, la biondina che si occupava delle visite dei gruppi di sordomuti.

    «Ciao!» esclamò entusiasta. Le risposi con un cenno del capo, andando al mio armadietto. «Giornata intensa oggi, eh?» disse, infilandosi la maglietta di lana. Mugugnai qualcosa, afferrando il borsone dall’armadietto. «Domani hai la giornata libera anche tu?»

    «Sì» risposi laconica.

    «Oh bene! Hai programmi?» chiese.

    Mi misi in piedi sospirando con la voglia matta di chiederle di non seccarmi con domande inutili, ma le parole di mia madre mi balenarono alla mente come un fulmine. Strinsi i pugni sui fianchi e le rivolsi uno sguardo vuoto, mentre quella continuava a guardarmi sorridente. «No» mi limitai a dire, riprendendo a trafficare con i miei abiti dentro al borsone.

    Controllai di avere il porto d’armi dietro e tutto il necessario per andare al poligono. Incominciai a spogliarmi, togliendomi le scarpe e i pantaloni. Infilai i jeans stretti e le Converse bianche.

    «Ah, conosci una certa...» disse all’improvviso, ma si bloccò di colpo, fissando in aria. La guardai allarmata. «Merda, non ricordo il nome…» mormorò.

    Uscì come un sussurrò «Flavia?» domandai.

    Il suo sguardo si illuminò. «Sì, Flavia! È passata questo pomeriggio». I brividi mi percossero la schiena. Flavia era lì. «Mi ha chiesto di te, ma non sapevo esattamente dove fossi. L’hai poi trovata?» chiese allegra.»

    «No» risposi, riabbassando lo sguardo, mentre infilavo la felpa grigia. «Fammi il favore, se qualcuno torna e chiede di me, io non lavoro più qui» sentenziai vitrea, richiudendo il borsone. «Chiaro?» conclusi, fissandola. Lara mi osservò perplessa e intimidita, annuendo. «Grazie. Buona serata» e così dicendo, infilai il borsone sulla spalla e uscii dallo spogliatoio, richiudendo violentemente la porta.

    Salii in fretta le scale, con la collera che ribolliva nelle vene. Non si era arresa al mio no, era addirittura venuta fino a Torino e

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