Le primavere di Praga
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Ludovica, già studiosa di letteratura e politica in pensione, torna nella capitale ceca dopo una quarantina d’anni da quando ci aveva abitato in gioventù, alla ricerca di un vecchio amico. I suoi ricordi, le sue impressioni e soprattutto le sue riflessioni fanno di questo romanzo (ambientato in un “non tempo”, ma in un luogo molto preciso) uno specchio analitico sulla nuova migrazione giovanile, oltre che una guida storica e aneddotica della città.
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Book preview
Le primavere di Praga - Riccardo Burgazzi
Copyright
LE PRIMAVERE DI PRAGA
Riccardo Burgazzi
Copyright © 2018, Prospero Editore, Novate Milanese (MI)
Prima edizione: febbraio 2018
ISBN: 978-88-98419-85-7
ISBN cartaceo: 978-88-98-41974-6
www.prosperoeditore.com
info@prosperoeditore.com
www.facebook.com/ProsperoEditore
Collana: Prospero romanzi
Grafica di copertina: Francesco Ravara
Immagine di copertina: Ken Nesh
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali.
Questo eBook contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito senza l'autorizzazione dell'editore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce una violazione dei diritti dell'editore e degli autori (legge 633/1941 e successive modifiche).
Tavola dei Contenuti (TOC)
Copyright
INDICE
1. Tatranky
2. Praga maledetta
3. Malombra e rassegnazione
4. Resteresti senza parole
5. Portava le scarpe da tennis
7. Belle Époque
8. Prendi e leggi
9. Michele
10. Ver sacrum
Epilogo
A parte la storia, i personaggi e i dialoghi,
in questo libro non c’è nulla di inventato.
1. Tatranky
Allora io vengo qui. Mi scelgo un albergo e vengo qui. Me lo scelgo io, non chiedo al mio assistente. E il mio assistente lo chiamo assistente, non portaborse, perché di fatto lui assiste. Alle riunioni alle telefonate alle conferenze: lui assiste, non mi porta le borse. Io le borse me le porto da sola. Così come mi scelgo gli alberghi: sono sempre stata brava a scegliermi gli alberghi o gli appartamenti. E non vedo, poi, perché far scegliere a qualcun altro il posto dove dovrò dormire io: nemmeno la persona più impegnata del mondo dovrebbe delegare una cosa del genere, significa che non è più padrona del suo tempo. E se questo è vero in generale, lo è soprattutto quando decido di venire qui. Ecco, in questi casi sì che è utile avere un assistente: deve spostarmi gli appuntamenti, deve chiedere scusa, deve inventare scuse. Anche balle, se necessario: raccontate bene, dissimulando con naturalezza. Per questo ho scelto un assistente uomo.
Quando vengo qui, non so per quanto tempo mi fermo. Quindi mi porto una valigia grande. D’accordo, non è vero: la valigia grande me la porto sempre, anche quando devo star via due giorni. Be’, così sembra quasi che sia una quarantenne ricca e viziata, ma non è così: posso disporre del mio tempo perché sono in pensione. Ho degli impegni, ma sono in pensione. Impegni in cui credo davvero, che mi appassionano; sono cose anche importanti, se proprio vogliamo dirla tutta... però non mi sono occupata solo di politica, nella vita, ma anche di letteratura. Non sono sdolcinata, non sono romantica, maldigerisco poesiole e stucchevolezze varie; ma che volete: mi considero innanzitutto una lettrice. E una lettrice ogni tanto ha bisogno di silenzio, di isolarsi un po’, di guardarsi dentro e indietro. Allora io vengo qui.
Praga per me è come una bolla. Come una di quelle bolle con dentro il castello o ponte Carlo o la torre dell’orologio: quelle bolle piene d’acqua che le giri, poi le rigiri e scende la neve. Praga è una grande, grandissima bolla, che contiene tutti i suoi monumenti, tutto il suo fiume, tutte le sue periferie e le sue colline. Tutto in silenzio. Perché Praga, come le bolle, non si cura delle persone che la abitano: si limita a contenerle tutte con indifferenza. E loro ricambiano. In inverno ogni tanto si gira e fa scendere la neve. In estate si rigira continuamente tra nuvole e sole: un via-vai così rapido da farla sembrare impaziente; ma le dura poco: poi torna indifferente. Indifferente e silenziosa. E io ho bisogno di un nuovo silenzio. E quando ho bisogno di silenzio, allora vengo qui.
A rileggere quello che ho scritto, sembra che venga qui spesso. Non è vero. O meglio, era vero. È stato così per molto tempo: venivo qui anche due, tre volte l’anno. È stato così finché c’era Michele. Ora però saranno venti, trenta, quarant’anni che non vengo; non lo so più nemmeno io, non voglio contarli.
Parlo al presente, ma vengo in cerca di passato. Del mio passato. Mi scelgo io l’albergo perché so benissimo dove andarmelo a prendere: dev’essere vicino a Náměstí Míru, al massimo a I.P. Pavlova. E questo solo perché non ce n’è uno su Italská. Perché io la città la vedo, la giro, la ricordo, a partire da Italská, che è una via abbastanza vicina a tutto: al centro, ai mezzi, alla quotidianità. E poi Italská è a due passi dalla metro verde e sulla linea verde c’è la fermata dove arrivano gli autobus che vanno e vengono dall’aeroporto e i mezzi di trasporto di questa città funzionano benissimo e non ho nessuna intenzione di prendere un taxi: io arrivo all’aeroporto con la mia grossa valigia nera, il mio zainetto, la mia borsetta, prendo l’autobus, poi la metro e infine vado a piedi al mio albergo. Era così quarant’anni fa, era così vent’anni fa, è così adesso.
Vengo qui con una compagnia aerea low-cost dagli aeroplani di colore viola, che odio. La odio perché è assurdo cercare di guadagnare due lire in più imponendo ai passeggeri di portare un singolo bagaglio: sanno benissimo che c’è sempre qualcuno che sbaglia peso o misura. Ed è assurdo soprattutto nei confronti delle donne, perché la borsetta per una donna è fondamentale. Anche per una femminista. Ho bisogno di avere a portata di mano le mie cose: giro sempre con almeno un paio di libri e i fazzoletti e gli occhiali e il portafogli e la bottiglietta dell’acqua e... insomma, è una questione di principio. Allora, anche se ho spazio nello zainetto, mi presento al check-in con la borsetta al braccio e, da dietro ai miei occhiali da tartaruga, sorrido all’impiegato. Sorrido con cortese fermezza. Il mio sguardo lo minaccia: Dai, su: dimmelo che posso portare solo due articoli.
Ci casca. Lo fa. Allora mi fingo perplessa, estraggo dalla borsa il quotidiano e lo appoggio sul suo bancone.
– Signora, cosa fa?
– Come, cosa faccio?! Scelgo l’articolo da portare. Ha delle forbici? Non mi va di strapparlo, sa...
– Signora, intendevo zaino e borsetta.
– Ma se ha detto articoli
!
– Signora, sta facendo allungare la fila.
– Be’, un po’ di pazienza: non l’ho ancora guardato tutto, come faccio a scegliere l’articolo?
– No, signora. Le ho detto che borsetta e zaino sono due articoli.
– Borsetta e zaino sono borsetta e zaino!
– Signora, c’è la fila...
– Allora, me le dà lei queste forbici o chiedo a qualcuno della fila?
– Senta, signora... vada, vada pure. Guardi, però, che prima di salire a bordo deve mettere la borsetta nello zaino.
– Mettere la borsetta nello zaino?! Ma non ha senso, altrimenti perché li avrei portati?
– Certo, vada pure, signora.
– Il giornale posso tenerlo, allora?
– Sì, può tenerlo.
– Che caro, ma grazie!
Non mi vergogno di far figure. Ho tempo da perdere: sono in pensione, mi tolgo i miei sfizi! Non temo nemmeno di essere riconosciuta: sono stata una politica importante, è vero, ma non andavo in televisione. Ora più che altro collaboro con alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, ma ho ancora bisogno di un assistente, perché mi invitano sempre a destra e a sinistra. A destra poco, per la verità. Sono stata Vicepresidente del Parlamento Europeo. Non mi conoscete perché nessuno conosce la Vicepresidente. Però ho tanti contatti qua e là. Tanti contatti e tanti amici: per i primi mi serve l’assistente, ai secondi ci penso io. E a Praga i miei amici abitavano tutti abbastanza vicino a Italská.
Volare low-cost permette di osservare e identificare diversi gruppi umani. Lavoratori o residenti: sanno tutto, non hanno bisogno di spiegazioni, non parlano, agevolano con esperienza il lavoro del personale di bordo. Scolaresche in gita: non sanno nulla, hanno bisogno di continui richiami, urlano, rendono impossibile con entusiasmo la vita agli altri, specialmente quella del personale di bordo. Poi ci sono varie categorie intermedie: vecchi rimbambiti in gita di gruppo, coppie innamorate, coppie disinnamorate, gruppi di addio al celibato (ne ricordo con simpatia uno, formato da ragazzi che indossavano tutti la stessa maglietta con una scritta che da lontano poteva sembrare cecoslovacche
, da vicino diventava cerco solo vacche
; pessimo, lo so, ma in questa categoria si toccano spesso vette di uno squallore assai più notevole). Dev’essere un lavoro duro quello del personale di bordo low-cost. Se non altro, da quando sono stati introdotti i posti a sedere numerati, sono cessate le corse, gli spintoni, le scene di maleducazione più bieca. Certo, restano le battute di sempre, trite e ritrite, sull’incomprensibilità delle lingue slave, sulle dimostrazioni delle misure di sicurezza, sui problemi di vista del popolo ceco.
Arrivo a Ruzynĕ (l’aeroporto della capitale ceca, intitolato a Václav Havel) con la mia borsetta, il mio zaino e la mia punta d’indignazione per quegli italioti che gridano kurva
a ogni angolo di corridoio in cui vedono passare una ragazza, tutti fieri di condividere una recente e banale scoperta lessicale, arrivo al nastro dei bagagli. Il nastro dei bagagli mi mette ansia: esce o non esce? Esce, non esce, esce esce, ora esce. Non esce. Eh, scusate, ma a me è già capitato che la valigia non arrivasse: non è una cosa simpatica. Sono già uscite parecchie valigie. Parecchie. Adesso esce. Non esce. La vecchiaia infonde molta tranquillità: da quando sono in pensione sono più serena, ma non davanti a un nastro trasportatore. Non esce, diamine. No, non sarà una cosa simpatica; non lo è da nessuna parte, lo sarà men che meno a Praga! Non so se avete presente la proverbiale subdolerìa degli impiegati cechi: insomma, questo è il paese di Kafka:
«Non mi è arrivata la valigia.»
«Non le è arrivata la valigia?»
«No: doveva arrivare su quel nastro, ma non c’è...»
«Quel nastro? Quello là? Forse dovremmo chiedere al responsabile di quel nastro. Si ricorda il numero?»
«No, non mi ricordo il numero del nastro; ma è quello là!»
«Quello là, va bene signora. E perché non le è arrivata la valigia? Forse è questo il punto, non crede?»
Ecco. Lo sapevo. Mi faranno sentire in colpa. E sono pentita, ma non lo darò a vedere: resterò impassibile. Resterò impassibile, perché sono innocente. Allora l’impiegato mi guarderà di sottecchi altrettanto impassibile:
«A lei non è arrivata la valigia, non si ricorda il numero del nastro e non sa perché. Vuole aggiungere altro?»
«Era una valigia nera.»
«Una valigia nera.»
«Era grande»
«Grande.»
Perché ripete le cose che dico guardandomi in quel modo? Con quell’espressione vacua. Vacua, indifferente e accusatoria. Perché non mi è arrivata la valigia? Forse era troppo grossa. Cavolo, perché mi sono portata una valigia così grossa?
«Esatto, signora. Era davvero necessaria una valigia così grossa?»
Non rispondo.
«Ora io dovrò mettermi a cercargliela, signora. Lo sa?»
Ha ragione. È il suo lavoro, ma ha ragione. Se li costringi a lavorare, gli impiegati cechi sanno davvero farti pesare la pena alla quale li condanni.
No, eccola là. La valigia c’è: esce ora, la vedo. Adesso l’ansia è di un altro tipo: riuscire a prenderla senza barcollare, perdere l’equilibrio, fare figure. C’è una bambina che corre a zig-zag tra la gente che aspetta a bordo nastro. L’avevo già notata prima, durante la mia ansia da probabile colloquio con impiegato ceco. Ha in mano qualcosa, forse una merendina, che usa a mo’ di bacchetta magica, scagliando incantesimi in direzione dei vari passeggeri.
La valigia sta arrivando. Una voce chiama la bambina. Una voce che viene dal nastro vicino al mio, da una ragazza bionda che sta caricando valigie su un carrello. Che mamma giovane che hai, bambina. Un ragazzo, vedendola afferrare un bagaglio, accenna una breve corsa e le va incontro. È gentile: le prende un bagaglio e glielo mette sul carrello. La bambina si ferma e resta a distanza... il tizio accanto a sua madre non è gentile, è un cretino: si sta solo mettendo in mostra davanti ai suoi amici. E gli amici, a turno, gli vanno dietro.
Il mio bagaglio arriva e passa mentre, dentro di me, sento partire la base di Back in black. Mi spingo gli occhiali in cima al naso con l’indice, premendo la montatura su guance e sopracciglia; poi, mani sui fianchi, marcio decisa verso il gruppo, lasciandomi alle spalle la valigia a girare sul nastro. Appoggio due dita, piano, sulla schiena della bambina, che mi guarda senza dir nulla. Sposto la mano in avanti offrendogliela e volgendo lo sguardo verso sua madre. La afferra. Andiamo.
Il primo dei ragazzotti, vedendomi con la bambina, fa cenno a un secondo di smettere di bofonchiare frasi di circostanza in un pessimo inglese e con un agitato gesticolare di mani e braccia (manco fosse Dario Fo) che altro non ottengono se non disorientare e spazientire la giovane.
– Ehm, ehm – m’impiccio porgendo la mano della bambina alla madre – che bravi ragazzi! Aiutate la signora con le