La stella che vuoi
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Book preview
La stella che vuoi - Angelo Mellone
Collana
Deluxe
Angelo mellone
La stella che vuoi
ISBN 978-88-6822-666-4
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
EDIZIONE eBook 2018
Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Ai miei figli.
Quando le streghe abbondano
– e fantasmi vengono avvistati –
scoprirai il tuo destino
Antico detto inglese
Coloro che amiamo e che abbiamo perduto
non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo
Sant’Agostino
Poi venne Dio che tutto dà e tutto toglie.
Mannarino
Là dove la tradizione tradisce
E reinventa le forme
Della sua sopravvivenza
Angelo Mellone
J’aime mieux croire aux lutins qu’à vos cryptogames.
Les lutins, au moins, on les a vus.
Charles Le Goffic
Locorotondo, Contrada Grofoleo, nella notte fra il 31 ottobre e l’1 novembre 2016
La quercia di fronte al trullo, incagliata nella specchia di pietre e terra rossa come il rubino del sangue, aveva cominciato a perdere le foglie.
Uno spicchio di luna si faceva spazio tra le nuvole per dar quel poco di luce al tronco, dandogli le fattezze di una venere spossata e recalcitrante.
Guardò un’altra volta il simbolo dipinto sulle chiancarelle che facevano il tetto del trullo.
L’unione di cielo, terra e inferi.
Pietra calcarea. Sedimenti di epoche antiche.
Sorrise. Un sorriso maliardo che, se avesse avuto un sapore, avrebbe portato sentori di vendetta al palato. Riguardò il simbolo.
Quella notte tutto poteva succedere. Quella notte tutto doveva succedere.
Tracciò con un coltello sulla quercia un simbolo.
Il capovolgimento della luce in oscurità. La cessione di un’anima alle forze che possiedono con voluttà le energie del cosmo. Il trapasso di un sogno in macchie oscure. Il ritorno di un antico sentimento di vendetta.
La quercia sputò siero che pareva sangue marcio.
Lo spiedo sul fuoco continuava a cuocere pezzi di pecora, la stessa che alla mattina aveva offerto l’ultimo secchio di latte. Il sacrifico era compiuto, i lamenti dei morti potevano essere ascoltati e accolti senza avere più paura. La terra dei Ritornanti poteva essere osservata e trovare altra terra da concimare. La specchia sativa su cui l’albero poggiava e in cui l’albero affondava le radici, lei lo sapeva, era poc’altro che una scala per salire più velocemente agli dèi. O scendere rapidamente dove stava l’energia delle ombre.
Sotto la quercia dispose una tovaglia con tutto ciò che le occorreva.
Invocò l’oscurità, maledisse gli dei della luce, che i carri dal sole potessero schiantarsi e diventare concime o carcasse buone per i denti dei maiali.
Recitò la formula che aveva appreso. La recitò tre volte.
A Cinquecento diece e sette scaglierò la saetta:
A chiunque opporrà rifiuto
Darò un dolore orbo di occhio.
A chiunque mi cagionerà altra sofferenza
Darò un dolore cieco di luce.»
Prese foglie e fiori di ciclamino d’autunno e le spezzettò.
Prese spighe di amaranto, che mai appassisce e perpetuamente dura, e ne tagliò il giusto per non dare mai fine al maleficio.
Vi mischiò semi di giusquiamo bianco che aveva raccolto nella tarda estate e poi conservati in un lembo di lino bianco insieme all’alloro.
Unì tutto al latte di pecora, che ancora puzzava d’alba. Prese la mistura ottenuta e la versò in un recipiente di pelle di agnello: per tutta la notte l’avrebbe lasciata a fermentare, e riposare, dinanzi al fuoco sacro.
Tre gocce ogni giorno sarebbero state sufficienti.
Tre gocce per un innocente.
Strada per il Bosco delle Pianelle, 21 dicembre 2017
«Giù, là in fondo, là fermarci potremmo.»
Lo sguardo era rivolto al dorso della strada, in direzione di un fragneto annunciato dal cartello del guardaparco.
«Oh, ma ricordate?» fece uno dei tre agli altri due «qui scovammo, e quant’era, un secolo e mezzo è passato e ho perso il conto, quei due giovani ragazzi che s’atteggiavano a briganti? Uno era così sporco in faccia e nel tascapane polvere da sparo teneva… sergente Romano lo chiamavano… losco figuro che nel cuore conservava le urla di mille faide…»
«Melchiorre» rispose quello del gruppetto che aveva il viso maggiormente segnato dalla stanchezza «prima di lasciarsi andare ai ricordi, in tutta franchezza, vorrei mettere qualcosa nello stomaco!»
E lo disse indicando una pianta di pero selvatico che aveva dei rimasugli di frutto appeso.
«Messeri Baldassarre e Gaspare, che schifo, oserei dire! Paiono grinze di un vecchio deretano e non cibo buono da masticare…»
«Ragione potresti avere» fece Baldassarre, dandosi un piccolo colpo alla calzamaglia che si srotolava sotto il cavallo «epperò cosa mangiare potremmo? Non credo che quella sia commestibile» osservò ridacchiando e puntando l’indice verso una peonia che ricordava nel color rosa il ventaglio di un pavone. «E tu, Gaspare, pigro come un porco grufolante in attesa d’essere scannato, dai mossa alle tue gambe!» urlò al terzo della comitiva, che li seguiva alla distanza di un centinaio di passi, con il copricapo blu un poco sporco di terra e tenuto calante a ridosso degli occhi.
E sia quel che sia e fosse quel che fosse, Gaspare esplose come un piccolo petardo.
«Ascoltate, sottorazza di gnomi del Taburno, due giorni sono che mi fate camminare senza ancora spiegato avermi dove siamo diretti. I piedi ho che fumano e sbuffano di rabbia. La pancia gorgoglia e crepita come un camino orbo di legna. E pure mi chiedi, tu proprio tu viscida canaglia, di accelerare il passo? Adesso mi stenderei proprio qui, dove gli umani fanno scorrere i loro mezzi veloci e rumorosi, aspettando che qualcuno mi raccolga, scambiandomi per uno dei loro mocciosi, e mi offra, chessò, una tazza di meravigliosa cioccolata fumante…»
Baldassarre di par suo non si scompose più di tanto, se non per quel leggero colpo alla punta del cappello che, in chi lo conosceva – e c’era chi lo conosceva da quando i crociati straccioni avevano attraversato la Puglia arrecando alla santa terra sacrilegi, maledizioni, saccheggi ed epidemie, e più volte avevano cercato di impalarlo o arrostirlo legato come un capretto – era sintomo che la pazienza era sul punto d’esser smarrita.
«Il fatto che tu a un bimbo somigli non significa che da bimbo tu debba o possa comportarti. Ti porti addosso mille anni e così tanti lustri da esaurire file di abachi per contarli, hai visto bruciare streghe a Castelmezzano…»
Gaspare alzò gli occhi al cielo, quasi a chiedere conforto a chi là sopra li stava osservando. «Poverette. Mi ricordo lei, come si chiamava, Dorina, che sempre ci portava i dolci fritti nel miele… la divelsero con le croci di legno prima di sbatterla sul rogo come un capretto sanguinolento…»
«… dicevo, proprio così, hai visto sirene uscire da un gorgo di mare coi delfini giocando nel mare di Taranto, normanni possenti e peste dilaniare povere anime sui torrioni di Mottola, e che devo dirti?, proprio io che da quel valoroso carabiniere fui catturato nella grotta di Craco…»
«… e consegnato alle attenzioni di una meravigliosa fanciulla di nome Carmelina, a cui una volta al mese riferivi i suoi messaggi così densi d’amore che scegliesti d’esser trasformato in pupazzo – e noi appresso a te! – e ficcato nell’armadio di una casetta di Pisticci pur di poterle stare accanto nell’assenza del suo amato Marcello… Baldassarre, che la lingua mia si tagli a causa di questo pensiero aguzzo, ma ce l’hai raccontata mille e mille volte questa storia che tra l’altro ben conosciamo!»
Baldassarre si girò di scatto e con le iridi gonfie di luce bianca quasi fulminò l’altro.
«E allora?»
«E allora niente. Dicevo così, per rammemorarti.»
«Sì, sì… uhmm…» disse Baldassarre «e adesso…»
«…e adesso?» lo incalzò Gaspare, strafottente.
«…e adesso fai storie per cosa poi, per il cibo?»
«Esattamente. E poi ancora non comprendo…»
Fu così che Baldassarre s’arrestò, ricordandosi che di quel trio era l’anziano, o così pareva.
«… e presto afferrerai il senso di questa fatica che ci ha strappato agli ozi della grotta nella gravina di Palagianello, agli schioppi, alle micce, alle criniere di cavalli arrotolate per scherno, alle gite di tarda notte tra le lenzuola del notaio, alle melodie di zufolo che, ti si venga riconosciuto, proprio tu che peggio mi pari di di un asino di Locorotondo, maneggi a mo’ del fiato di un angelo.»
«Ce lo auguriamo tutti e due, io e compare Gaspare» echeggiò Melchiorre «perché voluto non hai condividere le parole che Nicola il druido l’altra notte ti ha fatto recare dal falco messaggero.»
Il bagliore della luna piena faceva luce al loro cammino e distribuiva le ombre allungando nella forma di lance la punta dei loro cappelli. Ed erano uno verde, uno rosso e uno blu.
«Volevate con tanto ardore tornare di carne e sentire il sangue scorrere e le viscere contrarsi quando il sangue stesso ristagna? Ebbene, la fame tenetevi e il silenzio sia nobile più della vostra brama di pastafrolla.»
«La pastafrolla… uh, la pastafrolla!» cominciò a sbraitare Gaspare. E finalmente decise di avvicinarsi agli altri due, saltellando sul ciglio della strada e ogni tanto incrociando le gambe a mo’ di girello.
E fu lì che vide i resti di una carbonaia.
All’improvviso gli occhi si fecero tumidi e il fiato ansimante di tristezza.
Cominciò a intonare una ballata che narrava di quando due navi spartane, tremila o pressappoco anni prima, guidate da un dio del mare avevano fatto àncora nel golfo che sotto di loro si stendeva come un silente specchio per le stelle ed erano sbarcati accompagnati anche da due munachicchi che, in groppa a cavalli nani, intonavano con l’aulos canti di guerra e danze perché la forza delle onde potesse loro accompagnare mentre i primi ceppi dell’accampamento piantavano a confine della terra che da quel momento sarebbe stata di Sparta.
Gaspare aveva conosciuto uno dei due, in epoca che la sua memoria riportava molto indietro nel tempo, anzi una munachicchia di nome Psyosis, ed era con lei che per la prima volta, con gli occhi gonfi di simpatia, aveva cominciato a gironzolare tra le piccole cavità del lungomare che accompagnava Taranto dal canale navigabile. Poi, lustri e lustri appresso, gli uomini con la croce avevano preso possesso dei templi, delle feste e delle danze di cibo e corpi gaudenti. E avevano deciso che il munachicchio avesse facoltà di manifestarsi e uscire dalle caverne, diventare cioè qualcosa di reale e non di pertinenza dei sogni peccaminosi, solo nei pochi giorni di ciò che chiamavano carnevale, liberando il suo spirito di festa e delizia, per poi essere costretto a rifugiarvisi di nuovo nei lunghi mesi di penitenza e divieti. Ma Psyosis continuava a non comprendere perché gli uomini con la croce e vestiti di tristi tuniche nere avessero potuto distruggere il mondo dell’aulos e della kithara, delle danze di guerre e d’amore, dei corpi desnudi e sensuali. E aveva infranto il divieto, piombando in piena notte, una notte di stelle danzanti d’agosto – Gaspare non lo ricordava benissimo, ma doveva essere stato nella cittadina di Castanea, oggi detta Castellaneta – per bussare a ogni porta invitando chiunque a destarsi dal sonno e festeggiare le feriae Augustus, così che l’afrore dei corpi e quello del vino potessero mischiarsi in un unico battito della terra. Ma, quando ormai quasi tutti gli abitanti erano scesi per le vie e avevano cominciato a far festa, un uomo con la croce era spuntato da un edificio costruito sopra l’antico tempio di Mitra invitando gli stessi che facevano bagordi a catturare e uccidere quel prodotto del malanimo di una strega, giunta a Castanea – sì, aveva concluso Gaspare, era proprio quello il villaggio – per diffondere smodatezza, peccato e lussuria. E la povera Psyosis, nonostante Gaspare e l’altro munachicchio, di nome Demetrio, accortisi che l’amica aveva abbandonato il giaciglio, fossero accorsi a perdifiato per trascinarla di nuovo nella grotta, era stata infilata in una rete da pesca, trascinata come un verme fino alla vetta di una carbonaia, infilzata su un palo e bruciata mentre tutt’intorno si recitavano salmi per scacciare quella presenza venuta direttamente dal cratere degli inferi a corrompere le anime e ai vivi far ballare la danza dei morti.
La carbonaia. Psyosis. Se mai Gaspare aveva conosciuto lo sbigottimento del cuore, era stato solamente in quell’occasione. Con quel pensiero che si riaffacciò agli occhi, mentre dava un’occhiata alla quiete del golfo, affrettò ancora il passo e cominciò a correre. Brontolando, ovviamente.
Quando si furono ricomposti e stavano camminando assieme, il sottobosco della sponda di bosco, digradante dolcemente fino al mare, dove la luna posava a brillare il suo disco lattiginoso, lasciò loro intravedere ciò che Baldassarre stava cercando da più di due ore, guardando e riguardando una vecchia mappa, ingiallita e rosicchiata da qualche animaletto, che il druido gli aveva fatto consegnare assieme a un altro foglio.
«Guardate.»
Baldassarre cominciò ad avvicinarsi ad un prato. Un gufo li guardava dal ramo di una roverella, e non si mosse.
«Ecco dove troveremo ciò che ci occorre.»
«Non vedo cibo!» fece Gaspare.
«Ancora con questa storia del cibo! Taci, lordo essere delle solfatare» gli ringhiò Baldassarre, aprendo una piccola sacca di iuta che teneva in spalla per tirarne fuori una piccola zappa, che compose incastrando il manico grezzo di pino con una lama di bronzo.
«Incomincia a scavare, piuttosto.»
Martina Franca, 18 dicembre 2017
Papà, dove sei. Non ti trovo.
Ho paura adesso, papà.
Mannaggia a me, mannaggia.
Ho anche dimenticato il Mio Phone a casa questa mattina assieme alla merenda. Due pasticci ho fatto, mannaggia a me e a quanto sono, come dice sempre papà?, distratto. E poi dice: «Santo cielo, tieni sempre la capa al gioco!»
Questa pietra ghiacciata cos’è… certo, il muraglione. Sui polpastrelli sento i sassolini lisci e il cemento grezzo. La macchia bianca a destra picchia sulla tempia. È il sole e mi sta proprio di fronte. Alla mia sinistra sento le automobili. Mica vanno tanto veloci. Ce ne sono tante una dietro l’altra. Vuol dire che sto camminando sulla panoramica e non mi sono allontanato troppo dalla via centrale. Meno male, mannaggia a me mannaggia, già ho fatto assai un guaio.
Pensa a nonna Berenice quanto sta preoccupata che non mi ha trovato all’uscita di scuola.
Papà, già lo so che quando mi troverai mi sgriderai tantissimo.
Però, ihihih, sono stato troppo furbo. Mi sono infilato in mezzo alle due porte della cancellata come un gatto quando la bidella, anzi no non si dice, la collaboratrice scolastica Anatolia, quella che mi dà sempre la crostatina al cioccolato, stava di nuovo chiudendo dopo che era uscita Demetria poiché era venuta a prenderla la mamma ché teneva assai tosse. Mi dà sempre fastidio questa cosa che all’una metà dei miei compagni tornano a casa e noi veniamo portati a mensa. Ché io là non mangio niente, e a papà un sacco di volte gliel’ho detto che nemmeno la pasta in bianco olio e formaggio sanno fare, me la devo far tagliare con il coltello da Basilio – quant’è buono Basilio – perché le penne si appiccicano tutte, mannaggia a loro mannaggia, e il formaggio puzza proprio di muffa.
Mi sembra uguale a quando io ero piccolo piccolo e papà mi faceva lo scherzo di odorare i piedi dicendo che sapevano di formaggio andato a male.
Io quando sto a mensa mi immagino di essere un selvaggio che vive dentro una caverna. Nel pentolone sul fuoco ci sta a bollire una zuppa che puzza uguale all’odore di brodo che sentiamo appena entro nella seconda sala, quella accanto alle cucine, accompagnato da Medea. Basilio è buono ma Medea è buonissima, l’angelo mio, è arrivata quando ho cominciato a vedere le ombre e le palle di luce bianca e non mi abbandona mai anche quando il maestro Timoteo si mette a scrivere alla lavagna e io non posso leggere quello che fa. Lei me lo ripete tutto quanto, l’angelo mio. E quando mangio mi prende il tovagliolo e me lo sistema per non farmi sporcare la camicia. «Sennò tuo padre dà la colpa a me, e lui tiene tempo solo di fare l’artista, non di lavare le cose». Quando dice queste cose di papà sento che