Felici diluvi
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Book preview
Felici diluvi - Graziano Gala
Table of Contents
Graziano Gala · Felici diluvi
FELICI DILUVI·RACCONTI
FELICI DILUVI
L’applauso
Il sonno dei giusti
Complanari
Sabotare il silenzio
Recuméterna
Le circostanze dell’arrivederci
La figlia di Brasi
Piatti, bottiglie, improvvisate stoviglie
Rumori da basso (dalle caviglie in giù)
Sentir messa
La prospettiva di Giuda
Purché le piaccia
Fuori i polmoni
Felici diluvi
Ringraziamenti
Note
Profilo biografico
Graziano Gala · Felici diluvi
Musicaos Editore, 2018 · Narrativa, 16
Illustrazione di copertina
The Cemetery of Umbrellas II
Stefano Bonazzi©
www.stefanobonazzi.it
Progetto grafico Bookground
I personaggi e i fatti descritti nei racconti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti e a persone reali è puramente casuale.
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano – tel. 0836.618.232
www.musicaos.org
info@musicaos.it
Isbn 978-88-99315-955 (Libro)
Isbn 978-88-99315-986 (Ebook)
FELICI DILUVI·RACCONTI
A Pasquale Santoro e Cosimo Argentina, padri fondatori
FELICI DILUVI
Ma se solo per un attimo potessi averti accanto forse non ti direi nientema ti guarderei soltanto.
(Francesco De Gregori, Caterina)
Ma, spaccato o malato, il cuore sta là.
(Cosimo Argentina, Taranto mon amour)
L’applauso
Una o. Era soltanto per una o. E poi avrebbe potuto vantare una parentela, un’omonimia, o qualsiasi altra cosa del genere.
Ci pensava ogni santa mattina Marco Poli, prima di timbrare il cartellino: una vocale sbagliata, e neppure di tanto, gli precludeva anche questa gioia.
Operatore ecologico. I grammatici italiani avevano trovato un nome appropriato per ingentilire la professione meno amata al mondo: alzarsi nel cuore della notte per ripulire l’ultimo schifo lasciato in strada da milanesi e limitrofi.
Mondare la strada e svuotare i cassonetti: un lavoro che al Poli, in realtà, piaceva e non poco. A suo figlio un giorno avrebbe raccontato di essere un pirata e di uscire ogni mattina presto per una nuova emozionante caccia al tesoro. E in fondo, il nostro operatore, la pensava proprio così, giacché la gente a Milano butta di tutto, non avendo abbastanza tempo, cuore, e spazio per ricordare.
Qui si viaggia a ritmo di metro – un mambo velocissimo che ricomincia ogni tre minuti – e fermarsi, ricordare e accumulare oggetti in appartamenti da quarantotto metri quadri vuol dire trasformare la propria abitazione in una cantina a cielo aperto fatta di letto, cucina e cimeli ricoperti di polvere e nostalgia.
Si trovava di tutto: racchette, mazze da golf, cornici, zanne in avorio, elefanti in legno, statuette votive, vecchi apparecchi elettronici.
Ma stanotte per Marco Poli, malcapitata vittima di un’ingiusta vocale, il gomitolo delle strade milanesi preparava il più bello dei rinvenimenti.
Immondizia. Usuale catasto d’immondizia. Un plastico arcobaleno giallo-rosa-turchese fatto di buste e bustarelle dalle varie forme, dimensioni e fragranze. Una sorta di barricata creata involontariamente ai fianchi di ciascuna delle strade milanesi. «Ecco qui le trincee – pensava Poli tra sé – chissà quando comincia la guerra.»
Pensatore il Poli, e dei più arguti: maturità classica pariniana conseguita in Milano centro con cento centesimi, diploma al conservatorio in pianoforte, iscrizione in prestigiosa università e morte improvvisa del padre che manda all’aria baracca e burattini costringendo moglie e figli alla vendita dei beni e al tempestivo trasferimento a Vimercate.
Insomma, una delle più belle promesse dell’annata 87 bloccata dalla sorte e insaccata in una divisa catarifrangente: ecco, signori di Milano, chi vi pulisce il sedere.
Oggi però l’oceano nero verde di sacchi e cassonetti ha preparato una grossa sorpresa al mio viaggiatore: forza Poli, pulisci bene, che la Cina è lontana ma stasera facciamo il botto lo stesso.
Corso Sempione, arco della Pace: una marea multicolore da spostare e caricare a poco a poco su un apposito furgoncino triturante, con annessa spazzata all’asfalto sottostante.
Qualcosa di scuro, sporco e... solido.
«Non è vero» – pensò l’operatore dentro di sé – per poi gridare apertamente: «Non è vero!».
Una Y. Poi una A. E una M.
E sacchi gettati alla rinfusa per strada e spazzino che getta sacchi alla rinfusa e un pianoforte appena partorito dal letamaio di corso Sempione.
La tuta da lavoro sfilata di fretta e utilizzata come panno per ripulire lo strumento. Due sacchi adattati a sgabello. Il freddo: non quello milanese che ghiaccia la strade, ma quello delle occasioni importanti: il primo bacio, il primo giro sul motorino, il primo concerto all’aperto improvvisato in corso Sempione.
Le mani che scivolano sul bianco un po’ ingiallito dei tasti, prima insicure, poi più calde, certe, tranquille. I topi, i senzatetto, gli avventori dei locali in chiusura che si fermano ad ascoltare. Milano che sospende per tre minuti il suo mambo sballato da binario della metro.
Čajkovskij, Il lago dei cigni: quello che il Poli suonava ogni benedetta sera, prima che la Mannaia gli portasse via padre, pianoforte e patrimonio. Quello che ticchettava sulla scopa con le nocche ogni mattina recandosi al lavoro. Il lago dei cigni, suonato alle tre di mattina su un palco improvvisato dinanzi a pochi spettatori: Milano è città di sorprese e nevrosi.
Sui balconi, dalle finestre, qualche curioso. Poi qualche altro. Poi sempre di più, compresa una volante. Il cuore che pigia i tasti, la mano che frena i battiti – e sono troppi, e Marco non sa se è in grado di reggerli – il pubblico, impigiamato, che ascolta.
Una vecchia, da un balcone, che fa sbattere ritmicamente i due palmi delle mani. Molti che la imitano, forze dell’ordine incluse. Un applauso lungo, scrosciante, accompagnato dal silenzio del resto. Milla Letizi che esce dalla sede Rai e mette mano al taccuino. Marco Poli, netturbino per necessità e pianista per vocazione che si inchina e saluta la folla nella sua Scala improvvisata.
Il resto di Milano, che dorme, cullato da un pianoforte in corso Sempione.
Il sonno dei giusti
Pensava fosse un sogno, Maimondo Rucellai. Uno di quei sogni di un certo pregio e interesse, da raccontare alla moglie – e in piazza – il giorno successivo: uno di quei sogni, insomma, che all’alba non si dimenticano. E sarebbe stato davvero difficile dimenticarla, tutta quell’acqua per casa, tutte quelle abat-jour che circumnavigavano il letto nuziale, tutti quei cavi elettrici che scintillavano gaudenti arcobaleni bluastri.
La poteva sentire quell’acqua, il dottor Rucellai. La poteva toccare. Ci si poteva – volendo – inzuppare il lembo della manica sinistra del pigiama, per il solo gusto di apprezzare l’aderenza alla realtà di questo suo speciale sogno acquatico. Anche il letto – a tratti – sembrava prestarsi all’incanto del naufragio: tutto affondava sotto ipotetiche messi d’acqua. Tranquillizzatosi, il commendatore, rise tra sé: – «Ci lavoro così tanto con l’acqua, che oramai me la porto pure dentro casa e nei sogni.» Che gioia, pensò il magnate, che umida gaiezza, che maestosa liquidità, che...
«Maimondooooooooooooo!!!!!» – Eccola. Una smorfia si disegnò sul volto da bambino del cavalier Rucellai. Eccola, dicevamo, anche nei sogni. Eccola. Sempre a chiedere infastidire decidere stabilire. Eccola. Che errore, pensò tra sé il sognatore, che errore averla sposata.
«Maimondooooooooooooooooo!!! È tutto allagato diobo!». Nei sogni. Adesso si infila anche nei sogni. Lo farà certamente di proposito, questa lurida bastarda. Neanche la notte mi resta più per riposare. Per viaggiare, per distrarmi. Sono davvero fottuto.
Mentre si corrucciava in questo modo, il cavalier Rucellai, quasi istintivamente, ricacciò il braccio fuori dalle coperte, come per dare al corpo un po’ di requie, dopo tanta agitazione notturna.
Di pescare la sua dentiera in una sconfinata massa d’acqua quasi non gli parve vero. Balzò sul letto.
Acqua. Distesa di acqua. Tutta l’acqua che era capace di distendersi in centotrenta metri quadri di attico. Il vecchio Rucellai spalancò la bocca vuota. I capelli gli caddero sudati sulla fronte, illuminati da un tv color che trasmetteva gli ultimi scampoli di una partita di pallone. Era tutto maledettamente bagnato, allagato, in disordine. Era tutto sospeso in gravità in un immenso sacco amniotico: il titolo di cavaliere del lavoro, le lauree delle figlie, le borse della moglie gracchiante e la stessa moglie, gracchiante, abbarbicata su una poltrona ottocentesca reinventata nell’impensato ruolo di scialuppa di salvataggio.
L’acqua, la stessa acqua che gli aveva dato da mangiare prima e lo aveva arricchito poi, si stava improvvisamente riprendendo tutto.
Di colpo, Maimondo Rucellai, si sentì inesorabilmente vecchio.
«Perdinci! Perdinci! Perdinci!» – due piani più in giù Goffredo Rubagozzi non riusciva a prender pace. La sua casa, al terzo piano di viale Lancetta, era un autentico brusio di corridoi. E oltre al brusio c’era davvero poco, giacché al buio, una casa di quelle, risultava sostanzialmente impraticabile. Lo sapeva