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Candele alla notte
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Candele alla notte

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About this ebook

Alberto Rinaldi ripensa a una frase: "Venni a sapere che uno dei due era morto". È la frase di un sogno che racconta ad Alessandro, suo collega al ministero. Alberto è strano, parla per metafore e adotta spesso un tono sussiegoso. Chi è il morto del sogno? Questa domanda ossessiona Alberto ed è l'inizio di un viaggio a ritroso nel tempo. Alberto attraversa il proprio albero genealogico alla ricerca dei vittoriosi, il ramo familiare da lui considerato dominante. Torna ad Anticolo Corrado, dove vivevano i suoi e dove scopre la complessa vita del bisnonno, pittore mancato e venditore di sedie, punto d'inizio dei vittoriosi. Venendo a conoscenza del passato di Alberto, sia quello familiare sia quello di piccolo criminale, Alessandro riconosce inequivocabili analogie tra Alberto e Carlo S., un amico dall'esistenza burrascosa e tragica.
LanguageItaliano
Publisherlfapublisher
Release dateJan 13, 2018
ISBN9788833430201
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    Candele alla notte - Alessandro Di Nicola

    Alessandro Di Nicola

    CANDELE ALLA NOTTE

    Alessandro Di Nicola

    Candele alla notte

    Prima Edizione 2017

    ISBN 978-88-3343-020-1

    Lello Lucignano Editore

    Tutti i diritti sono riservati. © Copyright LFA Publisher

    Via A. Diaz n°17 80023 Caivano - Napoli – Italy

    Tel. e Fax 08119244562

    www.lfaeditorenapoli.it - www.lfapublisher.com - info@lfapublisher.com

    Partita IVA 06298711216

    Facebook, Twitter, Instagram & Youtube: LFA Publisher

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, luoghi o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    Non si impara nulla

    Poche parole, una frase semplice e inesauribile. Una di quelle che proteggono con il calore della loro banalità il fatto, evidente, di non avere alcun senso. Alberto se ne ricordò di sfuggita facendo colazione, ma fu sulla metro che quelle parole si aprirono come un fiore di pietra.

    Mentre tuffava il cornetto nel cappuccino la frase gli era sembrata falsa, troppo simile ai colpi d’arma con cui iniziano i tanti romanzi d’oggi che gli si spegnevano fra le mani, pagina dopo pagina: un avvio fulminante, un confuso strame di descrizioni vivide e dialoghi esclamativi, poi la noia. Ma lui non voleva certo iniziare un romanzo e, del resto, la sua vita era troppo simile alla brutta scrittura da poter usare questa come scudo contro la vita. Al terzo tuffo del cornetto, l’ultimo – così sembrava – si ricordò di una gara al liceo, una gara di corsa prolungata, snervante. Avvenne nella succursale della sua scuola, polverosa e abbracciata dai rovi. Lui che sapeva benissimo di non poter vincere, e quindi cercò la minima vittoria indispensabile per essere visto da qualcuno: corse all’impazzata per duecento metri o poco più, gli occhi puntati tutti su di lui, poi rallentò schiantato, si fermò e gli occhi intorno se ne andarono altrove. La sua frase ad effetto l’aveva scritta lì per lì con il sudore e il corpo che non rispondeva più, e se tutti gli altri quella corsa l’avevano poi dimenticata, tutti compreso forse il vincitore, lui ne tratteneva la forte immagine di dissipazione insensata e sterile.

    Terminato il cornetto, dopo essersi tolto con cura la traccia oleosa di crema rimasta sull’orlo del labbro, la solita crema chimica e arcigna dei bar, andò di buon passo verso la metro. Sotto il tabellone aspettò per cinque minuti l’arrivo del convoglio, fermo così, immobile come un ombrello da poco richiuso.

    – Ero lì in metro, Alessa’, e ripensavo alle parole del sogno di ieri notte: Venni a sapere che uno dei due era morto –. Prese una pausa. Inspirò. – Il sogno è scomparso, sgusciato via, come accade spesso. Succede anche a te, no? Ma non è esatto dire così. Più che altro è stato sgusciato da quelle parole, come un bel gamberetto. E una volta sgusciato, del sogno non sono rimaste che quelle stesse parole.

    – Sei stato dal cinese ieri sera, eh? – gli chiesi allegro.

    Applaudì: – Bravo! E come avrai capito anche stavolta ho preso il mio riso coi gamberi... ma adesso fammi continuare, – riprese subito con un’intonazione fissa della voce, più profonda del solito e quasi artificiosa: – Dicevo, la frase ce l’avevo ingigantita in testa. E in metro c’era davvero poca gente, talmente poca che le parole non solo rimbombavano dentro di me ma vagavano per tutti i posti liberi del vagone.

    A quel punto sbattei le palpebre e trattenni un largo sorriso. Quando Alberto cominciava a parlare così mi veniva sempre da punzecchiarlo. Mi trattenni perché, stavolta, l’argomento sembrava serio. L’avevo intuito appena era entrato in birreria.

    – Ricordo solo che nel sogno ero in uno stanzone buio, rannicchiato in un angolo. Chi è che era morto? Neanche questo ricordo. Una persona importante per me, certo, perché ne avvertivo la presenza. Ed era ingombrante.

    – Dico una banalità: visto che ne abbiamo parlato di recente, magari era tuo padre.

    – Sì, hai ragione. È possibile che fosse papà. Ma non è questo il punto... Il punto è che uno dei due, il morto dico, quando sognavo era la parte meno importante del sogno, capisci? Anche se da sveglio la frase è diventata qualcosa di molto diverso. L’equilibrio fra le parole è saltato. Quando ero lì rannicchiato il centro della frase era quello in ombra, quello, per così dire, finito nell’angolo insieme a me...

    – Alberto, ti capisco benissimo. Anche a me capitano ogni tanto questi sogni ridotti a monconi. Sbriciolati. E anche io ci rimugino su parecchio. Finché non trovo una soluzione all’enigma... Ovviamente la soluzione è sempre parziale, approssimativa. Poi dicono male della realtà: è nei sogni che ci si accontenta di più.

    – Eh, sogni del genere sono davvero appiccicosi. Non so in quale altro modo definirli. Uno ci ripensa il giorno dopo e continua a farlo anche per una settimana. Perché quello che resta da svegli è un ripostiglio abbandonato –. Io mi stavo guardando intorno ché pareva aver chiuso così il discorso, invece riprese: – Il ripostiglio di quando eravamo piccoli, con un mucchio di cose ormai ignote e da rimettere in ordine. Comunque, il centro del sogno era l’altra persona, quella che non era morta o che non lo era ancora e lo sarebbe stata fra breve. Ma fa lo stesso, perché comunque quella persona lì ero io.

    Con Alberto chiacchierammo per un’altra mezz’ora. Mi parlò della mattina solitaria in metro, il violinista che appena entrato lo guardò avvilito – questa l’impressione –, erano così pochi, ma poi sollevato per non dover suonare e potersi godere, così, almeno qualche minuto come un viaggiatore qualunque, dell’illuminazione che ebbe sul sogno e su se stesso, della corsa al liceo a cui ripensò di colpo, del fatto che considerasse quello, comunque, un suo «splendido fallimento», del motivo per cui lo considerasse splendido, dei quarant’anni che si avvicinavano; quasi senza mai prender fiato. Nel mentre ci scolammo un paio di birre, delle nuvolose belghe dai sentori claustrali. Finimmo poi con una bottiglia italiana che ci incuriosiva per il nome e la fiabesca descrizione che l’accompagnava. Fu la delusione giusta per farci alzare.

    Conobbi Alberto Rinaldi appena iniziato il lavoro al Ministero. Il suo ufficio era a un paio di porte di distanza e ogni tanto ci si ritrovava alle macchinette a prendere il caffè. Dopo alcune settimane venne spostato dove stavo io. Anche lui informatico e anche lui passava da un ministero all’altro, a seconda delle richieste. Mi incuriosiva. E per qualche strana ragione, sulla sua vita, su ciò che gli accadeva, era possibile pensare all’infinito, un pensiero dopo l’altro. Come se ciò che si veniva a sapere di Alberto smettesse di appartenere a qualcuno prima di smettere di interessare.

    Ricordo la prima cosa che notai di lui. (Non proprio la prima: appena cambiò stanza mi accorsi solo di una piccola stranezza. Mentre si alzava dalla sedia sollevava una spalla e poi l’altra, facendo leva su una palma come se l’intero peso dovesse convergere lì, pena il lacerarsi dei tessuti.) Avveniva tutto nell’istante in cui Alberto si allontanava dalla scrivania. Una pausa di dieci minuti per sgranchirsi, uno spuntino fuori: prima che arrivasse alla porta tu alzavi la testa e davanti ti si parava quello strano fantoccio. Rigido com’era, qualcuno doveva avergli infilato nelle giunture di braccia e gambe delle lunghe strisce ondeggianti; a metterle in fila ci potevi fasciare una Colonna Traiana – Alberto si sarebbe espresso così, sicuro. E le strisce sventolavano, folgorate bandiere, al sopraggiungere di un cambiamento, anche un piccolo mutamento di stato. Lui ne era cosciente? Chissà.

    Poi c’era il suo modo di vestire, ci misi un po’ per capirlo: se uno all’inizio poteva supporre che volesse solo stare comodo, le tute scure, le magliette dalle quali i colori avevano tutta l’aria di esser stati spremuti via, le grossolane scarpe color pece erano spenti muri. Barricate di cenere innalzate a sua difesa.

    Non era la prima volta che Alberto mi raccontava del padre. Quando ne parlava lo faceva con urgenza e, al tempo stesso, di sfuggita. E mentre parlava gravava di dettagli gli argomenti che considerava affini, come al cospetto di una luce che accendendosi e illuminando le cose intorno si sottraesse alla vista (così avrebbe potuto dire e non disse mai: la questione era troppo ravvicinata).

    Un giorno prese una cartina su Internet e mi fece vedere come arrivare alla casa dove abitavano mentre il padre era vivo. È qui! – e la casa era nel quartiere Aurelio, in un vialone alberato che, in cima un semaforo, nasceva dall’asfalto ininterrotto di una strada sempre trafficata, si immergeva e rinasceva sfrigolante di pini quando la strada passava sotto una banca tutta butterata di bianco, per poi adagiarsi fra le potature geometriche dei giardini che raddolcivano una serie di scuri caseggiati. Pensare alla morte di suo padre era per lui pensare fin nel minimo dettaglio alle stanze della casa in cui visse, alle strade che percorreva per arrivare lì.

    Nella sua cameretta dell’epoca il legno floreale accarezzava la testiera del letto e metteva radici sulla lunga mensola sovrastante, innalzandosi ai lati della piccola libreria che proseguiva verso l’alto la mensola; nel legno, che si espandeva come una pasta immobile e sinuosa, erano scavate tenui margherite, piccoli bottoni di carne ferma, e qualche rosa semiaperta a chiudere gli spigoli. Il palpitante legno non era poi altro che l’escrescenza virtuosa del legno levigato su cui il primo si appoggiava e da cui prendeva vita, simile a un boschetto reso ospitale e fresco dalle ombre che lo sorreggono a terra: questo secondo legno liscio, quasi a riposo, predominava nella parte della stanza non occupata dal letto.

    In quei suoi anni lontani, all’entrata della chiesa di quartiere un pannello di ceramica riproduceva più e più volte, rispettando ariosi intervalli fra un disegno e l’altro, un drago stilizzato in un fiore blu e rosso – ogni drago fiorito era distanziato in modo tanto accorto dal precedente e dal successivo da far sì che tutti insieme suonassero come musica sopra le teste delle persone sedute sotto il pannello. Per Alberto quei fiori erano la continuazione fra gente sconosciuta della sua camera, perciò pur non andando quasi mai in chiesa considerava questa una sorta di riverbero collettivo della casa. Il riverbero non lo toccava nello spirito e non faceva crescere nulla dentro di lui ma, certo, non poteva dire che non esistesse; era un suono dolce chiuso all’interno di una campana.

    In una cameretta del genere gli adolescenti fantasticano, costruiscono vite immaginarie. Almeno finché la realtà non riesce a riempire ogni alveolo di quelle fantasie o a buttar giù a spallate, in pochi colpi ben assestati, le loro vite immaginarie.

    Io non ce lo vedo Alberto a fantasticare come gli altri, supino sui fiori del letto e con gli occhi in su a fissare il soffitto, fino a ignorarlo del tutto. I suoi occhi devono aver guardato per anni la scrivania in mezzo alla stanza, perpendicolare al letto, le gomme le matite le penne, i pochi libri che negli anni sarebbero aumentati in modo vistoso, il fermacarte a forma di cane maculato, la lampada azzurra trasparente; gli occhi devono essere ritornati al punto di partenza, prima timidamente e poi con maggiore vigoria, guardando il loro guardare che combatteva e avanzava. Ne sono certo, è durante quelle pigre lotte delle pupille allo specchio di se stesse che sono nate le immagini conficcate nelle parole di Alberto.

    Ma, mi domando, non è fantasticare anche questo? Un po’ sì ma non del tutto. La fantasia vera costruisce catene di immagini interminabili ed è per lo più la porta di servizio da cui passa il mondo. Se punti gli occhi su qualcosa tanto da dimenticare felicemente quello che stai guardando, be’, il reale diventa così distante dalle vette innevate delle tue fantasie da vincere su queste con una facilità quasi comica: e forse è un bene per te che sia così (si chiama salute, no?). Alberto non lasciava aperta alcuna porta al mondo – le porte le chiudeva o se le lasciava alle spalle.

    Provo a spiegarmi meglio. Per farlo, per tentare di capire Alberto, devo continuare a scrivere come lui parla.

    Allora viene in mente l’argilla, la chinata figura di uno che la modelli con cura, che l’asciughi pazientemente e cuocia per il tempo richiesto. L’argilla nelle mani di Alberto crepava e nel cuore di essa, prima di qualsiasi raggio di sole, si intrufolavano le parole-immagini, crosta del mondo al posto del mondo. Parole simili potresti dirle ghiacciate o ribollenti – avresti, forse, ragione comunque – e la mia impressione è che fossero per il suo linguaggio quello che le strisce ondeggianti erano per il corpo.

    Ma mi posso sbagliare. E non voglio semplificare.

    Quella notte, usciti dalla birreria, sognai io il sogno che apparteneva ad Alberto e che lui non riusciva a ricordare con precisione. Eravamo riemersi nel nero dei cieli, arrivammo alle macchine e ci salutammo. Mi addormentai verso l’una, lasciando a intensità ridotta l’abat-jour del comodino. Ero buttato sul pavimento di una sala vuota. Uno sgabello dalle allungate gambe in acciaio rifletteva la luce dalla finestra alla mia sinistra, una luce puntuta e vagolante simile ai bagliori sulla carrozzeria delle automobili; guardai in alto: su una parete colava densa vernice blu. Sento avvicinarsi dei passi. Labbra di fronte a me rapide: Rispondi tu al citofono, vedi quale dei due vuole salire. Apro la porta, è distante parecchi metri; la raggiungo subito. Faccio entrare mia madre. Bianca in viso, gli occhi cerchiati, comincia a parlare mentre io mi giro dall’altra parte.

    Il resto del sogno ve lo risparmio, ché tanto dai sogni non si impara nulla. Figuriamoci dai sogni degli altri. E, poi, ormai questo era diventato mio e degli inesauribili significati di quello di Alberto s’erano perse le tracce. Una cosa, però, mi incuriosiva: nel mio sogno il morto era mia madre. È chiaro. Mi chiesi se questa non fosse, in realtà, la mia vera interpretazione del sogno di Alberto. Quella che per educazione ho evitato di esporgli. Come se, mettendo in mezzo il padre morto al posto di sua madre viva, avessi voluto evitare un imbarazzo ad Alberto e a me un conflitto aperto con lui.

    Ci pensai su la mattina dopo, mentre mettevo su la moka.

    È vero, lui del padre parlava sempre in

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