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Bianco e Nero 100
Bianco e Nero 100
Bianco e Nero 100
Ebook420 pages5 hours

Bianco e Nero 100

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About this ebook

La seguente antologia contiene i miniracconti, i racconti brevi e quelli a capitoli (riveduti e corretti, se necessario) già pubblicati su "Bianco e Nero" e "Bianco e Nero 2", ai quali se ne sono aggiunti altri inediti, per un totale di 122 racconti che spaziano dal romanticismo alla paura, dalla fantasia all'umorismo.
 
 
LanguageItaliano
Release dateFeb 12, 2018
ISBN9788827568460
Bianco e Nero 100

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    Bianco e Nero 100 - Vittorio Tatti

    Bianco e Nero 100

    Antologia di miniracconti, racconti brevi e a capitoli.

    © Vittorio Tatti su copertina e testi.

    Tutti i diritti riservati.

    Vietata la riproduzione, anche parziale, senza esplicito consenso.

    ...

    Toc toc. L'Indifferenza udì un rumore. Di nuovo: toc toc. Stavano bussando alla porta.

    L'Indifferenza andò a vedere chi aveva bussato:

    «Sì? Chi è?».

    Nessuno rispose, così tornò alle proprie faccende domestiche.

    Toc toc. Di nuovo. Toc toc. Ancora.

    «Uff... Ma chi è?», sbuffò.

    Si avvicinò nuovamente alla porta:

    «Chi è? Se non vi presentate, io non apro».

    Nessuno rispose. L'Indifferenza, alquanto infastidita, tornò a pensare ai fatti propri.

    TOC TOC! TOC TOC! TOC TOC!

    L'Indifferenza iniziò ad avere un po' di paura, ma decise comunque di avvicinarsi per l'ennesima volta alla porta:

    «Insomma! Chi è?! Non apro!».

    TOC TOC! TOC TOC! TOC TOC!

    L'Indifferenza, stavolta, non rispose. Rimase muta e immobile, nel tentativo di udire qualche voce al di là della porta. Non la udì.

    La situazione parve essere tornata alla normalità, così l'Indifferenza poté finalmente rilassarsi.

    Dall'altra parte della porta, invece, il Silenzio si allontanò sconsolato: non aveva alcuna voce per far capire, all'Indifferenza, che era tornato da lei.

    A Christmas dream

    Il nostro secondo Natale insieme era stato accolto dal cielo con una leggera nevicata. I fiocchi di sembravano tanti petali bianchi, sparsi da tante mani invisibili. Il parco, a quell'ora, era deserto e potevamo passeggiare indisturbati e in tutta tranquillità. Gli alberi addobbati a festa contribuivano a rendere l'atmosfera magica, ma era la tua presenza a farla diventare incantata. C'eravamo conosciuti su internet, proprio il giorno di Natale. Dopo un anno di promesse, litigi, dubbi e speranze, avevamo deciso di incontrarci proprio il giorno dell'anniversario del nostro primo incontro virtuale. La strada, però, era ancora tutta in salita. Non te l'eri sentita di impegnarti, quindi avrei dovuto fare il possibile per conquistarti quella stessa notte. Ti invitai a sederti su una panchina vicino alla fontana. Essendo ricoperta di neve, dovetti spazzarla via con le mani protette dai guanti di pile. Pur senza la presenza della neve era rimasta umida e gelata, quindi vi appoggiai sopra la mia giacca, per permetterti di sedere con comodità. Non faceva molto freddo ma, in ogni caso, ero scaldato dalla tua presenza. Il tuo sguardo era ipnotizzato dalla nevicata e il rivolo d'acqua che scendeva dall'urna sostenuta dall'angelo di pietra creava un tintinnio simile a quello di un campanellino. Ero molto nervoso, perché un mio gesto errato avrebbe potuto rovinare tutto. In quel caso, non solo non ci saremmo messi insieme, ma avrei rischiato di perdere pure la tua amicizia. Sapendo che eri molto creativa decisi che anche la mia dichiarazione d'amore non sarebbe dovuta essere da meno. M'ispirai a un racconto che a te piaceva molto: A Christmas carol di Charles Dickens. Ricalcando lo stile del suo racconto, avrei dovuto iniziare con il primo fantasma, quello di Marley, il defunto socio di Scrooge che avrebbe dovuto avvisarlo dell'arrivo di altri tre fantasmi. Quel ruolo poteva essere agevolmente interpretato, metaforicamente, dal nostro primo incontro. Trovandoci finalmente faccia a faccia, ci eravamo messi nella condizione di dover fare i conti con gli spettri annidati nei nostri cuori. Quale peggiore persecuzione, se non il recondito timore di essere visti come delle nullità, agli occhi della persona amata?

    Iniziai a rimembrare la nostra prima conversazione virtuale, attraverso internet. Tu, così allegra, gentile, sensibile, stimolante. Io, non proprio un macho, ma sufficientemente interessante, almeno quel tanto che occorreva per catturare la tua attenzione.

    «Ricordi? Mi dicesti che trovavi piacevole quello che scrivevo sul mio blog. Io, a quell'epoca non ero ancora interessato a te. Non ti conoscevo molto bene. E poi avevo un'altra ragazza da dimenticare...», raccontai, rimanendo quasi immobile in piedi di fronte a te.

    Ero assolutamente concentrato su quello che avrei dovuto dire. Temevo che una parola di troppo avrebbe potuto compromettere il mio approccio. Sembrò filare tutto liscio anche se, per un attimo, temetti di aver commesso una svista a citare la mia ex. Furono le tue parole pungenti a darmi quella sensazione:

    «Sì, so benissimo di quell'altra ragazza da dimenticare. Anche solo il fatto che la nomini ancora adesso significa che non l'hai completamente dimenticata. Non è che, in questo momento, vorresti essere con lei anziché con me?».

    Cercai di giustificarmi in qualche maniera, anche se mi resi conto di essermi cacciato in una brutta situazione:

    «Non l'ho dimenticata, è vero. Quello che conta, però, è che il suo ricordo non mi faccia più male. Il solo fatto che te ne parli con naturalezza significa che non ha più alcuna importanza, per me».

    Feci il possibile per esprimersi senza alcuna esitazione, per evidenziare la mia decisione di aver messo definitivamente una pietra sopra il mio passato. Riuscii a cavarmela per il rotto della cuffia e la tua replica me lo dimostrò:

    «Lo so, hai ragione. In realtà anche io avevo un'altra persona da dimenticare, perciò capisco molto bene quello che intendi. Non preoccuparti, so che non pensi più a lei, almeno in quel senso...».

    Il tuo sorriso valse più di mille parole. Avrei tanto voluto ricambiarlo con un bacio, ma sarebbe stato eccessivo in quel momento. Prima di tutto dovevo assicurarmi che anche tu fossi finalmente convinta di procedere alla tappa successiva:

    «Abbiamo iniziato a conoscerci meglio. Abbiamo confessato di esserci innamorati l'uno dell'altra, ma da lì non ci siamo più smossi, se si esclude qualche saltuaria telefonata».

    Quelle parole ti diedero quasi la sensazione di aver subito un rimprovero, perché abbassasti lo sguardo e la tua espressione si fece triste:

    «Lo so, perdonami... Ci è voluto un anno per convincermi che fosse ora di incontrarci. Abbiamo perso tanto tempo, inutilmente».

    Mi sentii in colpa per essermi espresso come non avrei voluto, così cercai di rimediare in qualche maniera:

    «Non abbiamo perso tempo: prima non era il momento giusto, tutto lì. Ascolta, abbiamo litigato, abbiamo fatto pace. Abbiamo fantasticato e sgretolato con le nostre mani i sogni che avevamo iniziato a erigere insieme. Non è stato tutto inutile: è stato tutto necessario per giungere fino a questo istante».

    Pronunciai anche quelle parole con determinazione. Ero sinceramente convinto di quello che stavo dicendo. Nel profondo del mio cuore, credevo fermamente che sia gli eventi negativi sia quelli positivi avevano contribuito a lastricare la strada che ci aveva condotto a quella notte nel parco. Il tuo sguardo ritrovò un po' di sollievo e la tua risposta contribuì a restituirmi un po' di serenità:

    «Grazie».

    Decisi di non rivangare ulteriormente il passato. Ne fummo entrambi protagonisti, quindi non era necessario insistere su questioni potenzialmente pericolose. Dal passato arrivai al presente, per la precisione a quando i nostri sguardi s'incrociarono pochi minuti prima:

    «Ho sognato molto questo istante. Mi sei sempre piaciuta esteticamente, ma fu la tua mente ad aprire una breccia nel mio cuore. Adesso che sei qui davanti a me, mi rendo conto di quanto sia preziosa. Ho detto preziosa? Mi correggo: necessaria. Potrei dirti che, in tua assenza, farei di tutto per innamorarmi di un'altra. Forse riuscirei anche a dimenticarti. Ma nessun'altra mi regalerebbe le sensazioni che sto provando ora, al tuo cospetto».

    Il tuo sguardo incredulo sembrò rapito dalle mie parole. È vero che stavo tentando di fare colpo su di te e, probabilmente, avevi la sensazione che avessi esagerato nell'utilizzare certi termini. Probabilmente il tuo pensiero fisso era chissà se le dice a tutte, queste cose.... Tuttavia era quello che provavo realmente. Avrei dovuto moderarmi e mentire, per non essere considerato troppo spregiudicato? Giammai sarebbe successo. Avevo deciso di aprire completamente il mio cuore e donarti ciò che conteneva: il mio amore. Acconsentisti:

    «Continua, per favore...».

    Quindi ripresi il discorso senza farmi tante inutili paranoie:

    «Ho sempre pensato, dentro di me, che non ti meritassi. Da molti punti di vista siamo diversi, apparentemente incompatibili. Molto spesso trascorriamo il tempo a punzecchiarci, anziché a coccolarci. Se qualcuno ci vedesse da fuori penserebbe ma questi due sono davvero innamorati?. Forse anche io, al loro posto, la penserei nella stessa maniera. Eppure non ti cambierei con nessun'altra. Non m'interessa tirare in ballo destino o caso: percepisco solo la volontà di stare con te».

    Stringesti le tue mani e le sfregasti, forse per il freddo o forse per l'emozione. Avrei potuto darti i miei guanti, ma non lo feci. Me li sfilai e rimasi senza anche io. Poi mi avvicinai a te, mi piegai sulle ginocchia e coprii le tue mani con le mie. Le accarezzai con le dita e le scaldai col mio respiro. Facesti scivolare via dalla mia timida presa la tua mano destra e l'avvicinasti al mio viso. Il contatto con la tua pelle mi fece battere forte il cuore. 

    «Devi dirmi qualcos'altro?», sussurrasti muovendo impercettibilmente le labbra.

    La tua voce candida e leggera come un fiocco di neve, trovò compagnia negli altri che stavano cadendo dal cielo e adagiandosi sulle luminarie appese ai rami degli alberi. L'angelo di pietra ne era stato ricoperto completamente e sembrò essere diventato di neve pure lui. Avrei tanto voluto baciarti, ma prima dovevo concludere il mio piano. Un fiocco di neve s'intromise tra i nostri sguardi, ma tolse subito il disturbo, sciogliendosi per il calore che emanavamo. Non avrei permesso che il nostro amore facesse la stessa fine.

    «Hai guarito il mio cuore ferito e, in esso, hai posato un seme che, col tempo, ha iniziato a germogliare. Non so dire come sarebbe stata la mia vita, se non ti avessi conosciuta. Ma so com'è diventata ora: un miracolo. A realizzarlo è stato il tuo amore. Io... ti amo».

    Rimasi immobile a fissarti negli occhi. Non percepii alcuna reazione in te, così non calcai troppo la mano. Dovevo darti il tempo per metabolizzare quelle parole. 

    Giunse il turno di cimentarmi con il futuro. Fissandoti ancora negli occhi, chino dinanzi a te, iniziai a fantasticare sulla vita che avremmo potuto conseguire insieme, da quel momento in poi:

    «Mi rendo conto di quanto sia prematuro introdurre questo discorso ora, quindi ti prego di considerarlo solo come la dimostrazione della volontà di desiderare di rimanere per sempre con te. Non c'è una spiegazione logica, quando ci si innamora. E ancora di meno c'è quando avvertiamo la sensazione di amare una persona. Succede e basta, non occorre analizzare i sentimenti: bisogna esprimerli. Meriteresti di meglio, me ne rendo conto. Non ho alcun modo di competere, con chi è più bello e ricco di me. Ma, se me ne darai l'opportunità, ti dimostrerò che almeno il mio amore non avrà rivali. Desidero avere una famiglia con te. Il mio sogno più ricorrente è quello dove io e te siamo sposati, dove abbiamo due figli, un maschio e una femmina. Abbiamo anche un cane e un gatto che, per la tua gioia, combinano tanti guai in casa. Litigo spesso con i tuoi genitori ma, tutto sommato, sento che mi accettano e mi vogliono bene. Credimi, ti prego. È la prima volta che ho tanta determinazione in vita mia. Tu, per me, sei l'apice. Sei come una dea giunta sulla terra mortale per donare amore. Diverrò re, perché tu sei regina. Non avrò più paura, perché tu sei il mio coraggio. Il mio cuore batterà per sempre, perché tu sei la mia vita».

    Mi feci coinvolgere eccessivamente da un'inaspettata vena poetica che ti mise in allerta:

    «Quante belle parole... Ma sono solo parole, non fatti. Lo sai, vero? In tanti me le hanno dette, ma poi non si sono dimostrati all'altezza della situazione. Non pretendo molto, ma esigo amore sincero. Tu sarai in grado di donarmelo? Oppure ti accontenterai di conquistarmi e, una volta fatto ciò, mi metterai in disparte, segnandoti il mio nome tra tutte quelle che hai amato?».

    Dovetti resistere all'impulso di alzarmi e lasciar andare le tue mani. Se l'avessi fatto, però, non le avrei mai più potute stringere. Rimasi in silenzio per pochi, ma interminabili e flagellanti secondi. Così come il sangue nelle mie vene, anche il tempo sembrò essersi congelato. La mia mente si svuotò completamente. Non seppi più cosa dire, al contrario di te:

    «Dunque è tutto qui, il tuo amore? Non abbiamo nemmeno iniziato a frequentarci che già temi il nostro futuro? Dov'è finita tutta la spavalderia delle tue parole? È stata messa in crisi dall'incertezza di non avere un discorso già preparato in precedenza?».

    Avvertii come una pugnalata al petto. Sembrò tanto reale che abbassai lo sguardo, per controllare se avessi iniziato a perdere sangue. Mi resi conto, forse troppo tardi, di non aver messo in preventivo la partecipazione del tuo lato razionale. Io l'avevo perso nel momento in cui m'innamorai di te, quindi non riuscivo quasi più a captarlo. Era divenuto come un parente sgradito e rinnegato, allontanato dalla famiglia per non infangarne la reputazione. Ma era sempre rimasto dentro di me, silente. Non dovevo temerlo. Se il mio cuore non ti aveva convinta, sarebbe stata la mia mente a farlo. Tentai il tutto per tutto. Nella mia roulette, al posto del rosso c'era il bianco. Decisi di puntare su di lui, perché nella mia vita c'era stato già abbastanza nero, prima di conoscerti:

    «Cosa vuoi che ti dica? Che con me sorriderai sempre, che non patirai mai la fame e mai e poi mai smetteremo di amarci? Se pensi questo... se credi che io possa garantirtelo, allora alzati e incamminati lontano da me. Non ti arrecherò più alcun disturbo. Le nostre strade si divideranno per sempre. Però renditi conto che, ai tuoi piedi ora, c'è una persona che prova dei sentimenti. Credi che io non abbia paura del futuro? Certo che ce l'ho! Ne ho il terrore! Da quando sei entrata nella mia vita è diventato la mia fobia! Sei presente sia nei miei sogni, sia nei miei incubi: nei primi ti conquisto, nei secondi ti perdo. Piango costantemente lacrime asciutte e silenziose, roventi come scie di lava che sgorgano dal mio cuore. Prima me ne fregavo di tutto. Prendevo la vita come veniva e se fossi morto congelato sotto un ponte, l'avrei trovato addirittura un sollievo. Adesso, invece, amo la vita, solo perché ci sei tu a dividerla con me. Ho paura di perdere tutto, ma ho il desiderio di lottare. Mi dispiace non poterti rassicurare con i fatti. Ho solo delle sterili parole in mio possesso, in questo momento. In verità, posso annunciarti tutto l'opposto: vivrai dei giorni che ti faranno soffrire e pentire di avermi conosciuto. Forse saranno i più dolorosi della tua vita ma, se li supereremo insieme, diverranno anche i più belli. Penso che l'amore sia intenso tanto più è grande la difficoltà superata per giungere a esso. Prometto che farò quanto in mio potere per donarti un sorriso e per restituirtelo, dopo aver asciugato le tue lacrime. Ma non posso fare tutto da solo. Anche io, come te, soffro e sono vulnerabile. Anche io, più di te, ho bisogno di amore nella mia vita. Sei disposta a concedermi il tuo cuore?».

    I miei battiti, al termine del discorso, si azzerarono completamente. Sapevo che, con tutta probabilità, avevo conficcato l'ultimo chiodo sul coperchio della bara ospitante il nostro amore. Non mi restava che confidare nella sincerità dei tuoi sentimenti per me. Non mi facesti attendere molto:

    «Dopo attenta riflessione... anzi, no. In realtà non ho mai avuto bisogno di pensarci. La mia risposta è...».

    La tua voce venne sostituita da uno strano suono metallico. Ti vedevo muovere le labbra, ma non udivo alcuna parola giungere alle mie orecchie. In realtà, quelli, non erano nemmeno i miei occhi. E non mi trovavo nemmeno in un parco, durante una nevicata. Tu non c'eri. Aprii gli occhi e venni abbagliato da un sottile raggio di sole che filtrava tra i buchi della serranda. Scoprii che quel suono, che mai mi era sembrato tanto assordante prima di quel momento, proveniva dalla sveglia del cellulare. Aveva infranto il mio sogno che, con tutta probabilità, sarebbe rimasto tale. Inspirai profondamente, sperando che l'ossigeno prendesse il posto dei ricordi ancora vivi. Il tentativo fallì miseramente. Mi alzai e, come ogni mattina, accesi il computer. In attesa del caricamento del sistema operativo, andai in bagno e misi da mangiare al mio gatto. Stranamente, lui, aveva deciso di rimanere sul letto, a dormire. Dopo dieci minuti tornai a sedermi sulla sedia imbottita, con il computer pronto a eseguire i miei ordini. Mi collegai a Internet, ma tu non eri ancora presente. Appoggiai i gomiti sulla scrivania e misi la testa tra le mani, sfregandomi i capelli. Quel sogno era ancora così vivido che mi diede l'ispirazione per scrivere un racconto da farti leggere. Ma non ebbi il tempo di aprire il processore di testi, perché tu comparisti appena cinque minuti dopo di me. Come nel sogno, era il giorno di Natale. Come nel sogno, eravamo innamorati. A differenza del sogno, però, non c'eravamo ancora incontrati di persona. Ti salutai come solo le fredde parole scritte in un computer potevano fare, anche se a digitarle furono mani rese calde da un cuore che batteva per te. Sarebbe stato un giorno come un altro, se tu non mi avessi anticipato per raccontarmi una cosa che ti era successa mentre dormivi:

    «Non ci crederai mai, ma ho fatto un sogno stranissimo. Io e te eravamo in un parco, durante una nevicata...».

    A Christmas nightmare

    Nella casa del piccolo Diego, le luci si stavano spegnendo per accogliere la mezzanotte in religioso silenzio: presto Babbo Natale sarebbe giunto per portare doni a tutti.

    «Mamma, ma sei sicura che un biscotto e un bicchiere di latte vadano bene?», domandò dubbioso il bambino.

    La madre, che veniva da una tradizione ormai consolidata in famiglia, lo rassicurò:

    «Sì, stai tranquillo. È usanza, lasciare questo piccolo omaggio accanto alla stufa, così Babbo Natale potrà rifocillarsi, dopo il lungo viaggio».

    «Allora va bene! Corro a dormire! Buonanotte!», esclamò con vibrante eccitazione Diego.

    Salutò la madre, poi il padre, poi i nonni e andò a dormire, visibilmente in ansia per l'atteso regalo. La quiete avvolse l'accogliente dimora, mentre all'esterno della casa un tintinnio di campanelli iniziava a inaugurare la magica notte di Natale.

    «Uff... ogni anno sempre la stessa pallosa storia. Mai che mi diano un aiutante! Mai un mezzo a motore più veloce! Voglio andare in pensione!».

    Babbo Natale scese con la slitta in mezzo alla strada, dal momento che il tetto della casa di Diego era troppo in pendenza. Parcheggiò in seconda fila, ma venne subito redarguito da un vigile urbano:

    «Senta, lei! Sì, dico a lei! Non può lasciare il mezzo in seconda fila, tra poco passerà la processione. La sposti, o la faccio rimorchiare».

    Sconcertato per quel rimprovero, Babbo Natale accampò qualche scusa, perché non poteva perdere ulteriore tempo:

    «ma veramente io sarei Babbo Natale e dovrei...».

    Inflessibile, il vigile urbano lo minacciò mostrando il blocchetto delle multe:

    «Senta, può essere pure il Papa: se non ha un permesso, qua non può stare! E comunque, mi mostri un po' i documenti...».

    Babbo Natale, che non aveva mai viaggiato con il passaporto, si trovò spiazzato da quella richiesta. Mimò il gesto di cercare qualcosa in tasca, ma la sceneggiata durò poco. Il vigile, dopo aver dato una rapida occhiata alle renne, si stava sincerando del contenuto del sacco che racchiudeva i regali per i bambini:

    «Ascolti, questi animali mi sembrano un po' denutriti, sa? Dovrò avvisare la protezione animali. E qua dentro, cosa c'è? Pacchi? Cosa contengono? Lei non mi convince: mi mostri i documenti e si levi quella barba finta, intanto chiamo i carabinieri».

    Babbo Natale non poteva permettere che il proprio nome venisse macchiato dall'infamante accusa di terrorismo, così spiccò un balzo sulla slitta e, dopo aver mostrato il dito medio al vigile, sloggiò rapidamente. Il rappresentante della legge chiamò i rinforzi, ma fu troppo tardi, perché Babbo Natale si volatilizzò in un istante.

    «Ma che cazzo! Quando tornerò a casa, i folletti mi sentiranno! L'ho detto e ripetuto mille volte: chiedete i permessi! Ma no! Loro: Tu sei Babbo Natale, non hai bisogno di permessi! Un paio di palle!», borbottò nervosamente l'ormai esausto lavoratore esodato.

    Costretto dalle circostanze, decise di rischiare e scese con la slitta sul tetto della casa di Diego. Si avvicinò al piccolissimo comignolo, ma si accorse subito di un problema:

    «Perfetto! Questi infami non hanno il camino! Come cazzo entro, ora?! Vabbè... forse hanno lasciato una finestra aperta, per me».

    Babbo Natale, cercando di recuperare il controllo delle proprie emozioni, scivolò lungo la grondaia. Maledicendo la propria assenza d'agilità, si calò con cautela su un terrazzino: la finestra era chiusa.

    «Porc...», sbuffò, «E adesso? Non posso di certo rompere il vetro della finestra... Ahhh, povero me! Mi tocca di nuovo fare quella cosa...».

    Salì nuovamente sul tetto e poi, servendosi della slitta, si avvicinò al marciapiede. Raccomandò alle renne di salire nuovamente, per non essere viste dal vigile urbano, poi cercò di mimetizzarsi al meglio tra le ombre della notte. Il vestito rosso, però, risaltava così tanto che richiamò l'attenzione di una passante. Era una ragazza che, un po' intontita per aver bevuto qualche birra di troppo con le amiche, stava rientrando a casa:

    «Bello quel vestito da Babbo Natale... Io sono vestita da Befana... Nessun ragazzo mi vuole, ho trascorso la notte con le mie amiche, ma io voglio scopare!».

    Babbo Natale, che era in astinenza da un po' di tempo, cercò di indirizzare la discussione sull'argomento sesso:

    «Senti, bella passera, dimmi la verità: non vuoi vedere cosa c'è sotto questo costume? Modestamente, il vestito non è così largo solo per la pancia, ma anche per contenere un'altra cosa. Non so se mi spiego...».

    Dopo averle fatto l'occhiolino, lei lo liquidò con freddezza:

    «Vabbè che sono sola, ma non sono mica così disperata da andare con un pervertito! Sai che ho quattordici anni?! Porco! Maiale! Ora chiamo la polizia!».

    Babbo Natale, che aveva già alle calcagna vigili e carabinieri, decise di darsela a gambe, nascondendosi in un vicoletto, ma non dopo aver imprecato nei confronti della ragazzina:

    «Se sei così giovane, non dovresti bere! E non dovresti essere ancora in giro, da sola, a quest'ora della notte! Maledetta generazione d'irresponsabili! Però, era una gnocca niente male...».

    Ansimante per tutto lo stress che stava accumulando, fece il giro dell'isolato, per sbucare nel retro della casa di Diego. Con inaspettata fortuna, scoprì che c'era una porta anche sul retro. Bussò: nessuna risposta. Bussò ancora, con più insistenza: silenzio assoluto. Bussò ancora e ancora, fino a quando si accesero, nell'ordine, prima la luce interna, poi quella esterna. La porta venne aperta dalla visibilmente assonnata madre di Diego:

    «Ma chi è lei? Non sa che ore sono? È per caso ubriaco? E cosa ci fa, con quel ridicolo costume? Ah... oh! Mi scusi! Lei è il Babbo Natale! Prego, si accomodi».

    Babbo Natale entrò, un po' imbarazzato e un po' perplesso: perché la madre di Diego aveva detto il Babbo Natale?

    Dopo averlo fatto accomodare, la donna andò a prendere il biscotto e il latte che il figlio aveva preparato per lui. Cercò di sbrigare al più presto quella pratica, perché voleva tornare a dormire:

    «Ecco a lei, signore. Certo dev'essere dura questo lavoro, eh? Ma a dire il vero, sapevo della processione, ma non che avrebbero mandato anche dei Babbo Natale nelle case. Comunque, mangi il biscotto e beva il latte, così poi metto il regalo per mio figlio sotto l'albero».

    Ecco svelato l'arcano: era stato scambiato per un Babbo Natale a tempo determinato. Quel discorso l'aveva sconsolato, ma poi si ricordò che, per entrare in casa, era stato costretto a bussare alla porta, quindi scelse di tacere sulla propria identità. Agguantò il biscotto ricoperto con scaglie di cioccolato, per tentare di dare almeno un po' di piacere al palato, ma poi lo sputò nel lavandino:

    «Mi scusi, ma perché questo biscotto è umido?!».

    La donna cercò di trovare una risposta a quella domanda, ma non ci riuscì. Poi, accorgendosi che il cane la stava fissando con un'espressione colpevole, giunse all'inevitabile conclusione:

    «Oh no! Credo che sia stato leccato dal cane! Mi spiace, sono mortificata! Beva un po', così si sciacqua la bocca».

    Passò il bicchiere di latte a Babbo Natale, il quale lo lasciò cadere a terra dallo spavento:

    «Ma questo è latte! Io sono intollerante al lattosio! Ma che cazzo mi ha dato da bere?!».

    La donna, infastidita da quel linguaggio volgare, s'irritò e invitò Babbo Natale ad accomodarsi fuori casa. Lui non se lo fece ripetere due volte. Richiamati da quelle voci, accorsero in massa vigili urbani, carabinieri e poliziotti: stavano tutti puntando le proprie pistole in direzione di Babbo Natale. La madre di Diego, impaurita da quell'assembramento di forze, chiuse con vigore la porta, spense la luce e, prima di tornare a dormire, mise il regalo per il figlio sotto l'albero. Il bambino non s'era accorto di nulla e stava continuando a sognare il momento di scartare i regali, ignaro che Babbo Natale avrebbe avuto qualche impedimento a compiere il proprio dovere. Di lì a poco, una raffica di colpi ridusse, come un colabrodo, il corpo dell'uomo in rosso.

    «Stooop! Ok, la scena è buona! Dieci minuti di pausa per tutti!», annunciò il regista, con il megafono che, dato il logoramento, iniziava a gracchiare frasi senza senso.

    Il film A Christmas nightmare sarebbe stato un successo planetario, senza precedenti. Rivisitare, in chiave splatter, il Natale l'avrebbe portato sull'Olimpo dei migliori registi del mondo.

    «Certo che il nostro regista è davvero cinico, vero?», chiese scherzosamente lo sceneggiatore, rivolgendosi al resto della troupe.

    Il regista, senza nascondere l'espressione malinconica che sempre lo rappresentava, replicò istintivamente:

    «non sono io, a essere cinico: è il Natale, a non avere alcun valore reale».

    Nel set cinematografico, piombò una fitta nebbia. Nessuno si azzardò a rispondere a quella battuta che, per quanto gelida fosse stata, inglobava in sé tutte le emozioni del regista.

    «Su, riprendiamo! Mettetevi tutti in posizione!», ordinò con tono autoritario, mentre ripensava a quando, da bambino,  uccise con le proprie mani un Babbo Natale che aveva cercato di stuprare la propria sorellina.

    A cuore aperto

    La batista era una complessa e altamente invasiva operazione chirurgica a cuore aperto, che prevedeva la correzione di una disfunzione cardiaca chiamata cardiomiopatia dilatativa. In quel caso, le pareti del cuore erano talmente deboli che, anziché pompare il sangue, si gonfiavano, impedendo di fatto al sangue di circolare. La mortalità era molto alta e, in assenza di alternative come il trapianto, vennero introdotte varie pratiche nel tentativo di aumentare l'aspettativa di vita dei pazienti, tra le quali la batista. A eseguire l'intervento sarebbe stato una giovane promessa della chirurgia: Valerio Terenzi. La paziente, Letizia Bilancia, era l'ex fidanzata di Valerio, che lui stesso aveva lasciato dopo una violenta lite verbale. Le aveva spezzato il cuore e adesso, per ironia della sorte, le avrebbe dovuto riparare l'altro, quello fisico. Tra i due c'era ancora amore ma, per futili motivi d'orgoglio, avevano deciso di rimanere separati. Erano trascorsi già sei mesi da quel giorno ma, nel frattempo, nessuno dei due era riuscito a farsene una ragione. Avrebbero tanto voluto riappacificarsi ma, a causa dell'intervento chirurgico già programmato, avevano deciso di comune accordo di riparlarne in seguito, in modo da mantenere un certo distacco emotivo. Il chirurgo Valerio, tuttavia, sembrava aver perso tutto il proprio sangue freddo. Se avesse commesso anche un piccolo errore, non sarebbe morta una paziente qualsiasi ma la donna che amava. Un ragionamento indegno per chi aveva pronunciato il giuramento di Ippocrate ma, senza dubbio, coerente con il pensiero di un uomo innamorato. Letizia si era addormentata da poco, per via del sevoflurano che l'anestesista le aveva fatto inalare. Le infermiere erano pronte ad assistere il chirurgo in ogni sua azione. I tirocinanti e il primario stavano assistendo all'intervento grazie a una sofisticata microcamera installata sul lampadario che illuminava il torace aperto. Il primo team, che si era occupato di preparare la paziente per la fase operatoria, si stava riposando nella stanza dei turnisti. Sarebbero stati richiamati per il terzo atto: richiudere il torace. Sia in caso di successo che di fallimento. La tensione era alta, perché tutti erano al corrente della relazione tra Valerio e Letizia. Era la coppia ideale: lui chirurgo, lei pediatra. Prestavano servizio nello stesso ospedale e, nonostante i turni massacranti, riuscivano sempre a ritagliare uno spazio di tempo tutto per loro. Almeno prima del litigio. Agli occhi degli colleghi, apparivano come due dodicenni alla loro prima cotta. Tutti speravano che si rimettessero insieme, perché era una piacevole sensazione vederli camminare mano nella mano. E proprio le mani di Valerio sorreggevano i due cuori di Letizia. Da lui sarebbe dipeso non solo il futuro di Letizia ma anche il proprio, perché desiderava tanto continuare il resto della propria vita con la donna che amava accanto a sé. 

    Era madido di sudore. Il bisturi tremava pericolosamente. Fu costretto a fermarsi e a riprendere fiato. Si tolse la mascherina per un istante, per respirare meglio. Chiuse gli occhi, per ripensare a quando lui e Letizia si conobbero. Si trovavano nella biblioteca dell'ospedale, non per consultare chissà quali complicati testi medici ma solo per leggere fumetti e riviste sportive. Era il loro modo per distendersi, per fuggire un attimo dalla tensione della professione. Paradossalmente, l'uomo abile con le mani era incapace di disegnare ma amava i fumetti, mentre la donna tranquilla e placida era appassionata di sport estremi. Due opposti che cercavano qualcuno che compensasse la loro incoerente personalità. Fu Letizia ad accorgersi per

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