L'Orientale
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About this ebook
Chi è quell’uomo che la abita, seduto con imperturbabile distacco, e che le avvolge la mente con sapiente nodo come la cima alla banchina?
La bellezza perfetta dell’inizio di una nuova vita trascina Rita in Sri Lanka, dove tutto ha la sembianza del sogno e l’illusione della felicità.
Ma il destino non tarderà a condurre Rita a fare i conti con i propri demoni e con un realtà che fatica ad afferrare pienamente.
L’amore per l’uomo misterioso e l’incontro drammatico con Mina tracceranno nella sua vita un cerchio che si chiuderà dove tutto è iniziato, là dove molti decenni prima, una vecchia barca che porta il suo nome, scivolava sulle acque metalliche di Amsterdam.
L’Orientale è il secondo romanzo di Ilaria Vitali, già autrice per Antonio Tombolini Editore di Dietro lo Steccato.
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L'Orientale - Ilaria Vitali
POSTFAZIONE
Capitolo Uno
Anno 2010: Europa Amsterdam
L’uomo era un orientale, aveva lo sguardo serio ed era vestito di bianco.
Sedeva su una vecchia poltrona di cuoio, le gambe accavallate, il corpo fiero ben appoggiato allo schienale.
Sembrava vivesse in una poesia, la sua barca attraccata al molo racchiudeva segreti in rima, quasi troppo perfetti se non fosse stato per il nome dipinto in rosso sul verde del legno ormai sbiadito: RitaZ.
Avvolto da vasi di bosso e rampicanti gracili, parlava sommessamente al cellulare attraverso un auricolare che in quella visione mi era quasi sfuggito.
Il tono era pacato ma risoluto.
Quel nome, Rita, mi fece solo sussultare e non lo trovai divertente.
Rimasi per qualche minuto a osservare la sue mani curate mentre accompagnavano le parole, le sue e quelle cui stava prestando attenzione.
Dirigeva con gesti lenti ed eleganti un’orchestra di frasi e pensieri, quasi con distacco.
Proseguii per la mia strada perché per un attimo lui uscì dalla visione per entrare nel mondo reale, mi vide ed ebbe come un moto di nervosismo, infilò un paio di occhiali neri da sole e volse il capo dal lato opposto al mio.
Fu come se mi avesse chiuso la porta in faccia e ci rimasi male.
Tornando in albergo sentii la vergogna salirmi sulle guance e scendermi nelle gambe. Avevo rubato in casa d’altri, senza nemmeno conoscerli.
Era il mio terzo giorno ad Amsterdam, mi ero concessa una fuga dalla frenesia della quotidianità nell’unico posto in cui potevo essere nessuno.
Avevo ancora quarantotto ore per perdermi nelle stradine tutte uguali e sempre diverse, qualche sosta a un coffee shop, lunghe camminate per dividere i miei pensieri con il freddo pungente, poi avrei ripreso contatto con la realtà fagocitante che mi apparteneva.
Fuggire per un attimo mi dava l’illusione di poter fuggire per sempre, ma poi tornavo ogni volta.
Rividi l’uomo orientale il giorno dopo, passando per il canale dove era attraccata la sua barca.
Non riuscii a resistere all’impulso di tornarci ma lo feci senza arroganza, come se fosse una strada che puntualmente dovevo ripercorrere, o almeno così raccontai a me stessa.
In realtà era pura femminile arroganza.
Era intento a potare alcuni rami secchi e non mi degnò di attenzione ma, con lo sguardo basso sui germogli e sulle mani, mi sentii chiamare.
«Miss…»
Quel miss mi sarebbe rimasto nella testa fino alla fine.
Mi voltai, le ginocchia dentro allo stomaco, e guardandolo risposi al suo saluto.
Mi fermai e la sua mano, tesa con indifferenza ed eleganza, mi fece scivolare sulla sua barca.
Il mattino di Amsterdam era spietato come rocce inanimate. Ero vestita a strati e il berretto di lana non attenuava quel fiato gelido che si infiltrava tra i capelli.
Dovevo avere il naso rosso, lo capii dal suo unico sguardo a fissarmi la punta, serio e impassibile.
Mi fece accomodare di fianco alla sua poltrona, su uno sgabellino di legno.
Sparì solo un attimo per riapparire con due tazze di tè fumante e quando prese possesso del suo trono mi sembrò ancora più alto e non solo per la differenza di sedute.
La sua figura bianca e perfetta faceva ombra al timido sole e io rimasi lì, come ai suoi piedi, ad aspettare che mi parlasse ancora.
Il tè era profumato di gelsomino e scacciò quella coperta fredda che mi accompagnava dall’albergo.
Non mi sentii nemmeno stupida nel silenzio del nostro sorseggiare, senza sapere nulla l’una dell’altro.
Ero come in trance, avevo un altro punto di vista rispetto a quello che succedeva a terra e nello stesso tempo mi pareva di non essere lì.
Alcuni canottieri fendevano l’acqua senza troppo rumore, solo qualche frase intrappolata nel freddo.
Il brulichio di ruote era lontano, come assopito, e iniziai a sentire il beneficio dei raggi di sole che bucavano quella mattina così inospitale.
Osservai la tazza che tenevo con entrambe le mani per scaldarmi; era una tazza consumata, di porcellana bianca decorata con fiori e ricami blu e viola, il bordo dorato come il manico, l’interno un poco macchiato dal tannino.
La sua voce mi arrivò infine spezzando quel torpore.
«Miss… il suo nome?»
Rimasi come quando suona la sveglia.
«Rita».
Il mio tono era morbido e pacato ma la forza con cui pronunciai mio nome ridusse a silenzio tutto il mondo intorno.
Non una reazione, non un mutamento di espressione, solo un accenno del capo, un annuire che poteva significare tutto e niente.
«E il suo?» la mia voce si fece strada in quel niente così apparentemente immutabile.
«Namgyal».
«Io sono europea».
Non so perché lo dissi ma in quel momento non potevo sapere nulla.
«Io sono tibetano».
Tornammo a sorseggiare il tè, come se quello scambio nudo di informazioni fosse abbastanza per entrambi.
Non avevo la percezione del tempo, non avevo nemmeno la percezione del luogo.
Faceva troppo freddo per poter avvertire il tremito del mio essere, attraversato com’era dalla perfezione di quel momento.
Una sola emozione era davvero troppa, anche per chi non si aspettava null’altro che quel silenzio.
Lui, Namgyal, continuò a bere senza guardarmi ma mi sentivo osservata, quasi indagata.
«Abito su questa barca da tre anni».
«Sembra affascinante… Non ho idea di come possa essere vivere su una barca, credo sia un po’ come abitare un luogo che non c’è».
Non rispose ma sorrise e finalmente volse lo sguardo verso il mio.
Scorsi fierezza, debolezza, forza, passione e indifferenza.
E un milione di emozioni contrastanti che non avrei mai potuto esprimere, ma che mi assalirono impetuose.
Arrossii e accorgendomene il mio rossore aumentò.
Gli dissi che ero italiana e forse lo aveva già capito dal mio non perfetto inglese, che sarei tornata in Italia il mattino seguente perché la mia era solo una fuga dalla routine di tutti i giorni, che generalmente non davo così tanta confidenza agli sconosciuti ma che tutto sommato era abbastanza curioso che la sua barca si chiamasse come me.
«Forse destino, più probabile casualità».
La sua risposta secca ma gentile mi mise a disagio e solo dopo capii che fu come mettere le carte in tavola.
E io misurai per la prima volta il suo carattere.
Il mio rientro da Amsterdam fu un autentico delirio.
Il distacco che ero sempre riuscita a mantenere dopo le mie fughe fu letteralmente spazzato via.
Covavo dentro un virus instancabile che mi mordeva lo stomaco, soprattutto alla sera quando, rientrata dal lavoro, perdevo le coordinate di casa rimanendo sul divano a fissare la locandina di Metropolis di Fritz Lang appesa al muro.
Un futuro immaginato così tanto tempo prima mi stordiva la mente e mi faceva viaggiare.
Capitolo Due
Anno 2057: Asia Singapore
Mina aspettava in una stanza avvolta da una luce fredda che non creava ombre e che dissolveva tutti i suoi pensieri rendendoli distanti, quasi che non fossero i suoi.
L’aria era intrisa di disinfettante chimico che si insinuava con violenza nelle narici.
L’esasperata mancanza di rumore e di colore ingigantiva il senso dell’assenza perché la morte, alla fine, non è altro che questo: assenza.
Quando la porta si aprì alle sue spalle si sentì risucchiare.
«Signora, noi siamo pronti».
Annuì senza parlare per paura di inghiottire quella perfetta mancanza e si limitò ad allargare leggermente i piedi per avere maggiore stabilità.
Non voleva vacillare.
Non poteva vacillare.
L’uomo si mise al suo fianco e qualcuno accese lo schermo sulla parete di fronte.
«Benissimo, cominciamo».
Cominciare.
Partire dall’inizio.
Ma erano così lontani da dove tutto era cominciato, erano così lontani che erano alla fine.
«Caso RZ27998» disse l’uomo scandendo lentamente. «Anno governativo 2057, settembre giorno tredici, ore nove, zero minuti».
E la fine era quella, un piano bianco che esaltava la crudezza composta di quello che un tempo era stato un essere vivente.
Non si rese conto di aver chiuso gli occhi, solo per un secondo infinito, il tempo di ritrovare le coordinate di un volto che aveva amato e baciato mille volte.
«Uccellino! Mamma è già sveglia? Vieni qui a darmi un bacio».
Si abbandonava in quell’abbraccio con gli occhi ancora stropicciati di sonno e il ricordo del profumo di lei misto a quello del tè non l’avrebbe mai più abbandonata.
In quel secondo tutto il vorticoso silenzio si era concentrato, pronto a esplodere in un solo sussurro.
Riaprì gli occhi e la cucina con i piani di legno e cemento, il grande tavolo centrale troppo alto per lei, il suo sorriso caldo, l’odore forte di foglie umide, tutto sparì mentre disse:
«È lei».
«Cortesemente sia più precisa» e quella lama tagliente che era il disappunto di un burocrate le provocò un sussulto controllato.
«Rita Zorigo… Riconosco Rita Zorigo».
«Caso RZ27998, il teste riconosce Rita Zorigo, anno governativo 2057, settembre giorno tredici, ore nove, quattro minuti, dodici secondi, riconoscimento avvenuto».
Il suo nome nella bocca di quell’uomo suonò ridicolo e irreale come certe parole che a forza di ripeterle perdono l’anima.
«Abbiamo finito, l’attendo fuori».
Fuori non era fuori, era un’altra stanza asettica dove ritirò il soprabito e una scheda per recuperare nei giorni successivi gli effetti personali di Rita e le sue ceneri.
Fuori era al di là di quell’edificio e del suo cortile angusto, fuori era molto lontano da lì, così lontano che forse era in un altro tempo.
Non pianse, non sorrise, non manifestò alcuna emozione.
Raggiunse il punto di raccolta massiva e attese pochi minuti prima di salire sulla metro veloce.
Nemmeno lì pianse, si sedette composta fissando il pavimento e contando mentalmente il numero delle fermate che la separavano dalla sua discesa.
Pochi passi tra vicoli assordanti, l’ingresso nel portone del suo palazzo, l’ascensore vuoto che puzzava di pioggia stagnante e scarpe bagnate, il pianerottolo silenzioso e finalmente la porta del suo appartamento.
I ricordi sono come rami secchi nella notte, quando soffia improvviso il vento e cominciano a sbattere tra di loro facendo sobbalzare chi dorme.
«Uccellino, vuoi volare via? Vieni in casa!»
È così che la chiamava Rita, Uccellino.
Un anno il monsone fu così violento che piegò i banani del giardino e la pioggia cominciò a scendere impetuosa per tre giorni consecutivi allagando le strade.
«Non avere paura, qui siamo al sicuro, facciamo il tè».
E il profumo di cannella e cardamomo inondava la cucina che diventava un guscio caldo e inattaccabile mentre fuori il vento urlava trascinando foglie, sabbia, pioggia, come se il mondo dovesse finire in quel frastuono.
Mise a bollire l’acqua, cercando di nuovo quel guscio profumato, ma si rese conto che l’assenza era peggio di quel vento, si infilava sotto la porta, passava attraverso i muri, galleggiava nell’aria.
L’assenza era più forte della distanza e della dimenticanza e lei non si sentiva pronta per affrontarla.
Si sentiva come un palloncino pieno d’acqua con un invisibile foro da cui usciva un fiotto sottile e inarrestabile.
Ma quel foro non era nuovo e l’acqua aveva cominciato a sgorgare molto tempo prima, quando sua madre, quella vera, era ancora in vita.
Forse era arrivato il momento di svuotare l’involucro una volta per tutte, lo stillicidio stava esaurendo la fonte del suo tormento e dopo, alla fine, sarebbe stata libera.
Non pensava di avere così tanta vita alle spalle fino a quando non decise di mettere in fila tutti i ricordi, ora che Rita non c’era più, ora che davvero il cerchio si era chiuso, o così almeno pensava.
La notizia della sua morte fu come rivedere un film.
Aveva pensato tante volte a quel momento, con disperazione, con rassegnazione, ultimamente con distacco, come se il duro allenamento fatto in tutti quegli anni avesse dato i suoi frutti.
Mina aveva spalle larghe e testa alta, guardava in faccia al presente con il piglio di chi non ha paura, con la calma di chi non si fa più stupire da nulla.
Ma ora, che aveva deciso di riaprire quel disordinato armadio e guardarci dentro per metterci la parola fine, quando vide tutta quella vita ancora pulsare dal passato, si sentì improvvisamente mancare.
Fu come accorgersi in un attimo di essere stata bambina solo con lei, Rita, e di essere stata grande tutte le altre volte.
Grande con sua madre, impazzita in una sola notte, persa nel buio e mai più tornata indietro, lasciando al suo posto una bambola di pezza senza parole e senza sguardo.
Grande con gli uomini che negli anni si erano divisi il suo letto, lasciandola ogni volta senza un pezzo di vita ma solo con sassi duri da inghiottire.
«Non sono loro, Uccellino, sei tu che te li scegli».
E in fondo Rita aveva anche ragione, ma che ci poteva fare, prigioniera com’era di un incantesimo ridicolo e senza soluzione.
Ma per lei era Uccellino e lo sarebbe stato per sempre, anche quando i seni spingevano forte sul vestito e le sue prime scarpe con il tacco la portavano in alto nel cielo.
E poi tutti quei colori, nell’armadio,