Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Meccaniche della solitudine: Romanzo
Meccaniche della solitudine: Romanzo
Meccaniche della solitudine: Romanzo
Ebook215 pages3 hours

Meccaniche della solitudine: Romanzo

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Poche sono le persone che nella loro vita non abbiano mai incrociato la solitudine. Enrico, il protagonista del romanzo, insegnante di lettere prima e giornalista poi, conosce questa condizione umana. L’ha sperimentata da giovane con altri amici, quando don Giulio, il prete dell’oratorio, organizzava escursioni in montagna. Nel silenzio di quei luoghi il sacerdote aveva insegnato ai suoi ragazzi il valore dello stare soli, del riflettere e del pensare. Enrico porterà con sé questa lezione, ma incontrerà altre solitudini, quelle segnate dalle sventure e dalla tragedia. Cristina, la compagna che non ha mai smesso di amare. Adalgiso, l’amico del treno e sua cugina Rachele e poi Nina, la donna minuta giunta da Buenos Aires. Solitudini particolari, tutte diverse, come le loro storie, ma ognuna capace di trovare una ragione per continuare a vivere.
LanguageItaliano
Release dateJan 25, 2018
ISBN9788827557532
Meccaniche della solitudine: Romanzo

Read more from Giovanni Torri

Related to Meccaniche della solitudine

Related ebooks

Relationships For You

View More

Related articles

Reviews for Meccaniche della solitudine

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Meccaniche della solitudine - Giovanni Torri

    casuale.

    I

    Lo spigolo di nessuno

    Era chiamato da tutti lo spigolo di nessuno. Non proprio da tutti, ma da quelli come me che quella montagna la conoscevano bene.

    Nessuno ancora l’aveva battezzato con qualche nome di donna, con quello di un amico volato da una parete, oppure con il proprio.

    S’incontrava tutte le volte che ci si accingeva a salire uno stretto canalone che portava diritto alla vetta. Un canalone che d’inverno era considerato impegnativo e, se la neve non era sufficientemente dura, i rischi di distacchi e di slavine facevano di quella salita un’impresa da evitare.

    Da quella parte la vetta l’avevo raggiunta un paio di volte d’inverno perché, pur non essendo una montagna molto alta, quel canalone e l’ambiente circostante davano la netta sensazione di salire lungo una via di neve e ghiaccio, lunga e verticale, delle vicine Alpi.

    Lo spigolo dava a nord-est su una torre di calcare dolomitico che s’innalzava isolata sopra un ripido pratone. Pareva una lama affilata che faceva di quel torrione una sorta di gigantesco cuneo.

    Più di una volta, quando gli ero passato accanto, mi ero chiesto perché nessuno l’avesse ancora salito. Eppure era imponente e, a guardarlo da sotto, faceva impressione.

    Valutato a occhio era alto centotrenta centocinquanta metri. Si ergeva solitario e quel suo spigolo si notava subito, già da lontano. Dalla base saliva lento, ma dopo una decina di metri si raddrizzava verticale e l’ultima parte, prima della sommità che piatta sembrava tagliata di netto da un’enorme lama, strapiombava.

    Allo sguardo quello sporgere dava l’impressione che da un momento all’altro la roccia potesse precipitare, rotolando verso valle.

    Non credo che sia stato quell’ultimo strapiombo ad aver dissuaso gli alpinisti. Lì attorno c’erano vie già violate ben più ripide e lunghe, fatte di placche lisce e tetti vertiginosi.

    Lo si poteva raggiungere dopo aver lasciato il rifugio che più sotto, a poco meno di 1200 metri di altitudine, nelle belle giornate d’estate, ospitava gente di ogni tipo, salita dalla pianura e dai paesi della vicina Brianza.

    Si camminava per poco meno di un’ora, su un sentiero stretto e accidentato che prima di perdersi nel prato rasentava una lunga bastionata: una parete verticale frastagliata da lastre gialle e nere e da camini stretti e umidi.

    La bastionata, alta due o trecento metri, era sede di diverse vie alpinistiche. Alcune impegnative. Quinto, sesto grado. Molte erano state aperte da alpinisti della zona che, tra gli anni trenta e cinquanta, erano saliti per pura passione.

    Considerate delle classiche, si distinguevano dalle vie della moderna arrampicata sportiva soprattutto per i nomi: di donna, di chi le aveva aperte o di qualche affetto. Una di quelle era stata chiamata Impero, datandola inesorabilmente. Ma non erano solo i nomi. Diverse ormai le tecniche di salita, differenti forse anche le motivazioni.

    Poi il sentiero proseguiva libero, sull’erba bassa e pungente, per dividersi, dopo poche centinaia di metri, in diversi tracciati, due dei quali ben segnalati.

    Uno continuava diritto per abbassarsi più avanti, raggiungendo, con un passo svelto, in poco più di mezz’ora, la fermata della funivia che portava a valle. Il secondo risaliva subito ripido, perdendosi nel canalone che portava alla vetta.

    Il torrione con il suo spigolo stava lì in mezzo. Alto, maestoso e solitario. Un gendarme a guardia di chi scendeva o proseguiva la salita.

    Erano gli anni settanta. A quel tempo avevo superato da poco la maggior età, ma alla montagna mi ero avvicinato da giovane, grazie a un sacerdote. Un uomo possente, alto e grosso che, quando saliva sul suo maggiolino Volkswagen, occupava quasi l’intero abitacolo anteriore.

    All’oratorio c’ero andato fin da bambino. Dopo la scuola si stava in quel luogo con gli amici, sino al tardo pomeriggio, poi si ritornava a casa. Era una sorta di luogo protetto e i nostri genitori, sapendo dov’eravamo, non si preoccupavano più di nulla.

    Don Giulio era sempre presente. Organizzava ogni attività senza che nessuna avesse una vera finalità religiosa. Certo la domenica a messa non poteva mancare nessuno e ogni rito doveva essere rispettato. Natale, Pasqua, tutte le feste comandate e il Santo patrono. Confessarsi di sabato, poi in fila per la comunione. E, per alcuni di noi, anche servire messa.

    Tuttavia all’oratorio si stava bene e quel prete, mezzo sacerdote con l’abito talare liso, e mezzo alpinista con scarponi pesanti, camicia di flanella e pantaloni di velluto alla zuava, finì per diventare il nostro istruttore per la montagna e per l’anima.

    Aveva un suo particolare modo per tenere i ragazzi ancorati alla fede. Con lui la religiosità non era per niente manifesta. Mai esibita come un credo assoluto da apprendere, un culto o una liturgia da assecondare, senza che il pensiero ci entrasse dentro. Poche le preghiere, rare le prediche, ma era riuscito in un’impresa ben più difficile: quella di farci avvicinare alla nostra parte più intima e profonda.

    Capitava, quando sedevamo sul prato di qualche altura o sulla vetta di un monte, che ci leggesse un passo dei Vangeli. Lo faceva senza avvertire nessuno, nonostante ormai quella pratica fosse conosciuta da tutti.

    Estraeva dallo zaino un librone. Il messale, forse la bibbia. Ricordo ancora benissimo quel testo rilegato in tela rossa, smunta e spelacchiata su tutti gli angoli.

    Dopo averlo aperto dove stava il nastrino azzurro del segnalibro, iniziava a leggere. Non brani lunghi. Si capiva che quelle poche frasi le aveva scelte con cura.

    A volte dallo zaino fuoriusciva dell’altro. Rammento solo: La montagna incantata di Thomas Mann e L’uomo senza qualità di Musil.

    Terminata la lettura invitava tutti i ragazzi a scegliersi un posto isolato e a riflettere su quel brano. Io cercavo sempre una posizione elevata. In cima a qualche grosso masso o, se eravamo sulla vetta di una montagna, che dalle nostre parti finiva sempre con una grande croce, le salivo sopra e lì mi appollaiavo.

    Era un modo per stare con noi stessi. Lui la chiamava meditazione e a dire il vero era proprio una forma di raccoglimento personale e interiore che, partendo da quelle poche frasi dei Vangeli o di quei romanzi, raggiungeva la nostra parte più spirituale.

    Quella maniera di scandagliare l’anima restò una forma costitutiva del pensiero, della riflessione, che accompagnò ogni vicenda della mia vita. Quell’uomo, con il suo particolare modo di fare il prete, mi abituò a comprendere il valore della solitudine.

    L’estraniarsi da tutto riusciva a portare alla luce, rendere visibile, la parte più profonda di me non ancora incrostata dalle dinamiche delle relazioni umane. Quella che lambiva l’inconscio.

    Don Giulio era un accompagnatore attento e vigile, presente davanti o dietro di noi, su ogni sentiero e ogni cima delle nostre montagne. L’amore per l’alpinismo è nato lì. Su quei prati a ridosso di pareti verticali e nei pomeriggi passati a bere spuma nera, centellinandola tra partite di calciobalilla e gare di ping pong.

    Gli anni passarono e anche i pomeriggi all’oratorio. Come tutti mi sentivo ormai grande.

    Alcuni amici di allora li avevo persi. Ognuno per strade diverse. Anche don Giulio, che era stato trasferito in un’altra parrocchia troppo distante per mantenere dei veri contatti.

    La passione per la montagna non era mai svanita. Sui monti ci andavo quasi tutte le domeniche, solo o con degli amici. Quelli che come me avevano il passo giusto e il gusto di raggiungere sempre la cima di qualcosa.

    Con uno di loro avevo fatto coppia fissa. Stessa età. Anche lui cresciuto sotto la tonaca di quel prete. Le prime salite le avevamo fatte senza nessuna attrezzatura. I soldi erano pochi e non bastavano manco a pagare il cinema alla morosetta di turno.

    Si arrampicava su delle roccette: tre, cinque metri. Lui si chiamava Michele, poco più alto di me, ma la stessa corporatura esile e agile. Si andava sempre di domenica. Per lui il lavoro, per me lo studio ci impegnavano l’intera la settimana. Dopo qualche mese di allenamento ci sentimmo pronti a salire qualche via non troppo impegnativa.

    Lui arrampicava meglio. Si muoveva sulla roccia leggero ed elegante e, nonostante la corporatura, che a un primo sguardo poteva sembrare fragile, aveva una tale forza nelle braccia che poteva restare appeso alla roccia anche per diversi minuti.

    Le prime salite le facemmo con il materiale preso dalla locale sezione del CAI, poi riuscimmo ad acquistare una bella corda. Quaranta metri di nailon giallorosso. Anche qualche pezzo di cordino e alcuni moschettoni.

    Inaugurammo il materiale salendo una via lunga poco meno di centocinquanta metri. Quattro tiri di corda. Non troppo difficile. L’avevamo già percorsa una prima volta e alcuni passaggi dovevano essere fatti con estrema attenzione. Era poco attrezzata, solo alle soste si potevano agganciare i moschettoni agli anelli di vecchi chiodi che spuntavano arrugginiti da qualche fessura. Una caduta poteva essere fatale.

    Michele stava sempre davanti. Era lui il capo e non c’era verso che potesse recedere da questa posizione. Io lo lasciavo fare. Dietro mi sentivo sicuro ed entrambi sapevamo che una buona cordata è composta di un primo e di un secondo con lo stesso allenamento e le stesse capacità tecniche. Ambedue in grado di soccorrere o sostituire il compagno in caso di necessità.

    I nostri diciassette e diciotto anni li passammo assieme, quasi ogni domenica su questa o quella parete, su una guglia, un torrione o dentro un camino. Capitava allora di ritornare qualche tardo pomeriggio all’oratorio per raccontare delle nostre arrampicate.

    Non era più un luogo che frequentavamo, ma alcuni degli amici vi si ritrovavano ancora per delle partite di calcio o a bere qualcosa dopo il film, che il cinema della parrocchia proiettava ogni domenica.

    Dei due era Michele quello più assiduo. Io a volte non lo seguivo, soprattutto quando lo studio m’impegnava pure la domenica. Allora lui arrampicava con altri. Con uno in particolare che aveva iniziato ad attaccarsi alle pareti qualche anno prima di noi.

    Era più anziano: ventisei anni, ma dall’aspetto, ormai di uomo fatto, gli si poteva dare qualche anno in più.

    Si chiamava Luigi. Fisico quadrato, possente, che si era fatto non solo arrampicando, perché il lavoro lo manteneva allenato più della roccia.

    Le prime volte che Michele era uscito con lui quasi mi ero sentito tradito, ma questo sentimento durò poco e finì che la cordata, quando ci si trovava assieme, si allungasse a tutti e tre.

    Fu sul finire di un agosto molto caldo che mi avvertirono dell’incidente. Dissero che erano volati su una via di tre tiri, non eccessivamente difficile, ma quasi mai ripetuta.

    A Michele si era staccato un appiglio e aveva trascinato sotto anche Luigi. Erano restati appesi entrambi alla parete a qualche metro da terra perché, fortunatamente, il chiodo di rinvio non aveva ceduto.

    A quei tempi il soccorso con l’elicottero non esisteva, si portava l’infortunato a spalla o su una barella sino a valle.

    Luigi solo un grande spavento e qualche ammaccatura, ma Michele, andando a sbattere con le gambe contro la parete, le aveva fratturate entrambe. Una aveva perso di netto la rotula.

    Mi dissero che le grida di dolore si sentivano sino a valle.

    Quella domenica avrei dovuto affiancarli e forse non avremmo fatto quella via marcia e nessuno sarebbe caduto. Il destino a volte fa di testa sua, ma quel giorno proprio non avrei potuto fare il terzo perché mio padre mi aveva quasi obbligato ad aiutarlo a dipingere alcuni locali di casa.

    Con degli amici andai a trovarlo in ospedale. Mancava poco che mi venisse da piangere vedendolo disteso in quel letto. Michele però era tranquillo. Credo che il ricordo di quel volo e la paura di morire, nell’attimo in cui si staccava dalla roccia, siano stati tanto violenti che ritrovarsi ancora vivo l’avesse in qualche modo rasserenato.

    Ci mise diversi mesi prima di riprendere la giusta andatura, nonostante una gamba, quella della rotula, leggermente zoppicasse.

    La primavera successiva ritornammo in montagna.

    Quel volo l’aveva segnato. Era diventato più attento, guardingo nei passaggi più difficili, ma la posizione di capocordata non aveva mai voluto cederla.

    Aveva ricominciato ad arrampicare come le prime volte. Roccette basse e le vie meno impegnative, testando il suo equilibrio e quella gamba che non era più la stessa. Tuttavia in poco tempo la sua agilità gli aveva ridato sicurezza.

    Michele non lo dava a vedere, ma avevo capito che durante le salite la paura lo accompagnava sempre. Solo sulla cima, al termine di una via difficile, diventava quello di sempre: sicuro di sé e spavaldo.

    I tracciati che già conoscevamo erano ripetuti senza nessun timore e anche quelli nuovi, se non erano troppo impegnativi, si salivano prendendo tutto il tempo necessario. Senza fretta. Però il suo timore, come fosse un fardello in più che portava nello zaino, lo avvertivo ogni volta quando alla base della parete, dopo esserci legati e appesi moschettoni e tutto il necessario al giro di corda che cingeva i fianchi, lui metteva le mani sulla roccia.

    Erano piccoli segnali: un rutto di nausea o non sapere da quale parte attaccare la via. A volte diceva che non si sentiva in forma e di fronte alla mia richiesta di abbandonare l’impresa lui, come spronato da qualche richiamo imperativo, partiva veloce, riprendendo il piglio di sempre.

    In alcuni casi mi ero offerto di fare da capocordata, ma era l’ultima cosa che Michele avrebbe concesso. Lui era fatto così. Io lo sapevo e lasciavo stare, seguendolo diligentemente da secondo, senz’altro pretendere.

    Avvenne un giorno sul finire di un maggio non ancora caldo, con le nuvole che a tratti coprivano il sole, che la vita di Michele rischiò d’essere messa veramente in pericolo.

    Eravamo partiti da casa sul presto, poco dopo l’alba. Avremmo raggiunto la nostra meta a cavallo del suo motorino Vivi, rosso, dopo aver percorso una strada che s’inerpicava, tornante dopo tornante, sino alla base della montagna.

    Quel ciclomotore lo aveva ereditato da uno zio morto da poco. Michele lo aveva sistemato con l’aiuto di un nostro amico che da qualche anno era occupato in una piccola officina. Avevamo entrambi ventidue anni, poco più o poco meno. Ormai arrampicavamo assieme già da diverso tempo e la coppia non si era mai separata.

    A volte uno dei due arrampicava con Luigi o tutti e tre assieme, come su una via di ghiaccio, lunga e ripida, della parete nord del Disgrazia.

    Quella mattina avevamo deciso di risalire la cresta di una montagna vicina, tutta torri, guglie e pendii ripidi. La cresta si sviluppava per circa cinquecento metri con continue ascese e calate, paretine verticali e alti speroni di roccia. Non era troppo difficile. Noi l’avevamo salita anche d’inverno, quando certe insidie non potevano essere sottovalutate. Però da quelle guglie e da quei traversini più di una persona era volata, finendo due, trecento metri più in basso.

    Quando si è abituati alla montagna e la si è percorsa in verticale e in orizzontale, si prende confidenza, come con le persone. Si allentano le paure, cala la tensione. Si fanno cose che solo la consuetudine è capace di mettere in atto. Nel caso dell’alpinismo spesso tutto questo fa sottovalutare i pericoli.

    Avevamo raggiunto la base della cresta. La giornata era molto fresca e dietro la schiena un’aria secca e fastidiosa non dava tregua. Anche il sole, che con il suo tepore ci avrebbe riscaldato, faceva a gara con le nuvole, dalle quali pareva avesse deciso di non uscire più.

    Quella cresta molti la salivano in libera, senza legarsi alla corda. Si arrampicava sempre in sicurezza, soprattutto sulle vie difficili, agganciando moschettoni ai chiodi e usando staffe sugli strapiombi, ma quando la salita non presentava difficoltà tecniche, la corda e il resto restavano nello zaino.

    Classificata come ascensione per escursionisti esperti, con difficoltà poco superiori al terzo grado, era un susseguirsi di roccette e piccole guglie con verticalità che non intimorivano. Ma chi le saliva sapeva che non era così, perché gli alpinisti caduti da lì non erano più tornati indietro.

    Arrampicammo velocemente, dopo aver superato un piccolo strapiombo che era ritenuto la parte più tecnica dell’intera salita. Non eravamo soli, dietro di noi una coppia molto più anziana, entrambi con i capelli brizzolati, ci seguiva tranquilla, senza affanno.

    Verso metà salita, Michele, mentre cercava di superare una roccetta verticale unta dalle troppe mani che si erano posate sopra, si fermò, io ero subito dietro e compresi quello che stava accadendo. Guardandomi con due occhi atterriti, che ancora oggi ricordo, urlò concitato:

    - Vo! Vo vea!

    Stava perdendo l’equilibrio. Il corpo lo avverte subito. É un attimo nel quale solo il pensiero è presente e tutto il resto si blocca.

    La paura mi gelò, irrigidendomi gli arti. Mi sentivo impotente e in un istante compresi che Michele, se fosse precipitato da quella posizione, anche lui come gli altri, non avrebbe avuto scampo.

    Uno dei due alpinisti dietro di noi, che aveva compreso quanto stava accadendo, gridò una frase che, se ci penso, ancora riecheggia nelle orecchie:

    - Alzagli lo zaino! Alzagli lo zaino!

    Lo feci immediatamente. Con una mano sollevai il

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1