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Il Cuore di Khronos
Il Cuore di Khronos
Il Cuore di Khronos
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Il Cuore di Khronos

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Il cuore di Khronos, è stato strutturato con la sapienza di un mosaicista, ogni tassello combacia perfettamente con gli altri, alla fine solo guardando l’insieme di tutte le variopinte tessere si può cogliere l’immagine d’insieme per restare stupefatti, ma è il tempo il vero protagonista del romanzo.

Il tempo che crediamo di conoscere, che si pensa unidirezionale e irreversibile, ma che crea sgomento e incertezza quando mostra un volto nuovo.

Il mistero sulle origini di una strana pietra che attrae in maniera intensa e sconosciuta lo sguardo e l’attenzione di chi la osserva, coinvolge uomini vissuti nell’arco di cinque secoli.

Così come nel 1545, anche nel 1946 e nel 2050 gli uomini che entrano a contatto con questo straordinario oggetto si approcciano a esso con curiosità e timore, lo studiano con gli stumenti a disposizione, lo giudicano e scelgono di agire seguendo le direttive della propria coscienza.

Il libro Il cuore di Khronos è uno di quei romanzi che si fa fatica a chiudere, tanto si desidera scoprire i legami che intercorrono tra le varie epoche, persone e vicende, tanto ci si sente vicini ai personaggi, tanto è piacevole, ricco e vario lo stile dell’autore.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 20, 2018
ISBN9788827811597
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    Il Cuore di Khronos - Piero Luigi Mario Sau

    anime."

    1

    Bum… bum… bum…

    Era il pomeriggio del 31 dicembre dell’anno 29.432.321.121. Grossognano Junior sobbalzò svegliandosi di soprassalto.

    Bum… bum… bum...

    Ma allora era proprio la porta pensò Gross in preda a un’insolita eccitazione.

    Ma certo che è la porta, strillò da fuori lo stregone che possedeva i sussurri magici per leggere il pensiero al di là e al di qua delle porte.

    Per tutti gli stregoni del Verbiland! borbottò Gross alzandosi di scatto e battendo la testa a una trave del soffitto. Gross amava infatti dormire sospeso in aria a due metri da terra, e talvolta si chiedeva perché mai continuasse a farlo al di sopra del letto e non altrove. Ma questa era una di quelle cose che non si potevano proprio fare. Non c’era nessuna legge che lo vietasse: semplicemente era considerato particolarmente disdicevole e sconveniente dormire sospesi in aria lontani dal proprio letto.

    Chi è? chiese a gran voce il giovane Gross.

    Apri stupido ciccione. Ho qui per te una missiva del Consiglio Tuonante dei Silenti.

    Una missiva! Una missiva da quei citrulli! Che cosa nuova a udirsi pensò il mago utilizzando un sussurro di chiusura della mente, per non far leggere il suo pensiero allo stregone che aspettava di sotto. Perché non era affatto una bella cosa apostrofare come citrulli i Supremi Signori del Centro. Iniziò a planare, ma molto, molto lentamente, e tenendo il sedere all’insù perlustrò la stanza col muso alla ricerca dello scendiletto volante.

    Il nunzio mago non credeva ai suoi sussurri incantanti. Possedeva infatti molti incantesimi di visione che penetravano persino la roccia e l’argento. Pazzesco! Aberrante! Lo scemo volava e cercava lo zerbino volante per volare.

    Non si trattenne dal gridare: Ma a cosa ti serve? Sciocco!.

    Beh, quando si hanno le comodità in casa perché non usarle? rispose Gross, che intanto si era appollaiato sul suo tappeto e scendeva di volata nella lunga scala incavata nella roccia d’argento rosso. Percorse un lungo corridoio. Porte dello stesso colore della roccia si aprivano al suo passaggio, e lanterne dorate si accendevano al sussurro dei suoi comandi. Arrivato alla porta esteriore, scese dal tappeto. Si allontanò dall’uscio e si sedette su una panca.

    Si sentiva sfinito, non vedeva l’ora di rimettersi a dormire.

    Distese le mani verso la porta. Unì le punte degli indici, fece toccare tra loro le punte dei pollici, puntò bene il bersaglio e sparò: Vacuitat portesin… no, no. Aperiat….

    Ma era troppo tardi, aveva pronunciato, infatti, l’incantesimo di sparizione delle porte. E la porta sparì in una nuvola di fumo nero.

    La mia bella porta… la mia bella porta di legno di cedro! piagnucolò Grossognano.

    Imbranato, imbranato, sei il mago più imbranato del Verbiland. Sei la vergogna dei maghi rustici. Il disonore della nostra stirpe. Perché non hai aperto con le mani? Cretino, cretino, a ragione dicono che sei cretino sghignazzava Rossognano, così si chiamava il nunzio mago, viola dalla rabbia vedendo la sua bella tunica bianca tutta imbrattata di pulviscolo nero.

    Non sarebbe stato molto dignitoso per un mago.

    Puha! sputò Rosso. Quando uno non sa fare il mago non dovrebbe fare incantesimi.

    Scusami, scusami… ti faccio subito un incantesimo di pulizia delle tuniche.

    No, per carità, potresti lasciarmi in mutande.

    Avresti per caso un incantesimo di costruzione delle porte da prestarmi?.

    No. Disse Rosso secco.

    Da vendermi?.

    No.

    Da barattare con un incantesimo di unione delle nature? Quelli ce li ho tutti.

    Aaaaaaah! urlò il nunzio mago disperato.

    Non arrabbiarti, accomodati, entra pure.

    Siamo già dentro, sciocco.

    I suoi occhi si chiusero.

    Il quaderno gli scivolò dalle mani e rotolò giù dal letto. Quel personaggio somigliava al protagonista di un film.

    L’aveva visto altre volte, ma mai gli si era imposto con tale prepotenza. Gli afferrò una mano e lo condusse con sé quasi di forza tra i picchi aguzzi di una grande parete rocciosa. Sembrava proprio l’inizio di Mission Impossible.

    Il Colosso Brullo era immenso. Più grande di quanto avesse mai potuto concepirlo con l’immaginazione. Nel racconto che stava leggendo, infatti, non era spiegato quanto fosse alto. Le sue rocce argentate luccicavano come specchi. I suoi fianchi erano stati tormentati da venti impetuosi e torrenti di acqua rossa li scanalavano da ogni lato. Le molte acque confluivano a valle in un grande fiume rosso. Tobia sapeva che quella non era una magia. Neppure il più potente dei maghi rustici avrebbe potuto stregare un fiume senza la materia prima e senza una ragione logica conveniente. E poi le leggi del Verbiland lo vietavano. Il colore rosso porpora era dovuto all’argento rosso del Brullo.

    L’uomo saltava da una roccia all’altra, si fermò nel pinnacolo più alto. Tobia lo vide in piedi ritto verso il cielo. Non aveva mai visto il suo volto, portava, infatti, sempre la solita maschera di ferro.

    Il personaggio tese una mano verso di lui e disse: Vieni.

    Non posso arrampicarmi fin là.

    E l’uomo, lasciando la mano distesa, rispose: No, non puoi arrampicarti ma puoi volare, vieni. Salì nell’aria verso di lui calamitato dalla sua mano distesa. Gliela strinse. La mano della maschera di ferro era calda come un ferro arroventato ma non bruciava. L’uomo se lo tenne al suo fianco destro e poggiò una mano sulla sua spalla, poi drizzò il braccio verso le montagne e disse: Guarda. Il bambino comprese che quella non era la sommità della montagna, da quel punto, infatti, si ergeva una frastagliata e immensa catena montuosa e le cime più alte si perdevano tra le nubi.

    ammise il personaggio che leggeva il suo pensiero, questa non è la sommità del monte, questo è il colle che sta sotto il monte.

    Tobia guardò le montagne e la nube si diradò e vide che vi erano dimore sulle altezze. L’uomo disse: Guarda. Nel fiume, divenuto ormai un mare tempestoso che dilagava in tutte le direzioni, vide un mostro incatenato che gli parve una balena. La bestia spadroneggiava quasi onnipotente nel mare. A quel punto tutto gli fu chiaro: quello non era il pinnacolo del monte ma un’ampia terrazza, posta nella parte più alta di una grande città, come un fortilizio difeso da muraglia concentriche che divenivano via via sempre più alte.

    La balena iniziò a dare di cozzo alla fortezza e le mura tremarono. Si comprese che la bestia era stata sciolta dalle catene. Una voce di donna gemette desolata: Consolate, consolate il mio popolo, piangete e intonate un lamento sulla città, perché la bestia è sciolta dalle catene.

    Il personaggio si erse davanti a lui in tutta la sua potenza. Vide che reggeva qualcosa tra le mani; sembrava cristallo ed era opaco, ma il suo interno era vivo perché alimentato dal fuoco segreto e la sua luce era come quella di un Silmaril. Tobia pensò che potesse trattarsi di un palantir, doveva essere per forza una perduta pietra veggente e quella città era dunque Minastirit, la capitale di Gondor. Vide le sentinelle degli Eldar dare fiato alle trombe perché i devastatori e la bestia entravano nella cittadella.

    Il palantir si sospese nell’aria. Sapeva bene quanto sarebbe stato pericoloso guardare in un oggetto del genere, ma una voce gli disse: Non avere timore, non recherà danno alla tua vista perché dentro è racchiusa la fiamma di Anor. Guarda a occidente e a oriente, scruta a settentrione e a mezzogiorno.

    Guardò verso la città e vide con spavento che veniva inondata dal mare. Si udì il rumore assordante di un crollo, un palazzo era rovinato al suo centro, e come trascinato da una logica conseguenza, un altro edificio si schiantò a terra. Guarda, disse l’uomo dal volto coperto mostrandogli la sfera. E lui scrutò dentro il cristallo e apparve il globo terrestre: il mare, i fiumi, i laghi e i contorni dei contenenti.

    Guarda comandò ancora l’uomo. La vista divenne penetrante e vedendo che due zone della terra erano in fiamme, distolse lo sguardo.

    Guarda gli venne ordinato con fermezza. E la vista penetrante divenne visione e la visione certezza; certezza che quei mali erano ormai divenuti inevitabili e a quel punto non potevano più essere stornati. Contemplò i dolori di tutte le parti della terra completamente sconvolte, si rattristò e pianse. E non volle più guardare così in profondità.

    È fatta disse l’uomo.

    Una voce, come un grido che si alza simile alla squilla del mattino, echeggiò assordante in ogni strada e in ogni piazza.

    È fatto! È fatto! È fatto! Sul Colosso Brullo issate un segnale. Repentinamente la sfera venne percossa da sette colpi e il cristallo si scheggiò in sette punti, sette crepe comparvero nel globo. Tobia rivolse gli occhi verso gli occhi dell’uomo e gli parvero immensamente tristi. Vedendo che lacrime sgorgavano da sotto la maschera provò pena per lui. Allungò la mano verso il suo viso ma l’uomo si ritrasse e disse: Non mi toccare.

    Quando? chiese Tobia riguardando la sfera.

    Presto. Voltati e guarda. E vide una tavola ricoperta da una tovaglia bianca lunga fino all’orizzonte e su di essa molti calici d’argento e d’oro, belli e tempestati di pietre preziose e tutti erano colmi di vino fino all’orlo. Al centro del tavolo vide una piccola coppa di coccio. Vicino al tavolo c’era un vecchio crociato millenario con una spada e una bilancia in mano. A uno a uno prendeva in mano i calici travasandoli nella coppa.

    Guarda nella coppa disse il personaggio. Tobia guardò sulla tavola ma vide due coppe, una era piena di tenebre, l'altra era piena di luce. Vide una lotta tra luce e le tenebre e vide che le tenebre vincevano. Sentì una voce che comandava: Presto! Prendi la luce, prendi la luce e vieni. Dopo aver preso la coppa di luce fra le mani, sentì che il suo peso era grande.

    È pesante disse Tobia.

    È il giusto peso gli fu risposto.

    È pesante ed io sono un bambino.

    Sì è pesante, il suo peso è sette volte sette il peso della terra e tu sei un bambino. Si ricordò allora il peso della terra e provò a fare il conto, ma non gli riuscì. Pensò, comunque, di essere divenuto molto forte, perché quel numero era invero molto grande. Il suolo cominciò a tremare e la fortezza vacillò.

    Una porta si aprì nell’aria, gli fu detto di prendere la luce e di varcare la soglia. Davanti alla soglia comparvero tre gradini.

    Era davanti alla porta.

    Varcò la soglia.

    Quando fu dentro, si ritrovò in un luogo illuminato da una strana luce crepuscolare. Era come un giardino, era notte. Ebbe paura perché divenne cosciente di una presenza minacciosa che si annidava nelle tenebre e due occhi rossi lo fissavano.

    Fuggi subito gli fu detto ancora. Fu allora che vide il pipistrello. Era un pipistrello bianco con le ali striate di nero simile ai pipistrelli diurni del Verbiland ma molto più grande. I balrog che svolazzavano attorno a lui sembravano moscerini. Si strinse la coppa al petto e corse in una ripida scala, dopo averla discesa un pugno lo colpì rabbiosamente e cadde faccia a terra.

    Era davanti a lui e gli sbarrava la strada.

    Dammi la luce gli ordinò.

    No gridò Tobia fammi passare.

    Qui non si passa. Si resta. Sei a casa finalmente, questo è il tuo destino, si udì una lunga risata, fredda e gutturale che gli gelò il sangue. Legatelo.

    Gli legarono i piedi e le mani. Fu sollevato da numerose braccia e trasportato lontano. Lo condussero in una lunga strada che si addentrava nell’oscurità. Cominciò a sentire da ogni parte grida orribili. Nelle pareti di questo lungo corridoio, le une di fronte alle altre, si aprivano delle nicchie da cui usciva un fumo senza fiamma e un fetore intollerabile. Gli diedero un colpo violento che lo sprofondò in una di queste nicchie. Si trovò schiacciato tra assi incendiate e trafitto da aghi scottanti.

    Urlò svegliandosi, e sentendo il letto fiammeggiare scattò in piedi su di esso. La dolce consolazione di aver solo sognato fu spezzata da una spaventosa sensazione di calore che durò fin nella veglia. Il ragazzino si lanciò tremante fuori dal letto. Il panico provocato da un incubo di solito si attenua a mano a mano che la mente acquista una ragionevole coscienza della sua vacuità e della sua estraneità con il reale, ma questa volta non sembrava andare in questo modo. Gli parve ancora di percepire il puzzo asfissiante che l’aveva quasi soffocato nell’ultima parte del sogno. Ma soprattutto era la paura a non abbandonarlo. Ebbe quasi voglia di gridare ma era in casa di Valeria, e questo lo trattenne. E era grande ormai, non avrebbe mai gridato neppure fosse stato a casa sua. Aprì la finestra e mentre l’aria fresca arieggiava la stanza, raccolse il quaderno che gli era caduto a terra. Spense la luce dell’abatjour che aveva lasciato accesa addormentandosi. Respirò profondamente passandosi una mano sul volto madido di sudore. Si levò il pigiama, indossò degli indumenti asciutti e uscì dalla camera. Al buio percorse il corridoio fino alla stanza da bagno. Accese la lampada affianco allo specchio. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda chinandosi sul lavello. Si strofinò energicamente la faccia, rimase immobile a fissarsi nello specchio mentre l’acqua gli scorreva tra le mani. Sentì gli ultimi fumi del sogno evaporargli nella mente e gli sembrò quasi che la paura si dileguasse dalle mani per sprofondarsi nel gorgo dello scarico.

    Sono proprio scemo. L’aveva appena pensato quando una mano gli si posò sulla spalla. Sobbalzò inorridito.

    Scusami, non intendevo spaventarti. Valeria gli si era piazzata dietro come un fantasma, avvicinandosi scalza non aveva fatto il minimo rumore. Come mai sei già sveglio a quest’ora?.

    Non so.

    Come sarebbe? lo guardò negli occhi, vide che erano gonfi e arrossati e capì che aveva pianto. Hai pianto?.

    No, cosa ti salta in mente? Io non piango mai.

    Certo, certo. Andiamo in cucina, sempre che tu non voglia tornare a letto.

    Che ore sono?.

    Quasi le sei.

    Tobia alzò le spalle e poi le rilasciò, per dire che ormai tra mezz’ora si sarebbe dovuto alzare e non valeva la pena rimettersi a letto.

    Valeria indossava una vestaglia a quadretti, stretta da una cinta rossa che probabilmente doveva appartenere a un altro indumento. La caffettiera aveva iniziato a fischiare. Attese che tutto il caffè venisse fuori e si versò la sua buona dose mattutina in un bicchiere di vetro. Tobia se ne stava silenzioso, seduto in un angolo del tavolo contemplando il frigorifero con i pugni chiusi a pilastro sotto il mento. Valeria sapeva che sarebbe stato inutile chiedergli qualcosa, qualunque cosa avesse non ne avrebbe parlato se non di sua iniziativa.

    Vuoi fare colazione?.

    Mi dai un po’ di caffè?.

    Tua madre mi lincerebbe se sapesse che ho dato del caffè ha un ragazzo di undici anni. E tuo padre… beh, lasciamo andare tuo padre, i padri non contano. Non ti darò mai del caffè, tanto meno alle sei del mattino e a stomaco vuoto. Ma non sai che potrebbe venirti l’ulcera? allora prese una tazzina e la riempì a metà, poi disse: Zucchero giovanotto?.

    Uno grazie, rispose divertito. E poi anche tu lo bevi a digiuno.

    Io! Io non conto, io sono un relitto.

    Sai che ho iniziato a leggere quel racconto, è molto bello. Mi è piaciuto, veramente ne ho letto solo una parte. Ieri notte volevo finire il terzo quaderno, invece credo di essermi addormentato mentre leggevo.

    Se ti ha fatto dormire, non deve esserti piaciuto un gran che.

    No! No! È bello, ma ero molto stanco e mi pizzicavano gli occhi. Non riesco mai a resistere sveglio dopo le dieci. È colpa di papà che mi fa andare a letto troppo presto. Ma voglio finire di leggerlo, posso portare i quaderni a casa mia?.

    Sorrise un po’ orgogliosa: Certamente, ma te l’ho detto è una storia senza capo né coda. Un racconto che ha bisogno di essere ultimato. Non sono mai riuscita a finirlo, l’avevo iniziato anni fa, quando pensavo che la letteratura avesse ancora uno scopo.

    Peccato! Credo che piacerebbe ai bambini, perché non lo finisci?.

    È difficile spiegare una cosa del genere a un bambino.

    Io non… .

    Okay, tu non sei un bambino. Allora proverò a spiegartelo. Sai che anni fa insegnavo ai ragazzi della tua età? Ma non ero molto soddisfatta di lavorare in un ambiente che non mi realizzava molto. Così ho fatto di tutto per insegnare a ragazzi più grandi. Quando facevo l’insegnante alle scuole medie, mi venne l’idea di scrivere quel racconto. Un racconto fantastico naturalmente, adatto per dei piccoli lettori. Ma poi mi è passata la voglia o forse sono stati i ragazzi più grandi a farmela passare. La verità è un’altra, non potevo più continuare quella storia perché non avrei più potuto scrivere quello che volevo.

    Perché?.

    Ricordi il titolo?.

    "Sì, La caduta del Verbiland."

    Esatto, il mondo del Verbiland. L’avevo chiamato così quel mondo, anzi quell’antimondo. Ma poi un giorno ho capito che gli antimondi non possono crollare. Avrei dovuto scrivere una bella storia che sarebbe stato solo un inganno per i ragazzi. I mondi di quel genere non cadono ma si trasformano, divengono antimondi sempre più spaventosi e crudeli. Nella mia storia dovevano vincere i buoni, lo stupido Grossognano doveva infine far crollare il mondo stregonato del Verbiland. E poi liberare dalla magia cattiva tutti mondi esteriori al di là della fascia di Vagor. Ma non mi è stato più possibile continuare, perché i buoni non possono vincere, i buoni non vincono mai.

    Nei film vincono sempre, perlomeno e raro che non vincano, ma ci sono anche i film dove vincono i cattivi, però è come se perdessero. Ma io penso che tu abbia fatto comunque male a non finire il racconto. E poi credo un’altra cosa.

    Sentiamo drizzò curiosa le orecchie verso il bambino. È per questo che ti ho dato i miei quaderni da leggere, per sentire un buon consiglio.

    Tu hai dato un titolo a un racconto che non avevi ancora scritto. Io non credo si possa fare così. Prima bisogna scrivere un racconto e poi dargli un titolo.

    Valeria lo guardò ammirata e stupita che una frase del genere potesse venir fuori dalla bocca di un bambino: Che cosa proporresti di fare?.

    "Finisci la storia così come pensi possa essere finita, poi penserai al titolo. Se non può essere La caduta del Verbiland sarà La trasformazione del Verbiland o qualcosa del genere."

    No rispose dura, poi guardando bene chi aveva davanti, aggiunse: Ci penserò.

    Poi, c’è un’altra cosa.

    Sentiamo.

    I cattivi della tua storia sono troppo cattivi. In una bella storia devono esserci i cattivi, ma i cani stregonati ad esempio fanno troppa paura, cioè, questo è logico, naturalmente. I mostri del tuo racconto però sono troppo mostruosi. A me non fanno paura io non ho paura di niente. Ma….

    Di niente? insinuò Valeria aggrottando le sopracciglia e contorcendo buffamente la bocca.

    Il bambino sorrise: Un po’ dei cani, lo ammetto. Volevo solo dire che un bambino più piccolo potrebbe spaventarsi. Non puoi terrorizzare i bambini. Certi genitori non farebbero mai leggere una storia così a bambino piccolo.

    Il male è una cosa seria, sai?.

    Il male però non c’entra molto con i bambini. I bambini non c’entrano col male.

    I bambini non c’entrano. Ma i bambini diventano grandi.

    Tu credi ci siano bambini cattivi che hanno il male dentro?.

    No, tesoro, non lo credo. Allungò la mano facendogli una carezza. E tenendogli stretto il mento con due dita aggiunse: Dentro un bambino non c’è il male, ma solo, diciamo così, un piccolo cretino. Il piccolo cretino può diventare un vecchio saggio e sapiente o un grande demonio. Quando ero giovane, ero più ottimista. Ma oggi non credo più che il piccolo cretino possa essere lasciato in balia di se stesso. Il piccolo cretino ha bisogno di qualche ceffone ogni tanto.

    Credo di avere pianto prima. Ma non realmente, nel sogno forse lo confessò candidamente senza che Valeria si aspettasse una tale ammissione.

    Hai fatto un brutto sogno?.

    Un sogno terribile, ma non era un sogno come gli altri sogni. Alla fine mi hanno rinchiuso in un posto buio e lì... ma io ho capito dov’ero. Cioè nel sogno, hai presente come sono i sogni?.

    È come capire qualcosa, ma non sai perché la capisci. Per esempio vedi una persona che non riconosci, ma sai di chi si tratta. Anch’io sogno qualche volta, sai.

    Già, è così che ho capito dov’ero. La donna lo fissò aspettando che si decidesse a dirlo. Ero nell’inferno col diavolo.

    Oh, Santo Cielo! Che sciocchezze scattò Valeria alzandosi e guardandosi intorno, poi s’ispezionò e recuperò un pacchetto di sigarette da una tasca della vestaglia. Se ne accese una e socchiuse la finestra. Tobia sapeva che Valeria non voleva sentire certe cose e si aspettava che lo sgridasse, invece guardandolo dolcemente sorrise: Sentiamo, com’era questo diavolo?.

    Non mi ha fatto molta paura, a dire il vero disse mentendo e non ho pianto mica perché mi mettevano nell’inferno. Non me ne importava proprio niente. Ho pianto prima con la maschera di ferro, quando ho guardato nel palantir.

    Oh, Santo Cielo! La maschera di ferro, eh!.

    Ti assicuro, ma ora credo di sapere chi è il personaggio che si nasconde dietro la maschera, l’ho sognato altre volte. È il diavolo, però non è così cattivo come dicono, mi è sembrato buono. Mi ha portato nei monti, mi è sembrato di essere nella Marca Scarlatta, sulla sommità del Colosso Brullo e c’era un fiume rosso.

    Il Ruberiv disse Valeria.

    Non so, poi siamo andati a Minastirit, dove c’era una balena nel mare, è lì che ho visto il cavaliere crociato che mi ha dato il Santo Graal. Il Santo Graal è una coppa di coccio, lo sai vero? Ed era pesante come il peso della terra, anzi di più. Sai quanto pesa la terra?.

    Oh! Santo Cielo! esclamò per la terza volta. Il Graal! E a quel punto non si trattenne dal ridere, ma vedendo la faccia seria di Tobia smise subito.

    Se ridi, non ti dico più niente.

    Va bene disse lei, passandosi due dita sulle labbra come se volesse chiudere una cerniera.

    Anzi non ti dico proprio più niente. Volevo dirti cosa ho visto nel palantir, ma tanto ti farebbe solo ridere. Invece a me ha fatto piangere e se ci penso, mi viene da piangere anche adesso.

    Non sempre ciò che si vede nei palantir è vero, dovresti saperlo, tu che sei così appassionato di Tolkien. Non possono spiegarci tutto le perdute pietre veggenti. Le loro visioni sono ingannevoli e pericolose, perché nulla è sicuro e quel futuro potrebbe sparire. Quel futuro potrebbe cancellarsi. Per un attimo si sentì anche lei una ragazzina di undici anni, aveva infatti iniziato a parlare come se quella singolare esperienza onirica avesse una qualche importanza.

    Invece lo so eccome, per questo non volevo guardare. Nel sogno ho pensato: io non sono uno stupido hobbit. Mi sono ricordato di Pipino quando rubò il palantir a Gandalf. E mi sono detto: non guarderò neanche morto, avevo paura che venisse fuori l’Occhio. La maschera di ferro però mi ha obbligato e poi ha detto che sarebbe successo tutto quello che vedevo ed io ho visto che era vero. Cioè l’ho capito da solo, mentre guardavo capivo, e mentre capivo ho capito che capivo bene. Non so se hai capito? Valeria sorrideva. Insomma che tutto era ormai inevitabile. Presto, ha detto e….

    Basta! Basta! Sai cosa penso del tuo sogno? Che si tratta di un bel montaggio cinematografico - letterario costruito da una mente troppo fantasiosa. Ti sei addormentato leggendo la mia favola, poi il tuo cervello è partito in quarta collegando episodi di storie diverse. La settimana scorsa ho visto che leggevi Moby Dick, ecco da dove viene la balena. E il peso della terra da dove viene? Scommetto che sai rispondere tu stesso.

    Ce ne ha parlato il professore di scienze qualche giorno fa. Ma non ho capito bene come hanno fatto a pesarla.

    Com’era il crociato del tuo sogno?.

    Molto vecchio, decrepito.

    Come pensavo, è l’immagine che hai visto in un film. E guarda caso l’ho visto anch’io. Indiana Jones e l’ultima crociata o l’ultimo crociato. Le solite puttanate americane ma forse è una puttanata migliore di altre. Ehi! Non dire a tuo padre che dico tutte queste parolacce! Potrebbe persino denunciarmi.

    Non credo che puttanata sia proprio una parolaccia. L’altro giorno mi ha portato in ospedale a trovare Federico. Non riuscivamo a trovare un ascensore a posto, erano tutti fuori uso, allora ha battuto un pugno a una porta e ha urlato: ‘porca troia impestata!’ Credo sia una parolaccia più grave.

    È una pessima parolaccia, la parolaccia di un maschilista. Io e tuo padre andiamo molto d’accordo quando non ci vediamo. Io non tollero le sue parolacce e lui non tollera le mie.

    Non credo che non ti tolleri. Anche se un giorno ha detto che tu sei, non ti offendi vero, un po’ esagerata.

    Valeria scoppiò a ridere: Avrà detto che sono una paranoica esaltata.

    Tobia si stupì che avesse azzeccato le parole esatte pronunciate da suo padre. Valeria doveva essere una donna molto intelligente o forse suo padre era un uomo abbastanza prevedibile.

    È tardi giovanotto, vai a prepararti, poi è meglio che torni qui a mangiare qualcosa.

    Mi accompagni tu a scuola?.

    No, io oggi non lavoro, ci andrai con Veronica.

    Ehi! Parsival alza quel Graal dal tavolo e vai a metterti un’armatura tuonò vedendolo indugiare imbambolato sul tavolo.

    Tobia portò la tazzina sul lavandino, uscì dalla cucina e pensò che non le avrebbe mai più raccontato nessun sogno.

    Dopo alcuni minuti una ragazza con la faccia sconvolta entrò in cucina. Buon giorno Morgana disse Valeria.

    E la ragazza rivolgendole un pietoso sguardo di commiserazione: Ti sono tornate? Guarda che non durano questi ritorni. Non illuderti, non durano mai.

    2

    Città del Vaticano, 1944

    Quando il cardinal Rivas entrò nell'appartamento del Papa, con suo grande stupore non fu condotto nello studio dove il pontefice era solito riceverlo, ma nelle sue stanze private. Ad accrescere la sua sorpresa si aggiunse il fatto che il pontefice non era solo. In un angolo a destra, seduto su una poltroncina, vide il confessore del papa, monsignor Niccolini, segno che la questione era di estrema delicatezza. C'era pure il domenicano padre Donati, uno dei teologi di fiducia del pontefice. Vi erano poi il preposito generale della compagnia di Gesù e un altro gesuita. Lo colpì l'aspetto fisico di quest'ultimo, non ricordava di averlo mai incontrato a Roma. Era un uomo sui quarant’anni, biondo, con gli occhi azzurri e con un fisico imponente, la tonaca nera lo faceva apparire ancora più alto di quanto fosse in realtà. Il generale lo presentò come padre Zimmermann. Quando il capo del sant'uffizio era stato annunciato da un segretario del papa, i due gesuiti e il domenicano si erano levati in piedi, monsignor Niccolini invece si era limitato a salutarlo con un cenno di capo.

    Padre Zimmermann, tedesco, presumo disse il cardinal Rivas quando questi si chinò a baciargli l'anello.

    Americano, rispose lui in un italiano malfermo ma corretto e con un forte accento inglese, ma il cognome è tedesco. Mio nonno emigrò in North Dakota alla fine del secolo scorso.

    Il cardinale assentì senza aggiungere o chiedere altro.

    Il Papa sembrava stanco, era pallido e tirato. La sua figura bianca e slanciata pareva essersi assottigliata, tanto da sembrare diafana. Stava in piedi davanti a una finestra, pareva osservare attentamente qualcosa in Piazza san Pietro, ma in realtà i suoi occhi erano rivolti al cielo e non alla terra. Si tastò la croce pettorale, portò una mano sugli occhiali sistemandoseli in alto sul naso aquilino. Seguì un lungo silenzio. Una monaca, quasi invisibile, attraversò come un lampo la sala. Il segretario del papa si congedò. Il cardinale rimase rispettosamente in piedi fintanto che il pontefice non prese posto al centro di un piccolo divano foderato di velluto rosso, circondato da poltroncine del medesimo colore.

    Eminenza, è desiderio del Santo del Padre che lei sia messo al corrente di alcune questioni che discuteremo in questa sede, è altresì desiderio del Santo Padre che lei, come capo del sant'uffizio, sia informato dei fatti ma esclusivamente a titolo personale e sub secreto, in considerazione dei suoi meriti e della sua esperienza. Nessun altro membro della sacra congregazione dovrà mai saperne niente. A parlare era stato il confessore del papa.

    Quelle parole tuonarono alle orecchie del cardinale come delle cannonate. Non gli risultava ci fosse mai stata nessuna questione negli ultimi quattrocento anni da cui il sant'uffizio fosse stato estromesso in questioni pertinenti il governo della chiesa, e quale poteva essere la ragione per la quale il Papa tagliava fuori il sant'uffizio e coinvolgeva invece il papa nero e lo stato maggiore dei gesuiti.

    Ma certo disse, cercando di dissimulare la sua sorpresa. Ringrazio il Santo Padre della stima e della fiducia che vuole accordare alla mia persona. Chinò il capo verso il papa. Era un modo per dire che la sua obbedienza ai desideri del pontefice era e restava assoluta.

    Vede Eminenza il papa iniziò a parlare quasi sottovoce. Si tratta di una questione spinosa per la quale è necessaria grande prudenza e molto silenzio. Non si tratta certo di mancanza di fiducia per la sacra congregazione, dove operano uomini pieni di zelo per la Chiesa e per le anime. Ma per il momento è meglio mantenere una riservatezza totale, perlomeno fino a quando non avremo le idee più chiare sull'intera faccenda. Il papa indicò un libro posto su un tavolino davanti a lui. Nessuno è a conoscenza della sua esistenza, neppure voi al sant'uffizio. Viene tramandato da un papa all'altro con la mediazione del confessore del pontefice defunto che s’incarica, sotto voto di silenzio e pena di scomunica, di trasmetterlo al suo successore. Questa decisione fu presa da Pio V, il papa da cui ha inizio la tradizione e che ovviamente ne fu anche l'autore. Dopo la nostra elezione esitammo a lungo, anche perché il libro era sigillato e non conteneva il sigillo del nostro immediato predecessore ma quello di Benedetto XV. Segno che non tutti i pontefici l'avevano aperto e consultato. In seguito, impressionati dalle proporzioni della guerra e dopo un lungo discernimento, lo aprimmo alla presenza del nostro confessore e lo leggemmo, convinti come eravamo che contenesse materie di natura spirituale o consigli inerenti il governo della Santa Chiesa. Invece ne fummo oltre dire turbati e confusi, anche per la natura di un oggetto che si tramanda assieme al libro. Chiedemmo al padre generale della compagnia di Gesù di far studiare il libro e questo singolare oggetto. Il papa indicò un cofanetto chiuso collocato accanto al libro e tacque.

    Fu il preposito dei gesuiti a continuare: Il libro è diviso in due parti. Nella prima vi è il resoconto degli accadimenti che ebbero luogo nella metà del Cinquecento, di cui san Pio V fu in parte testimone. Nella seconda parte, lasciata volutamente in bianco, vi sono le annotazioni dei pontefici che ne hanno preso visione. Pochi in verità. Alcuni si limitano a registrarne la lettura nihil dicens.

    Il cardinale ascoltava perplesso, infine disse: Ma siete sicuri? Qualunque rivelazione contenga il libro, anzitutto è bene accertarsi che veramente risalga a san Pio V e non sia invece un falso, prodotto da qualche impostore o da qualcuno con la mania delle burle, magari scritto per gettare confusione e discredito sulla Chiesa. La segretezza con cui è stato conservato e tramandato avrebbe poi ottenuto gli effetti desiderati.

    Abbiamo fatto esattamente questo. Ci siamo anzitutto accertati di questo. La mano che ha scritto è quella di san Pio V. Non si tratta di un libro uscito da una tipografia, ma di una specie di diario, la mano che ha scritto è quella di Pio V senza ombra di dubbio. Inoltre la singolarità del gioiello, come ora apprenderà, esclude qualsiasi frode. Ma andiamo per ordine. Il papa nero continuò riassumendo in breve ciò che san Pio V aveva voluto far conoscere ai suoi successori. Quattro secoli fa, nella città di Trento, l'inquisizione processò un uomo con l'accusa di stregoneria. Si era alla metà del Cinquecento, nel bel mezzo del concilio tridentino, l'inquisizione romana era stata appena riorganizzata nella sua struttura verticistica per debellare l'eresia protestante, anche se poi, come sappiamo, riuscì a operare efficacemente solo nella penisola italiana. La struttura verticistica consentiva....

    Il cardinale con un gesto della mano gli fece capire che non c'era bisogno di quell’inquadramento storico. Lui conosceva la storia dell'inquisizione romana che ora in qualche modo sopravviveva in quella istituzione chiamata Suprema Congregazione del sant'uffizio e guarda caso il cardinal Rivas era il capo di tale organismo. Il generale comprese e andò subito al sodo.

    Non abbiamo i verbali del processo. Anche se vostra Eminenza potrebbe provare a fare qualche ricerca negli archivi del sant’uffizio. A quanto pare distrussero tutto come per cancellarne ogni memoria. Erano ossessionati dall'idea che qualcosa potesse trapelare... questo è un vero peccato, considerata la puntigliosità dell'inquisizione, leggerli ci avrebbe dato un quadro più ampio della vicenda, invece conserviamo solo il resoconto che ne fece il papa. E Pio V, beh! Un santo... un santo certo, ma un figlio del suo tempo, e molte cose che scrisse rispecchiano delle idee che non crediamo possano essere prese in seria considerazione.

    Il cardinale era attonito, non capiva perché mai i gesuiti, che diventavano sempre più saccenti e arroganti, non potevano prendere sul serio uno dei papi più importanti nella storia della Chiesa, il papa che aveva promulgato gli editti del concilio di Trento, il breviario e la messa, aveva fermato i turchi a Lepanto e aveva contribuito a dare alla Chiesa quella struttura monolitica e inespugnabile che tutto sommato funzionava ancora.

    Io non comprendo si limitò a dire.

    Il papa taceva, il suo volto era sereno. Teneva le mani l’una sull’altra, ogni tanto col pollice e l’indice della sinistra girava e avvitava l’anello del pescatore infilato nell’indice della destra, sfilandoselo e rinfilandoselo come un bullone.

    Fu padre Zimmermann a continuare: Vede Eminenza di questo singolare processo la Santa Sede venne informata quasi subito. Il nostro Pio V, al secolo Michele Ghislieri, era già stato nominato inquisitore generale ma non fu in verità lui ad avviare l’istruttoria, così per una provvidenziale coincidenza governò le cose da Roma ancora prima di diventare papa. Il processo durò diversi anni e terminò con la condanna al rogo. Chiaramente l'uomo infine fu torturato, il resoconto riporta le sue confessioni sotto tortura. Pare che egli ritrattasse sempre queste sue confessioni, disse al Ghislieri in persona di aver fatto quelle dichiarazioni per i tormenti e se lo avessero torturato di nuovo, avrebbe detto le medesime cose, ma nessuna di queste era vera. La storia che infine raccontò, forse esasperato da anni di prigionia e vessazioni psicologiche, non la conosciamo, Pio V ci dice che in nessun modo questa versione può essere accettata e le sue parole non possono essere accolte dalla Chiesa. Ignoriamo perciò cosa disse esattamente quando non parlava sotto tortura.

    Che cosa confessò sotto tortura? chiese il cardinal Rivas. Il generale allargò le braccia: Tipico processo inquisitoriale, dove l'imputato infine dice ciò che i giudici si aspettano che dica. Anzi, sembrerebbe in questo caso che l'inquisizione si fosse già fatta un'idea precisa e poi l'imputato con la sua confessione ricalchi questa costruzione.

    Sì, ma cosa disse? rimarcò il cardinale.

    Pensavano fosse un essere demoniaco. Non un negromante o un semplice indemoniato, ma un uomo generato dal demonio nella carne. Pio V parlando di lui lo denomina semplicemente la creatura o la stella uscita dall'abisso.

    Ebbene disse il cardinale, tutta questa segretezza mi sembra fuori luogo io penso…

    3

    Marcel Brousse aveva trentacinque anni, ma quel giorno se ne sentiva addosso venti. Era in ottima forma e si sentiva bene. Viveva giusto l’inizio di uno dei suoi tanti nuovi inizi. Ne iniziava in media uno l’anno e ogni volta era un intrecciarsi di sensazioni conosciute e sconosciute. Un avventurarsi tra il noto e l’ignoto. Così ogni giorno di ogni suo nuovo inizio era un giorno assolutamente nuovo che s’inseriva nell’incredibilmente noto. Ciò che gli era familiare era quella sensazione di trionfo e di vittoria e la bella consapevolezza di essere al timone. Ogni cosa era tornata al posto giusto e i tasti della cabina di controllo erano di nuovo davanti ai suoi occhi. L’ignoto non lo scopriva subito, non aveva fretta. L’ignoto che lo attendeva dopo un nuovo inizio, attraverso un cunicolo di ripetitività, lo riconduceva nel noto certo. Non aveva dunque nessuna fretta di conoscere l’ignoto che lo attendeva.

    C’era tempo. Era solo un eterno ritorno nel noto assoluto.

    Le chiamava fasi Ctrl-Alt invio. Come quando si fa ripartire il computer inceppato schiacciando quei tasti. Eppure i suoi nuovi invii erano più efficaci del riavvio di uno stupido computer che infine resta sempre uno stupido oggetto inanimato.

    Lui era vivo.

    Una recisione secca dei rapporti umani problematici era a suo parere salutare come la potatura di un albero che vuole vivere e portare molto frutto. L’unico problema consisteva nel fatto che spesso lo faceva in modo così brusco e la potatura spesso assieme ai rami secchi faceva piazza pulita della vegetazione che gli cresceva attorno. Nel farsi uno spiazzo attorno, perché potesse avere sole e aria e i suoi rami potessero allargarsi in tutte le direzioni e non dessero fastidio a nessuno, era alltalvolta dolorosamente necessario salare e desertificare il suolo circostante. Era la sua delicatezza a farglielo fare, la sua umanità piena di premure. Per il bene degli alberi vicini.

    Vestiva quasi sempre allo stesso modo; completo nero, camicia bianca, scarpe a punta lucidissime. Aveva un taglio di cappelli un po’ antiquato che gli incorniciava un viso affilato, delicato, fine; quasi femminile. La pelle bianchissima, le labbra sottili, un cespuglio di peli senza continuità né uniformità gli cresceva sul volto selvaggiamente da due settimane. In genere si rasava a fondo.

    Fatti la barba ogni giorno ti prego, e non lasciarti crescere questi ciuffetti. Sembri un culo con la dentiera. La sua ragazza gliel’aveva detto così, tra una risata e un bacio e lui non si era offeso. Detestava la mancanza di tatto e stile, odiava ogni tipo di volgarità, ma non se l’era presa. Il contatto con le persone che lo circondavano non diveniva esasperante per la cocciutaggine, per i modi irritanti, per le ferite che provocavano. Il problema era solo la mancanza d’intelligenza del prossimo. Sembrava proprio che gli altri si rifiutassero di comprendere la psicologia altrui.

    Cosa si può fare con un amico, con una donna che dopo anni di conoscenza, di frequentazione e intimità non hanno ancora capito come fare? Non hanno ancora capito come prenderti, non hanno ancora capito le cose che t’irritano e che ti fanno imbestialire. Lui invece si adeguava, compiaceva gli altri, era delicato e gentile con tutti, conosceva immediatamente e interamente le persone, entrava subito nel gioco delle parti. Sapeva quando e con chi bisognava essere se stessi, con chi bisognava recitare, e con chi era necessario alzare i muri. Non si era mai ingannato quando aveva giudicato il valore o le potenzialità di chicchessia. No, la croce non è la stupidità del prossimo. La croce è la propria intelligenza. Allora bisogna sfoltire, tagliare, farsi il vuoto attorno. E forse dopo si può iniziare da capo. Gli altri erano stupidi irrimediabilmente e lui troppo intelligente. Non si può dire che fosse vendicativo o che esplodesse a scoppio ritardato. Talvolta le persone che gli ronzavano attorno potevano pensare che premeditasse sottili vendette. In realtà era come una botte molto capiente che non ricusa di essere riempita. La sua capacità di contenimento era proporzionale all’affetto e al valore del legame istaurato. Per la mamma e il papà era infinita, poi decresceva fino a esaurirsi a un bicchiere per i semplici conoscenti e il giornalaio sotto casa. Una volta che qualcuno avesse versato l’ultima goccia e il liquido fosse giunto quasi a traboccare, lui non permetteva che un travaso violento si rovesciasse sul malcapitato. L’ira del pacifico che esplode di colpo è come un fiume che straripa travolgendo tutto ciò che incontra nel suo cammino. L’ultima goccia della sua ragazza era caduta nella botte alcuni giorni dopo la battutaccia sulla sua barba. In quel momento non sapeva neppure che la botte fosse colma; se ne rendeva conto sempre a cose fatte.

    Quel giorno, la piccola Angeliche aveva dormito da lui nel suo piccolo appartamento di Lione. Dopo che lei era uscita per andare al lavoro, si alzò con calma, dopo la doccia fece colazione e fumò la prima delle due sigarette che fumava ogni giorno. Quel giorno anzi se ne concesse una terza che poi decise di non fumare più perché non c’era niente di particolarmente entusiasmante che lo riguardasse.

    Raccolse le cose della piccola Angèlique; tutte quelle cose che lei si portava appresso quando andava a stare da lui e che lasciava sempre in disordine dappertutto. Tutta una serie di cose, cosette, cosettine, carine se vogliamo. Mise tutto in un piccolo borsone. Lo sistemò davanti alla porta. Lei entrò, trovandoselo davanti gli sorrise, si tese verso di lui per baciarlo. Accettò il bacio senza schiudere le labbra. Con la mano le impedì di chiudere la porta, s’impadronì delle chiavi, con un piede spinse fuori il piccolo borsone.

    Come? fece lei.

    Cosi disse lui.

    Le mani di Marcel calarono sulle sue spalle, la ruotarono mollemente con energia e spinsero decisamente. Lei era fuori. Le sorrise con affetto, chiuse la porta con dolcezza. Lei bussò, chiamò, suonò, citofonò, telefonò, telegrafò, spedì s-m-s, mail e missive.

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