I Pacini e la manifattura del ferro nel Pistoiese
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Book preview
I Pacini e la manifattura del ferro nel Pistoiese - Paolo Migliorini
633/1941.
PARTE I
FERRO, BOSCHI E ACQUA
DALL’ ISOLA D’ELBA
ALL’APPENNINO PISTOIESE
Prologo
Mi par d’esser con la testa
In un’orrida fucina
Dove cresce e mai non resta
delle incudini sonore
l’importuno strepitar
Alternando questo e quello
pesantissimo martello
fa con barbara armonia
muri e volte rimbombar.
E il cervello poverello
già stordito, sbalordito
non ragiona, si confonde,
si riduce ad impazzar.
(da: Il barbiere di Siviglia
, finale Atto I)
« Nella ferriera il babbo mi portava qualche volta, ma eccezionalmente. Devo dire che anche lui non ci andava molto; ogni tanto, per dare un’occhiata a come andavano le cose. Diceva che la ferriera andava da sé
. Io sotto sotto desideravo che mi prendesse con sé, per mano, per quanto, già lo sapevo in precedenza, una volta là dentro, mi veniva una gran voglia di scappare. Ma era un’emozione che aveva anche per me il suo fascino. Appena richiusa la porta dietro di noi, eravamo aggrediti da una violenta ondata di calore e da un rumore assordante che mi faceva tappare istintivamente gli orecchi. Nel grande stanzone, più lungo che largo, c’era una lunga fila di magli a poca distanza l’uno dall’altro. Quei magli, che rivedo ancora chiaramente, erano macchine alte il doppio di un uomo e forse più, fatte di una grossa mazza di ferro massiccio che andava su e giù, su e giù in continuazione, e quando andava giù, batteva con tutta la sua forza, come un grossissimo martello, sopra l’incudine che stava sotto. Nelle fila c’era ogni tanto una cosiddetta fucina, che era una specie di fornello enorme dove ardevano dei grossi pezzi di carbone. Su questi carboni parecchi uomini scamiciati e sempre grondanti sudore, mettevano a scaldare grossi pezzi di ferro che tenevano in mano con delle lunghe molle. Ce li tenevano finché il ferro diventava rosso poco a poco. Allora ritiravano le molle e tornando con gran sveltezza fino al maglio, appoggiavano il pezzo di ferro arroventato sopra l’incudine. Lì, sotto i colpi tremendi della mazza, lo giravano e rigiravano in tutti sensi finché quel mozzicone di ferro incandescente, così massacrato, non aveva acquistato la forma che volevano loro. Acquistata la forma, sempre tenendolo con le molle, lo tuffavano in una gran vasca d’acqua, sollevando un fischio e una gran nuvola di vapore. Anche una volta uscita di là, quei colpi implacabili mi rimanevano a lungo negli orecchi, e nel pensiero mi rimanevano quei poveri pezzi di ferro rovente, che le stelle le dovevano vedere davvero, tante stelle color fuoco, quante da essi si sprigionavano per poi spengersi rapide nell’aria. Era bellissimo, ricordo, lo spettacolo delle faville, ma non si poteva stare a lungo a guardare per il caldo e il frastuono. Pareva di essere all’inferno ».
Con queste parole Lidia Pacini ( la madre dell’A.), nata a Pistoia nel 1904, rievocava, in un suo racconto scritto all’età di settantasei anni, l’impressione che le faceva la ferriera di Capostrada quand’era bambina e suo padre Ignazio la portava con sé a visitare l’officina di famiglia. A quell’epoca Lidia Pacini doveva avere all’incirca sei anni. Una decina di anni prima, e precisamente nel 1900, era morto il suo nonno, il cav. Tranquillo, che fu l’ultimo vero padrone della ferriera. Di padre in figlio, almeno sei generazioni di maestri fabbri della famiglia Pacini si erano succeduti nelle conduzione della ferriera, a partire dalla metà del Seicento, epoca in cui la Toscana era ancora governata da uno degli ultimi Medici, Ferdinando II.
Ma ai primi del Novecento questa lunga catena si interruppe. Nessuno degli eredi di Tranquillo Pacini – i quattro figli maschi Gioacchino, Egidio, Ottaviano e Ignazio – poté o volle seguire le orme degli antenati nella gestione della ferriera, che di lì a qualche anno chiuse i battenti.
Per quale motivo quest’importante stabilimento, che alla fine dell’Ottocento era arrivato ad occupare un centinaio di persone, fu costretto a cessare ogni attività? Ma, prima di porsi questa domanda, è forse il caso di chiedersi: come si spiega lo straordinario sviluppo dell’industria del ferro, tra il Seicento e la fine dell’Ottocento, nel Pistoiese, zona notoriamente sprovvista di minerali di ferro?
Come attesta Giuseppe Tigri tanto in Pistoia che nel suo territorio settentrionale la manifattura del ferro vi è esercitata da tempo immemorabile per mezzo delle acque correnti che scendono dai monti superiori…e fino ab antico la città ebbe fama nella fabbrica delle armi. Mutati poi, nelle arti della guerra, gli strumenti di distruzione, le armi da fuoco, dette pistole, presero nome dai pistoiesi fabbricatori
(G:Tigri, Pistoia e il suo territorio
, 1853).
Il più importante fattore di localizzazione va ravvisato quindi nell’abbondante disponibilità di energia idraulica, fornita da numerose gore (canali artificiali) derivate dai corsi d’acqua Ombrone e Brana, in particolare nel territorio suburbano della Porta al Borgo. Nello stemma sovrastante questa porta è rappresentato il fiume Ombrone, che scorre da quelle parti, scendendo dalle montagne pistoiesi e dirigendosi verso l’Arno, nel quale confluisce nei pressi di Signa. Derivazioni dell’acqua dall’Ombrone tramite gore e bottacci (bacini di raccolta dell’acqua) permettevano di ottenere il dislivello necessario per far muovere con un salto d’acqua i congegni meccanici della ferriera: ruote e ingranaggi che azionavano magli, mantici e fucine. In epoche in cui le macchine a vapore e l’elettricità erano ancora di là da venire, l’energia idraulica era l’unica forza motrice disponibile.
L’altra fonte di energia essenziale per il funzionamento delle ferriere era il carbone di legna, reperibile in abbondanza e a buon mercato nella montagna pistoiese.
Mancava invece nel territorio pistoiese la materia prima fondamentale dell’industria siderurgica: il minerale di ferro. Pertanto le ferriere del Pistoiese utilizzavano come materia prima minerale di ferro estratto dai giacimenti dell’isola d’Elba, dopo che questo era stato trasformato in blocchi di ghisa nei lontani forni maremmani di Follonica, Cecina e Valpiana. La ghisa elbana veniva chiamata ferraccio
: un nome in un certo senso spregiativo, perché nei primi tempi fu considerata come ferro imperfettamente depurato del carbonio per cattivo andamento del forno, e quindi vista come un prodotto di scarto. La ghisa doveva quindi subire un ulteriore lavorazione nelle ferriere, dove veniva affinata, cioè depurata del carbonio e ridotta in ferro malleabile, o sodo
.
I vari passaggi della lavorazione del minerale elbano sono efficacemente riassunti con queste poche parole da Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, nono Granduca di Toscana dal 1765 al 1790, nelle sue Relazioni sul governo della Toscana
(1790):
"la vena (minerale di ferro) si trasporta per mare da Rio nell’Elba ai forni fusori della Maremma; qui gli si dà una prima lavorazione, si trasporta poi alle ferriere della