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La casa delle rondini
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La casa delle rondini

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About this ebook

Una giovane donna, che fin da bambina si è sempre interrogata sul mistero della scomparsa del proprio padre che non ha mai conosciuto, scopre presunte sue tracce condurre a un piccolo e remoto paese di montagna, e vi si reca per approfondire la sua indagine. 
Un uomo schivo, misterioso e affascinante, braccato dalla sorte, si è rifugiato a vivere in solitudine nei pressi del medesimo paese per sfuggire al proprio doloroso passato e alle proprie ossessioni.
I due si incontrano, e da quell'incontro nascono sviluppi inattesi che condurranno a un epilogo non scontato.
A margine di questa vicenda, che si intreccia con parecchi flashback sulla vita passata dei due protagonisti, si percepisce l'eco di oltre mezzo secolo di storia del '900.
E dietro a ogni cosa campeggia il fondale delle montagne, cattedrali di pietra misteriose, spettatrici mute e insensibili alle umane vicissitudini ma catalizzatrici di emozioni e custodi di sentimenti.
Un romanzo ricco di colpi di scena, centrato sulla dicotomia casualità/destino e sui conflitti che possono nascere tra i legami del sangue e quelli del cuore, permeato dalla fascinazione che l'ambiente di montagna esercita sulle menti umane, un tema quest'ultimo caro all'autore che già ne sviluppò molti aspetti nel suo precedente romanzo "La valle del ritorno" (Luca Visentini Editore - 2007).
LanguageItaliano
Release dateJan 26, 2018
ISBN9788827558591
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    La casa delle rondini - Flavio Favero

    STORIA

    1

    UNA BUONA RAGIONE

    Un’evidenza alla quale mi devo infine arrendere è che prima o poi arriva sempre il momento nel quale raccontare una storia diviene inevitabile. Ebbene, questo momento è giunto anche per me e per questa storia. Tutto sta semplicemente accadendo proprio adesso, mentre questa neve s’impegna a scendere giù più fitta oltre i vetri della finestra e s’accumula sugli steccati, sull’orto e sul pollaio confondendone i contorni, colmandone i passaggi.

    Ma ecco là in mezzo, proprio dove inizia il fitto del bosco d’abeti, un ramo cede inatteso e una scarica s’abbatte sul sottobosco. È la neve di una vita accumulata sull’anima, sempre sui soliti vecchi e affranti rami, quella che ti può costringere a raccontare. E può accadere all’improvviso, quando il peso di ciò che è successo è divenuto ormai insostenibile, quando ti riconosci troppo stanco per continuare a ignorare i morsi e i gemiti di un passato dolente e prigioniero. Oppure quando il silenzio là fuori è divenuto troppo vasto e devastante per non tentare di spezzarlo con la parola.

    Ma ciò probabilmente ancora non basterebbe, perché questo non è certo il primo inverno nel quale la neve s’impegna ad appesantirmi le stanche giunture dell’anima. Perché tutto succeda è necessaria un’ulteriore ragione, una decisiva spinta. Può bastare, ad esempio, un invito dell'ente sanitario ad eseguire un approfondimento urgente, come quello che ho qui tra le mani, una convocazione di quelle che non si vorrebbe proprio ricevere.

    Ma tutto questo accadrà forse domani o un altro dei prossimi giorni. Oggi è domenica e fra poco la campana della chiesa laggiù nel paese in mezzo alla valle batterà l’ora della messa, un suono consueto e caro che io potrei però non sentire poiché questo vento che scompiglia la neve tira adesso nel verso sbagliato. E se quella campana non la sento allora vuol dire che oggi il mio dovere è un altro, significa che non posso perdere più neanche un minuto e devo invece affrettarmi a mettere insieme i pezzi di questa storia che da troppi anni sento pesarmi dentro e che potrei non avere più il tempo di raccontare quando, da domani, ogni orologio al mondo comincerà forse a correre troppo in fretta per me, a ticchettare in modo ossessivo fino al momento in cui tutto si spegnerà all'improvviso nel nulla.

    Ma tralasciando infine le ragioni che possono indurre un vecchio come me a scrivere, veniamo dunque alla vicenda della quale non fornirò tuttavia troppo precisi riferimenti. Riguardo ai luoghi descritti e alle persone nominate, infatti, intendo usare nomi convenzionali che ne rendano difficile l’identificazione. Quanto al tempo, dirò solo che la storia si sviluppò in gran parte sul finire degli anni sessanta del secolo ventesimo, ma sue importanti radici affondano in fatti anteriori che dovrò quindi richiamare. Molti anni sono dunque passati, ma tutto è così preciso e chiaro nella mia mente come fosse accaduto ieri o stesse ancora accadendo, perché certe storie appaiono come se fossero eterne, e in esse i decenni s’affastellano ai decenni scompigliandone un ordine che non ci appare importante, come se noi stessi ci percepissimo immortali e non accettassimo l’idea che tutta la luce possa di colpo svanire e sulla tela nera debbano scorrere soltanto oscuri titoli di coda, così come temo stia già avvenendo per questa mia vita della quale intuisco ormai breve il corso residuo.

    Quanto racconterò riguarda avvenimenti a volte a me ben chiari in tutti i dettagli, a volte ricostruiti grazie alle testimonianze con le quali sono venuto in contatto, altre volte soltanto immaginati ma a mio giudizio realisticamente ricostruiti, e tutto ciò allo scopo di rappresentare al meglio quanto accadde, anche se non potrò evitare che qualche mia personale considerazione emerga qua e là a inquinare, spero solo involontariamente, l’obiettività dei fatti.

    Riguardo poi alla valutazione morale, ciascuno sarà libero di esprimere il giudizio che crederà più equo, oppure anche astenersene, e in tal caso sarà stato prudente perché non è impossibile che quanto riferirò possa capitare anche al più incorrotto e giusto degli uomini. E dunque esprimendo da ultimo la mia personale valutazione riguardo ai personaggi di questa storia e alle loro vicissitudini, sarei propenso a considerarli in larga misura vittime inconsapevoli di un destino malevolo e beffardo oppure, secondo altro punto di vista, di una casualità ottusa e insensibile, un’alternativa questa sulla quale al momento non so decidere e che mi propongo di riconsiderare occasionalmente lungo il procedere del racconto.

    2

    CHIARA

    Anno 1966. Grigia sera di dicembre a Milano, così come probabilmente anche a Berlino, Amsterdam, Dublino, Praga.

    Nel nord dell’Italia, come anche al telegiornale, era di scena una nebbia umida e vischiosa e la città appariva sospesa in uno spazio misterioso, surreale. Il traffico del centro declinava alla notte che, tracimata fuori dal sottosuolo attraverso le mille grate dei tombini, era salita dilagando ormai per le strade e inducendo la gente a riparare in fretta presso i tetri portoni dei palazzi di pietra, senza più indugiare lungo i marciapiedi illuminati dalle vetrine che con luci e colori s’impegnavano ad anticipare l’aria finta di un ottimistico Natale italiano. Ogni tanto in quell’atmosfera densa, oleosa, qualche luminescenza rapida e bluastra balenava intorno nel buio delle piazze a tradire l’ombra di un tram, di un filobus tardivo.

    Ora insolita per un appuntamento di lavoro, pensava Chiara dentro la sua cuffia di lana, il bavero alzato e la sciarpa stretta al collo. Camminava senza fretta quando, svoltato l’ultimo angolo, individuò il portone oscuro che cercava. Alzò gli occhi. Le finestre illuminate del primo piano, la scritta al neon, tutto era come l’aveva immaginato. A lato del tenebroso palazzo i radi lampioni accesi si inseguivano lungo una strada vuota che piegava seguendo una lenta curva, e punteggiavano la nebbia prima di perdersi in essa definitivamente.

    Aspirando un’ultima boccata dalla sua Muratti, Chiara si fermò un momento sul marciapiede a guardare verso quella lontananza. Sorrise. Se si fosse avvicinata una macchina nera e un distinto signore sporgendo il cappello dal finestrino le avesse sussurrato adesso: «Wie einst…», lei avrebbe completato bisbigliando a sua volta: «…Lili Marleen».

    Buttò la sigaretta e la spense schiacciandola con la suola contro il porfido della strada che attraversò, diretta verso quel portone. I tacchi alti delle sue scarpette nere di vernice picchiettavano sui cubetti di pietra con un ritmo che sarebbe stato forse più indicato per una serata alla Scala, ma Chiara ci teneva ad apparire bene e quelle scarpe, lo sapeva, davano alla sua figura lo stacco giusto.

    L’andito del palazzo era fiocamente illuminato e sul pavimento del vano scale le piastrelle vecchie e segnate erano tirate a lucido. A due metri d’altezza una dimessa lampada appariva del tutto annerita da sedimenti secolari, come se le pulizie là dentro fossero sempre state appannaggio di una razza di donne brevilinee, meglio disposte a straccio e cera piuttosto che all’aerea danza dello spolverino.

    Al primo piano dietro una porta a vetri era di presidio una rinsecchita segretaria in grembiule nero e collettino bianco, ben eretta di schiena sul suo seggiolino e giustamente orgogliosa della sua nuova Teckne 3 elettrica. I polpastrelli delle lunghe e rugose dita erano incurvati con l’inclinazione giusta, come se una naturale disposizione l’avesse predestinata a quel lavoro di destrezza nel quale il numero di battute al minuto poteva fare la differenza tra la mediocrità e l’eccellenza. E lei era certa di ben incarnare quest’ultima virtù, appunto.

    – Buonasera, mi chiamo Gloria. Si accomodi nel salottino, la prego; il direttore la riceve a minuti –, esordì quella con limitata partecipazione nell’accogliere la nuova venuta non appena la ebbe mentalmente inquadrata. Si era informata prima, quella giovane non era lì per soffiarle il posto e dunque la sua presenza le risultava abbastanza indifferente. Lei piuttosto, la nuova, avrebbe dovuto guardarsi da un lavoro così, da uomo. L’avrebbe vista meglio presso la redazione di un periodico femminile, si diceva tra sé Gloria, unica discendente di un’orgogliosa stirpe di generali di cavalleria che in lei e nel suo pretenzioso nome aveva così poco onorevolmente concluso la tradizione di famiglia.

    Oltre le luci della stanza, oltre il vetro sottile della finestra, attraverso il buio latteo e opalescente che attendeva di fuori, Chiara intuiva le profondità insondabili dello spazio nelle quali le notizie volavano lanciate oltre il cielo notturno della vecchia Europa e calavano planando sopra Berlino, Parigi, Varsavia, rimbalzando di torre radio in torre, sollecitando i gangli neurali di milioni di sinapsi elettromagnetiche pulsanti entro sale strapiene di cronisti e redattori febbricitanti sopra i tasti delle telescriventi, accecati dai neon e dal fumo delle sigarette, saturi di caffè e adrenalina, mentre l’energia strappata alle acque di superficie e alle profondità della terra e compressa entro nerbi di rame spessi un braccio correva fino a esplodere entro vasti seminterrati sommersi dal frastuono, ove pallide bobine spesse e compatte come pilastri di cemento armato venivano accelerate a folle velocità e costrette a srotolare urlando le loro spire sottili tra i pesanti rulli d’acciaio di mostri rotativi ansiosi di imprimerle a titoli di delirio.

    Un breve fruscio di cuoio nuovo sulla moquette del pavimento ed ecco apparire un asciutto sessantenne dall’esiguo torace fasciato entro un gessato doppiopetto (ricercatezza forse eccessiva e vecchio stile, si sarebbe detto) che le fece strada precedendola verso un ufficio dal mobilio scrostato e austero.

    – Così lei è Chiara M. – cominciò lui con aria di affettata familiarità. Non le fece subito un’ottima impressione quell’uomo, ebbe in seguito a confessare, ma al momento non poteva sapere che avrebbe poi avuto ampia occasione per ricredersi su di lui. – Ha portato il curriculum, immagino – proseguì. Chiara glielo porse.

    «So che lei sta cercando un appiglio per liquidarmi, direttore» pensava nel frattempo mentre l’altro scorreva la pagina dattiloscritta.

    Essere femmina non è mai stata un’impresa da poco, meditava lei intanto. Ai maschi la forza, la lotta, la caccia, il divertimento, alle femmine è sempre toccata invece la responsabilità della conduzione di una famiglia e in questa attività esse hanno sempre dovuto cercare soddisfazione e appagamento. Trasportando poi tutto ciò anche nell’ambito del lavoro, a chi andava il merito del buon andamento di un’azienda se non spesso alla segretaria del capo, quella che doveva avere testa sulle spalle per due e riusciva sempre con il suo cauto consiglio e il suo buon senso a salvare anche in extremis il suo principale da errori colossali e pessime figure? Chiara ne aveva viste a decine di donne così, indispensabili e oscure lavoratrici, inconfessabilmente e disperatamente innamorate dei loro capi. E d’altra parte quando gli uomini pensavano alle donne nell’ambito del lavoro le accettavano solo nel ruolo di segretarie. Per altri ruoli i tempi sarebbero però maturati presto, pensava.

    Lui intanto leggeva, ma senza darlo a vedere ogni tanto considerava la sua interlocutrice anche dal lato estetico. Una brunetta ben fatta, pepata quanto bastava a tenere a freno gli uomini, non appariscente nel complesso ma giovane e appetibile abbastanza da scatenare gli entusiasmi di quei lupacchiotti della redazione, immaginava lui con facile premonizione.

    – Dunque: università, scuola di giornalismo, pubblicazioni. Ah, ha lavorato con il mio amico G., vedo –.

    Alzò infine gli occhi:

    – Beh, un curriculum di tutto rispetto per la sua età – ammise sorridendo, e l’imbarazzo iniziale pareva svanito. – Ovviamente – continuò con aria complice – riguardo alla sua età, che mi permetta di dirle non dimostra affatto, può contare sulla mia più assoluta discrezione –.

    Chiara sorrise ma non disse niente. I suoi trent’anni addosso se li sentiva tutti.

    – Mi dica una cosa, se non sono troppo indiscreto – proseguì. – Come mai ha deciso di fare giornalismo, e perché proprio questo genere di giornalismo che di solito è prerogativa degli uomini? –

    Chiara cercò di raccogliere le idee. Non era facile sintetizzare tutto in poche battute, e non poteva certo ammettere con uno sconosciuto che gli uomini un po’ li invidiava. Decise comunque di rispondere francamente, in modo che dalle sue parole trasparissero schiettezza e positività, comportandosi come immaginava si sarebbe comportato un maschio al suo posto. Si sbagliava, ovviamente, sugli uomini e sulla loro psicologia perché in realtà non li conosceva affatto, ma il risultato fu comunque positivo e decisivo per la sua richiesta di assunzione:

    – Mah, sa, forse perché in casa mia gli uomini non hanno mai contato granché, anzi praticamente non ce n’erano e allora tra me e mia madre abbiamo sempre dovuto occuparci di tutto senza preoccuparci se quello che dovevamo o ci piaceva fare fosse da uomo o da donna. Porto il cognome di mia madre –.

    Il direttore restò sorpreso da quella confidenza, ma non volle darlo a vedere e cambiò discorso:

    – Mi sembra un cognome nobile, di origine veneta se non sbaglio –.

    – Sì, da almeno due secoli la nostra casa di famiglia è una villa sulle colline venete – confermò Chiara.

    Trent’anni, pensò lui, pieni di energia. Facciamo questa prova.

    Chiara corrispondeva abbastanza all’immagine che dava di sé, ma c’era un dettaglio che non poteva apparire subito evidente: tra i quindici e i trent’anni la vita fa spesso passi decisivi che a Chiara erano mancati, e questo le pesava dentro ogni giorno di più.

    ***

    Quella sera all’ultimo piano del casermone senza ascensore dove viveva in affitto, Chiara accese, come faceva spesso, l’apparecchio radio che si era portata via da casa e che per lei surrogava parecchi altri legami.

    Chi non ha mai posseduto una vecchia radio non può capirne il fascino. Anzi non lo può capire, aggiungo, chi non ha avuto modo di ascoltare con essa i programmi della sera trasmessi dalle stazioni nazionali dei paesi europei prima che nascesse la modulazione di frequenza e milioni di emittenti locali cosiddette libere dilagassero ad ammorbare l’etere. La radio serale, allora, nei vecchi tempi, era come un’amica colta e intelligente, una che aveva viaggiato, che amava la musica classica e il teatro, forse a volte anche un po’ snob ma in ogni caso una confidente sempre discreta e seducente. Le serate in sua compagnia erano quelle delle buone letture in poltrona, quando il monopolio mentale della televisione non si era ancora manifestato.

    Chiara aveva dunque ereditato dal nonno uno di quegli apparecchi anteguerra di costruzione tedesca, solida in legno stagionato e lucidato, imponente. Una volta acceso occorreva aspettare un po’ fino a quando il cuore delle numerose valvole termoioniche assumeva il calore necessario ad alimentarne la voce calda, profonda nelle sue morbide tonalità di basso.

    Al centro del pannello frontale l’occhio magico ammiccava indicando la precisione della sintonia, mentre il bianco ed eretto indicatore filiforme scorreva lungo la scala parlante illuminata, e sfiorava i nomi gialli, verdi, rossi di città favolose e lontane. Chiara si sentiva così trasportata fuori nella notte scura fino a sorvolare Varsavia, Vienna, Oslo, Belgrado, Istanbul. Le voci notturne della vecchia Europa emergevano dalle profondità dello spazio cavalcando sfrenate le onde corte e medie dell’etere per convergere tutte in quel mobiletto di legno lucidato a raccontare di austeri palazzi, di sale da concerto gremite di cultori della buona musica e pervase dalle festose frequenze delle accordature prima dell’esecuzione, di lunghi viali accesi, di pianoforti sommessi entro discreti caffè assopiti a lume di candela, di arte e costumi lontani.

    Riga. Cosa potrà mai succedere di notevole a Riga, a chi può importarne qualcosa? Forse soltanto alla scala colorata delle vecchie radio, pensò Chiara quella sera.

    Vogliamo però adesso dare uno sguardo più attento all’interno di quel misterioso apparecchio.

    Spiando attraverso le fessure del pannello posteriore si possono vedere dei lumini accesi come se dentro ci fosse un presepe. Svitati i due chiavistelli che rinserrano il suddetto pannello, lo asportiamo e osserviamo. Circondate dal buio della stanza notturna, le palpitanti lucine accese entro le multiformi ampolle di vetro, alcune grosse, altre minuscole, tutte contenenti strutture complesse e irradiate ciascuna da un proprio fuoco interno, sembrano proprio i palazzi del piccolo e vivo modello urbano di una tranquilla cittadina di provincia al primo imbrunire, uguale a quella che Chiara portava nel cuore fin dall’infanzia, la vecchia cara Bassano ai piedi di quel monumento della storia patria che è il monte Grappa. Con uno sforzo d’immaginazione addentriamoci adesso in quella minuscola città e guardiamo meglio. Ecco Piazza Garibaldi animata dal lento passeggio serale.

    L’aria è quella delle vivaci sere di sabato in quella lontana sera del ‘45 e la tua mano calda, piccola Chiara, racchiusa nel bianco guanto di lana si intreccia con la mano di mamma. Le vetrine delle pasticcerie propongono i poveri dolci di un Natale ancora prostrato dalle recenti privazioni di guerra mentre voi due camminate lente, in silenzio.

    Intorno passano compagnie di persone a tre, a quattro, si distinguono le voci concitate degli uomini e le risate sommesse delle donne anche senza bisogno di comprendere le parole.

    All’epoca di questo quadretto Miriam, la tua mamma, aveva poco più di trent’anni. Famiglia nobile, agiata la vostra, vivevate con il nonno in una villa padronale, la stessa dei vostri avi, nei pressi della cittadina veneta. Eri uscita, quella sera di dicembre, eri venuta in città con mamma per ordinare delle lenzuola mentre l’autista vi attendeva oltre il Ponte. Mamma pareva quella sera immensamente triste, una condizione purtroppo consueta, di rado ne ricordavi il sorriso.

    Qualche passante nell’incrociarvi sollevava il cappello per rispetto e saluto. Serata importante, carica di presagi.

    A un tratto vi arrivò incontro quell’intrigante della contessa S. con a fianco il suo autista/mantenuto/tuttofare, leccato a brillantina come un patetico vecchio Valentino. Si fermò allargando le braccia con piglio teatrale:

    – Signorina Miriam, buonasera! Che piacere incontrarla qui! Signorina Chiaretta, complimenti, come siamo cresciute! Mamma sarà fiera di lei! – era insopportabile. Soprattutto odioso appariva come calcava sopra quel signorina che così poco si appaiava con mamma, l’intento allusivo era evidente e perfino tu lo cogliesti.

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