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Mie care ombre addio
Mie care ombre addio
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Mie care ombre addio

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About this ebook

Teodoro Gentili, drammaturgo di successo, viene licenziato e allontanato dai circuiti importanti del mondo dello spettacolo per il suo teatro controcorrente. Decide di ritornare al Sud, al paese dove è nato e ha trascorso gli anni dell’infanzia. L’amicizia con il dottore del borgo gli apre scenari inquietanti, surreali, che non tardano a scatenare le ire e le strategie sottili di un potere apparentemente lontano ma quanto mai presente ed efficace.
La lontananza dalle luci della ribalta diventa per lui occasione per riappropriarsi del suo passato quando, imprevedibilmente, riceve l’incarico di regista della compagnia teatrale di sbandati accolti dalla Caritas diocesana che lo espone al fascino di Viola, giovane escort sfuggita al racket del nord, tentata ancora, per sopravvivere, dalla prostituzione.
La crisi di una relazione seducente e dai torbidi risvolti, scavata nelle loro anime ancor più dalla pièce rappresentata, Processo a Gesù di Diego Fabbri, mette a nudo la loro dimensione più profonda, speranze, paura di amare, innescando in entrambi la scintilla del riscatto. Teodoro scopre contemporaneamente che qualcun altro, nel nome del padre, lo ha aspettato da sempre con affetto e discrezione...  
Al ritorno sulla scena nella Capitale ritrova subito ad affrontarlo i critici ostili, responsabili del suo licenziamento; è il momento tanto atteso in cui si rivelano la sua evoluzione di uomo, di artista e il suo amore per Viola.
Taliano Grasso ancora una volta predilige una storia anticonvenzionale con diversi registri espressivi e “incursioni nella tradizione picaresca, avventurosa, gialla, dei contes philosophiques” (Dante Maffia), confermando una sua poetica di fondo segnata da pagine di vibrante lirismo.
LanguageItaliano
Release dateJan 18, 2018
ISBN9788868226602
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    Mie care ombre addio - Rocco Taliano Grasso

    ROCCO TALIANO GRASSO

    Mie care ombre addio

    Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.

    Proprietà letteraria riservata

    by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2018

    ISBN: 9788868226602

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Gina mia madre

    mia ombra nel cuore

    luce e colore nell’anima

    Orfeo: «L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita.

    Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore.

    Cercavo un passato che Euridice non sa.

    L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto...».

    Bacca: «Il dolore ti ha stravolto, Orfeo.

    Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata».

    Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò

    Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte;

    soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo

    della nostra origine, per nascervi dopo,

    e ogni giorno più definitivamente.

    Rainer Maria Rilke, Lettere milanesi

    Licenziamenti

    Uscii furioso dal teatro senza nemmeno accorgermi della pioggia, col soprabito al braccio e la borsa in mano. Piangere proprio non mi veniva, e poi era anche superfluo, bastava il cielo a nausearmi dal farlo. Era l’ennesima delusione dovuta al mio caratteraccio, secondo loro, e anche se non mi avevano comunicato nessun provvedimento di licenziamento, la decisione era nei fatti, nell’incompatibilità tra la loro mediocrità e la mia diversità.

    Non era la prima volta. Un ciclo si stava chiudendo inesorabilmente. Cominciai a bivaccare per giorni a letto tra caffè, giornali, tv e telefono, con gli amici e i colleghi mai così felici di poter essere solidali dopo le lunghe, estenuanti stagioni dell’invidia. Proiettavo sul soffitto, con gli occhi sbarrati, le scene contestate dell’ultimo spettacolo, spiegandomi perfettamente le mie ragioni e le loro incomprensioni.

    Di teatro in teatro, scivolai dalla capitale nella periferia. Non accettavo quel declassamento che però poteva pure prestarsi ad un rilancio; la provincia era tutto un alveare di assessori e faccendieri spendaccioni, teatranti infoiati, e un buon nome come il mio sarebbe stato lietamente brandito da loro come una clava all’assalto del gran mondo. Mi si offrivano spazi e finanziamenti che potevano consentirmi di piombare alle spalle del nemico che gozzovigliava ormai incontrastato nella Capitale. In realtà sentivo dentro qualcosa di più profondo: non un ritorno ma una rigenerazione, la parola giusta e difficile, visti i miei studi teologici e filologici, era palingenesi, resettare il libro della mia vita per recuperare le pagine perdute e quelle sprecate.

    Ma ci voleva una lunga pausa di riflessione, un taglio netto, un addio solo temporaneo prima del gran ritorno. Al mio paese di origine del Sud qualcuno riuscì a captare da un notiziario regionale la notizia del licenziamento ufficiale e la voce volò, leggera quanto fatua, una curiosità di scarso peso, ben meno importante e appetibile di un pettegolezzo, un adulterio.

    Come per una sorta di legge del contrappasso, io mangiapreti fui invitato, per un compenso puramente simbolico, ad occuparmi della compagnia teatrale della parrocchia del Divino Amore. A me il compito di redimere una quanto mai varia umanità di sbandati e migranti, consegnatimi dalla Caritas diocesana. Accettai per non naufragare del tutto nell’indolenza, perché credevo, forse per convenienza, o per non morire del tutto, che almeno lì fosse meno vigile la censura del potere e più viva la fiamma dell’intelligenza e della fede.

    Ora, dopo più di un anno e mezzo dalla mia assunzione, fui convocato dal consiglio parrocchiale imbestialito. Mi invitavano a meditare sull’ultima bravata, sulla mia Madonna isterica che, a loro dire, non rispettava i canoni delle loro agiografie e sulle mie suorine con lo spacco che si dimenavano sulla scena, con cui intendevo rappresentare la corruzione della chiesa... Ancora una volta mi stavo occupando di cose che non mi aveva chiesto nessuno e di cui nessuno avvertiva la necessità. Quella provocazione alle soglie del Duemila era stata scambiata per blasfemia! Senza volerlo, me l’ero cercata un’altra volta.

    Dalle grandi platee al sottobosco delle province cosa cambiava? Ora sì, avevo conosciuto tutti i volti del potere, benché in possesso dei titoli richiesti e di un curriculum di tutto rispetto; purtroppo nella grande città la mia buona stagione, coronata dai successi di pubblico e da una critica sempre attenta e feroce nei miei confronti, non era valsa la riconferma. La nuova amministrazione politica si era insediata con ostentazione di prebende a tutti coloro che l’avevano entusiasticamente sostenuta con miserabili pacchetti di voti e salotti televisivi, mentre io proponevo Pasolini, Brecht, Sartre, Fabbri, Beckett, Artaud, qualsiasi maledetto che artigliava e ristrutturava anime, e tutto il teatro classico rivisitato e smontato dalle mie masturbazioni di spirito libero e progressista.

    Ad un passo dal secondo più inglorioso licenziamento, mi sforzai almeno di trarre lezione dal passato. Mi chiesi cosa potevo aver detto allora in quella dannata conferenza stampa capitolina di così intollerabile se non che io ero, più che per la libertà di stampa, per la libertà dalla stampaglia.. Forse essa non era tutta asservita ai giochi indisturbati del potere? Il dado era tratto, fui abile a coalizzarli tutti contro di me. Potevo scuotere le loro convinzioni, non le loro provvigioni…

    Avevo ignorato che il cuore si commuove, la tasca no, mai.

    Ora ecco all’oratorio del Divino Amore il mio nuovo escamotage: un’attricetta a digiuno di teatro e di benemerenze, una madonnina in salsa locale che aggrediva per finzione gli attori e il pubblico con la storia di Cristo che per lei non era meno figlio solo perché era anche il figlio di Dio.

    Non andava giù a nessuno che la Vergine venisse impersonata dalla giovane Viola, coi suoi occhi scuri e selvaggi, una fuggita al racket della prostituzione che aveva battuto le strade di Milano e della riviera adriatica in gonnellino e giarrettiere finché un prete di strada l’aveva dirottata lontano: al Divino Amore, da mani feroci a cuori altrettanto feroci...

    Volevo semplicemente ribadire il mio pensiero che in una comunità educante e dilettante prima dell’estetica viene l’umanità e chi non sente la vita, e non ne vede le luci e le ombre, è sordo e cieco e non può vedere Cristo.

    Insomma la mia madonna doveva essere una sofferente, solo una derelitta poteva innalzare in cielo e in terra un grido credibile, reale.

    Macché! La prima realtà per gli altri non è la vita ma il pregiudizio; così la puttana reale per loro prevaleva ancora sulla sua finzione di vergine sofferente. E io ancora una volta potevo ben fottermi del mio impegno intellettuale, volto a superare l’effimero in nome dell’arte… E insistetti nella mia scelta.

    Purtroppo, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi mondo, e ancor più in questo edificato a bella posta sul ricatto, non sarei mai sfuggito alla mia natura. Ero un licenziabile impenitente, perpetuo.

    Fiutata la tempesta, riunii i miei attori per salutarli. Molti di loro erano solo uccelli di passo, mi ringraziarono commossi; alcuni rimasero inebetiti, altri perfino piansero, nonostante venissero da lacrime ben più salate delle mie.

    Don Pietro, il parroco, per ristabilire la pace dell’anima, avrebbe affidato il corso e la rappresentazione sacra a un insegnante di comprovata e salutare provenienza, stavolta approvato dal vescovo. E io sarei tornato a chiedermi chi mai potesse ospitare uno spirito libero, e perché gli si negassero il mondo della scena e ora anche la scena del mondo, visto che sarei morto di fame.

    Seppi in seguito che Viola era stata degradata al ruolo di Maddalena, con ampia soddisfazione dei fedeli e con mio sconcerto, perché la peccatrice dei vangeli io l’avrei riscattata lo stesso come Gesù, ma avrei donato la madre di Cristo a una passione vera, a un volto inciso dal dolore di esistere, che essi scambiavano per peccato. Quel popolo di Dio invece non riscattava, trasferiva distinzioni e ingiustizie sociali sulla scena: se fai la puttana ti spetta la Maddalena, se fai la sartina fedele e laboriosa o la maestrina elementare armata di penna rossa ti meriti la Madonna.

    Vai a spiegarglielo il mio Artaud che un teatro sottomesso al testo «è un teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di pedanti, di droghieri, di antipoeti, di positivisti, in una parola di Occidentali…».

    Quel giorno, detta la parola amen anche su questo mistero glorioso, non rimaneva che leccarmi le ferite in casa mia, l’ultima frontiera che potevo ancora difendere, negli occhi lo sguardo smarrito dei miei attori e la dolce madreperlacea Viola, cui avevo donato l’aureola di madre del Signore, che mi aspettava a braccia conserte, appoggiata alla porta dell’auditorium:

    «Te ne vai?».

    «Me ne vado ancora, me ne andrò sempre ma non per sempre…».

    Mi guardò stupita, non capì:

    «Ce l’hanno con me?».

    «Ma no, cioè un po’ sì, ma più con me, eri splendida lassù, ma ti volevano in croce solo nella vita, non sulla scena…».

    Mi gettò le braccia al collo, mi sfiorò le labbra, provai un brivido. Cala il sipario, sorella, addio.

    Così il Divino Amore, dedito al recupero di profughi, svantaggiati e sfigati, mi diede il benservito e ne regalò al mondo uno in più. Furono onesti, furiosi ma onesti, mi liquidarono ogni spettanza.

    Ero bagnato fradicio, ogni mio addio era accompagnato dalla pioggia, mi seguiva come la nuvola di Fantozzi. Tutto sommato stavo bene, nonostante la mia cronica abitudine di pensare prima come stanno tutti gli altri e far dipendere da loro la mia salute. Entrai con l’automobile dal portale di casa senza riuscire a liberarmi degli occhi delusi del mio cast ancora sbarrati su di me. Per fortuna adoravo quel rustico ereditato da mio padre, un’incantevole corte a cui si accedeva dall’arco di una piccola galleria in pietra pavimentata di mattoni rossi, dove lasciavo spesso la mia auto per proseguire a piedi attraverso il giardino di limoni e aranci profumati intorno a un nespolo. Chiunque poteva entrare, perché nel mio borgo paradiso, come lo chiamavo io, non accadeva mai nulla di grave. Trovavo delizioso quel vicolo che sorgeva d’incanto svoltando dalla piazza, cui faceva da ouverture proprio la mia dimora, su cui si aprivano archi avvolti di rose rampicanti e abitazioni in pietra ingentilite da vasi di aloe, crateri di gerani e gelsomini.

    Ben presto ebbi il tempo di dedicarmi anche ad altre piantine e, in parte, alla casa; ne feci ristrutturare i solai in legno, aggiunsi le grondaie e i pluviali in rame. Nei giorni della fioritura degli aranci, tra aprile e maggio, adoravo attraversare seminudo in vestaglia, sentendomi un dio greco, il mio giardino inebriato dal profumo di zagara. Incantavo a quel fiore bianco e casto, così sobrio ed essenziale, mirabile fusione di eleganza e passione, di cui la mamma si agghindava, come avevo scoperto in un album di fotografie celato in un comò. Per lei, lo capii molto più tardi, voleva dire amore eterno per mio padre.

    Chiusi l’auto e, prima di salire, mi recai a svuotare la cassetta della posta nella speranza che mi giungesse qualche cenno di vita dal mio mondo precedente. Ma, caduto in disgrazia, sembrava che si fossero dileguati anche gli amici, gli ammiratori. Tra le detestabili lettere ordinarie e qualche rivista spuntò la solita sigaretta. Sospirai, sorrisi compiaciuto; una mano ignota, certamente sempre la stessa, l’aveva infilata lì come altre volte, non ricordavo più quante, a intervalli di tempo di mesi, da quando ero tornato al mio paese. Osava spingersi talvolta a lasciarla perfino davanti al portone interno della villetta, al riparo del tettuccio, per timore che la pioggia la bagnasse.

    La presi con garbo, era sempre la stessa marca, una Marlboro. Le ultime due le avevo scoperte nel giorno dei morti e durante le vacanze di Natale; adesso si stava avvicinando la Pasqua. Non ricordavo bene ma avevo l’impressione che qualcuno me le lasciasse esclusivamente per le feste religiose e in occasione di ricorrenze civili o politiche importanti: anonime e accuratamente deposte nella cassetta o sul pavimento, accanto al vaso di geranio del portoncino dove non potevano essere calpestate. Non avevo mai fumato una sigaretta in vita mia, forse qualcuno voleva prendermi in giro offrendomene una, ben sapendo che odiavo il fumo? No, mi sembrava troppo banale. Le custodivo in un portapenne in ceramica scolpito di rose, regalatomi da un’attrice romana, mia amante. Amavo il mistero e sorridevo, così le inventariavo tutte in attesa di capire.

    Sprofondai nella mia amata poltrona rossa dove ogni giorno leggevo avidamente i miei libri eretici, come sono tutti i buoni libri, leggeri ed eversivi, e un pensiero si faceva strada trionfante, araldo di pace e buon senso: dire addio a quella vita da teatrante, sì, improvvisamente ne sentivo il peso opprimente, ne rivedevo i traumi e gli ingorghi, le gioie da derubricare per non inveire contro la loro fugacità e le delusioni, sempre inestinguibili, le umiliazioni delle porte sbattute in faccia. Addio, sì, addio, io, Teodoro Gentili, rinasco a nuova vita. Da oggi recito a soggetto. Il mondo non merita altro che questo, cinismo e una filosofia adeguata di sopravvivenza. Dovevo aprire il cuore e tutti i pori della mia pelle alla grande vagina del mondo, e i piaceri e il caso avrei equiparato finalmente a miei poemi.

    Crisi di mezz’età

    Mi occorse circa mezzo secolo per accorgermi che la mia vita era ormai fuori controllo; né avrei saputo dire se una deriva, o una palude, è una capitolazione o il richiamo all’inventario di un’entità animalesca che nulla vuol sapere dei nostri progetti vanesi. Vedevo all’improvviso con orrore i cavalli imbizzarriti del mio tempo galoppare a briglia sciolta, sollevare gran polvere, appannarmi gli occhi. Ma recuperai l’autocontrollo, mandai al diavolo ogni autocritica, la vile inutilità di piangere sui bastardi che l’avevano di volta in volta deragliata e, in qualche caso, relegata su un binario morto che mi veniva spacciato per vita. Dovevo recuperare al più presto, non era il caso di aspettare qualche risarcimento idiota, o insperata fortuna. Non ero nemmeno stato con le mani in mano, le mie unghie avevano segnato più di una volta le carni di qualcuno e provvidenziali risvegli avevano mandato all’aria più congiure ordite per affossarmi prima del tempo in qualche morte vivente.

    Vennero giorni d’afa che minacciavano di sconfinare e devastare, e altri più temperati e invitanti, in cui cercavo segni che dovevano avermi atteso a lungo sul sentiero ben presto abbandonato. Alcuni libri di psicologia mi avevano brillantemente dissuaso dal pericolo dello sguardo mitico sul passato, eppure mi chiedevo ancora com’era possibile evitare di voltarsi indietro se a noi spetta solo questa briciola di tempo. Non era questione di inseguire il passato ma di salvare quel poco che ci unge le labbra dell’oleoso suo fiume.

    Dio che confusione, che grumo di contraddizioni l’anima...

    Ero ostinato, forse anche stupido e veramente arrabbiato. Non volevo farmi costruire addosso passivamente un’altra vita artificiale, né smarrire del tutto quell’istinto puramente animale con cui ero venuto al mondo, che ora avvertivo anch’io, quel colpo di coda della bestia che andrebbe invece educato progressivamente a riconoscersi nell’armonia dell’universo, noi distratti passeggeri, con tutto ciò che di perverso opponiamo allo spirito intelligente

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