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Permani
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Permani

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About this ebook

Lo straordinario viaggio di un adolescente, silenzioso e alienato, e un vecchio, che si ritrova a fare il nonno suo malgrado, costretto a passare le vacanze insieme a un nipote del quale sa pochissimo e non gli interessa sapere di più.

Il viaggio dilata tempi e spazi, produce suggestioni, tiene i viaggiatori sospesi in un’indolenza emotiva ed esistenziale, crea intorno ai due protagonisti una sorta di contenitore miracoloso tappezzato di libri, di citazioni, di storie che rimbalzano dalle pagine, di momenti di straniata poesia, di stralci di storia politica che conduce alle lotte proletarie, al terrorismo e a fatti di storia contemporanea.

Nel punto d’incontro dei mondi paralleli avviene una meravigliosa metamorfosi. Quel vecchio, dalla visionarietà obsoleta, si fa  nonno e quel ragazzo si trasforma in nipote sancendo un legame indissolubile tra i due.

 
LanguageÍslenska
Release dateJan 8, 2018
ISBN9788868226404
Permani
Author

Carlo Simonelli

Carlo Simonelli nasce a Tropea (VV) nel 1970. Frequenta il liceo classico “P. Galluppi” a Tropea diplomandosi nel 1988. Nel 1995, la ricerca di nuove frontiere lo porta in Svizzera dove tutt’ora risiede. Nel 1998 ottiene la cattedra in Educazione Fisica e Italiano in una Scuola Media di Berna (Svizzera). Nel 2003 ottiene la cattedra d’Educazione Fisica e Italiano in un ginnasio e un liceo di Berna. Nel 2008 avviene la sua prima pubblicazione I segreti del bosco di Nino. Nel 2009 viene pubblicato La festa del santo, il suo secondo romanzo.

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    Permani - Carlo Simonelli

    Collana

    Deluxe

    CARLO SIMONELLI

    Permani

    ISBN 978-88-6822-625-1

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Stampato in Italia nel mese di dicembre 2017 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A mia madre.

    Non sarai vecchio fin quando,

    ancora incline alla felicità,

    stipato nel tuo essere,

    avrai anche un solo sogno da realizzare.

    Capitolo 1

    – Quando arriviamo? – chiede il ragazzo all’uomo di fianco a lui.

    – Siamo appena partiti – risponde il vecchio con la faccia invischiata tra i fogli del giornale – ce ne vorrà di tempo ancora –. L’uomo se ne sta in silenzio, tra una pagina e l’altra guarda un po’ dal finestrino e un po’ nel vagone affollato. Fissa punti lontani che paiono smarriti nel tempo, un futuro inseguito da sempre sembra prendere corpo. Può quasi toccarlo con mani dure di fabbrica, ma fa paura, è sconosciuto. Nel bisogno di farsi forza guarda al passato, che a momenti, negli ultimi tempi, lo assilla sempre più spesso e lo getta nel mare della disperazione, in acque dove annaspa e a mala pena riesce a stare a galla.

    Il ragazzo tiene il suo cellulare sul palmo facendo dei tocchi ripetuti. Gioca. Le dita magre ticchettano sullo schermo, lo sguardo assorto, e si legge un’espressione insofferente sul volto infantile, ancora imberbe. Il naso piccolo e delicato si solleva leggermente dando al viso dai tratti lievi un’aria di aggraziata tristezza; i capelli sottili e chiari si accordano con la sua carnagione bianca, spolverata di lentiggini. Sembra imbronciato e forse lo è. Indispettito e forse lo è. Non è piacevole passare le vacanze lontano dalla mamma e dal papà. Va bene. Il papà non è che lo vede poi tanto, anzi.

    Un treno che corre chissà dove, non ricorda nemmeno il nome del posto, e quel vecchio lunatico che alza gli occhi ogni tanto dal suo giornalaccio a gettargli uno sguardo di disprezzo, mentre fuori i paesaggi si rincorrono, quelli vicini più veloci e quelli lontani che si muovono lentamente, come il tempo che non vuole passare. Casette di campagna minuscole lasciano il posto a terreni squadrati, dai colori diversi, per poi trasformarsi in colline di un biondo avvizzito, arido e caldo, che si susseguono come dune. Alte onde di grano sul mare di terra. Sarebbe voluto rimanere a casa. A casa. Da solo? Da solo, certo. – Ma non puoi rimanere qui, – aveva obiettato la mamma – da solo, poi. Non se ne parla nemmeno –. I suoi perché non avevano avuto altra risposta che dei no. Senza motivi. Perché lei era responsabile; perché un bambino non poteva rimanere solo a casa per tanto tempo. E ogni no gli era sembrato come uno schiaffo mentre lei glielo ripeteva in piedi, di fronte, dall’alto in basso.

    La donna si preoccupava, come tutte le mamme. E si sacrificava come tutte le mamme. Se ne doveva occupare quel buono a nulla di suo padre, ma a lui non passava nemmeno per l’anticamera del cervello. E ogni volta litigavano. Quando si erano conosciuti lei stava già con uno e quando andava nella trattoria dietro il Pirellone, durante la pausa pranzo, lo trovava sempre lì. L’aveva subito colpita la sua rozzezza bonaria e silenziosa. Poi aveva scoperto che il silenzio era dovuto più alle poche cose da dire che aveva, piuttosto che a un’inclinazione caratteriale. In compenso, nella pensioncina a buon mercato dove avevano cominciato a vedersi di nascosto da tutti riusciva a dirle tante cose che nessuno sentiva. E gliele aveva dette fino a quando lei era rimasta incinta. Aveva raccontato tutto a quello con cui stava, che non aveva avuto tanta comprensione per l’accaduto, e l’aveva lasciata. Fece, allora, come le aveva consigliato la sua amica Ada, e prima del parto si sposò. Fu così che si impegolò in una nuova storia, in un nuovo fallimento.

    Sulla sua vita e su quella di Ada non si sapeva niente di preciso, giravano solo voci, sussurrate, sempre pronunciate a denti stretti. L’unica cosa certa che erano molto intime. Era già successo, in passato, che qualche ex amica avesse messo in giro insinuazioni, come quella che tra di loro corresse un rapporto particolare o che avessero avuto entrambe lo stesso fidanzato, o altre cose strane. Tutte queste voci non avevano mai trovato conferma tanto erano campate in aria. Lei era molto volubile, questo sì, un po’ lunatica, non passava inosservata. Ed era anche per questo che si ritrovava spesso preda degli sguardi e delle parole dei passanti più intraprendenti, più donnaioli o più rozzi. Ma era una cosa che le piaceva, questa attenzione, il sentirsi desiderata, il poter comandare sugli uomini, almeno per il breve ciclo di un corteggiamento.

    Dopo alcuni anni di lavoretti saltuari malpagati, era stata assunta come cassiera in un piccolo supermercato, sognava ancora di diventare ricca e frequentare l’alta società e gli eventi mondani, magari apparire in televisione. Come ciò potesse accadere non era chiaro, sembrava doverle cadere dal cielo, ricevere un’investitura divina. Con la maternità questo desiderio non era scomparso, forse era stato solo sopito, messo da parte, rinviato a tempi migliori.

    Il matrimonio, che era cominciato col piede sbagliato, era andato a rotoli dopo quasi due anni di litigi e menzogne reciproche. Fu allora che d’estate aveva cominciato ad andare sulla Riviera, pensando che fosse il punto d’inizio giusto per realizzare i suoi sogni. E ci andava con Ada, e qualche volta anche col figlio. Ada veniva sola, suo marito aveva sempre impegni di lavoro, o era lei che trovava sempre i giorni nei quali lui non poteva andare. I conoscenti sempre a malignare che lo tradisse, a domandarsi quando la lascia. Ma lui pareva non accorgersi di niente, o forse gli stava bene così. Se l’avesse buttata fuori di casa sarebbe rimasta in mezzo a una strada e una volta era successo, o almeno così s’era detto in giro, e Ada era andata dall’amica, che aveva sempre un letto per lei. Poi era tornata dal marito, avevano fatto pace. Ma c’era ancora chi giurava che un’altra volta non l’avrebbe passata liscia, che quella era stata l’ultima occasione.

    Queste sono le sue prime vere vacanze. Finora non è stato che qualche giorno sulla Riviera romagnola e s’immagina che quella dev’essere l’estate. Un ordinato garbuglio di ombrelloni e sdraio su una spiaggia affollata da dove il mare si vede lontano. Geometrie di colori da indovinare. Sconosciuti che si radunano sull’arenile come in piazza, come ai cortei, come in un supermercato di periferia.

    C’è stato ogni tanto con la mamma e il mare, gli ombrelloni, le spiagge e tutti gli amici di gioco occasionali che gli è capitato di incontrare gli sono piaciuti. Ma non erano mai stati più di un gelato consumato in fretta o lasciato sciogliere che si osserva mentre cola, con gocce pastose e dolciastre sulle dita che divengono appiccicose e danno fastidio. Un po’ come il rapporto di sua mamma con lui. I suoi continui no. Le sue crisi isteriche. Il suo non stare ad ascoltare quello che dice. Quasi ignorandone i sentimenti. A ripetere sempre di non fare i capricci. Di fare il bravo.

    La Riviera gli ricorda anche gli uomini. Tutti fastidiosi e antipatici. Uomini che ronzavano attorno a lei, donna sola e graziosa, dal portamento sciolto, i polsi minuti e gambe lunghe, lo sguardo un po’ ingenuo e gli occhi da mucca; a lui è sembrato che a quegli uomini lei abbia sempre dato retta, forse troppa. La voce languida e gli occhi calamitati dalle loro labbra, dalle loro braccia.

    Il padre è tutta un’altra cosa, forse per questo i suoi genitori non sono mai andati d’accordo. Adesso, gli pare che sia passata un’eternità da quando si sono separati e lui è stato sballottato di qua e di là, senza posa. Suo padre lo vede solamente ogni due settimane, sempre stanco e stressato, come la mamma, sempre a correre, sempre ad avere qualcosa da fare proprio quando va a trovarlo. Gli ostenta impazienza e quasi un fastidio di godersi quei momenti con lui, una fretta di arrivare a domenica pomeriggio per poterlo finalmente riportare a casa e sbarazzarsene. Lasciarlo sul pianerottolo con un ciao e scendere le scale di corsa, di nuovo libero come alla fine della scuola. È brutto sapere di essere di troppo e non trovare la forza di levare il disturbo. Tutto è difficile. Anche i suoi capelli, che non gli piacciono.

    Per le vacanze estive quest’anno toccava proprio al padre tenerlo e sua madre gli aveva dato l’impressione di esserne felice. Gli era parso di sentire gioia nelle sue parole quando progettava con l’amica una settimana in Riviera. Gli era sembrato che esultasse dentro di sé. – Che bello, Ada. Andremo al mare, noi due sole! Ci divertiremo da matte – aveva detto alla sua amica tenendole le mani strette nelle sue mentre si guardavano negli occhi. E con quelle parole sottolineava tutta la gioia di potersi liberare di lui, se non altro per qualche tempo. Mostrava tutta la voglia di starsene da sola, di ritagliarsi una vita tutta sua nella quale il figlio non aveva parte. Era un mandarlo via, un rifiutarlo.

    Era un peso, per tutti.

    Per il padre neanche quello, non ricordava nemmeno di essere di turno per le vacanze e aveva già prenotato un viaggio in Spagna. Ti ricordi almeno di essere suo padre? – aveva chiesto la ex moglie. Non c’era problema. Non c’era problema. Se ne sarebbe occupato lui. Lei non si doveva preoccupare di nulla come non si doveva impicciare più della sua vita. La doveva smettere di occuparsi dei fatti suoi. Già prima, in continuazione, gli diceva sempre cosa fare, cosa dire, come comportarsi. E poi, quando tornava dal lavoro, gli chiedeva di raccontarle i fatti del giorno, per vedere se aveva fatto come aveva detto lei. E se non l’aveva fatto iniziavano a litigare. Litigi infiniti che duravano fino a notte e a volte anche per intere settimane, con urla dell’uno e dell’altra, con imprecazioni, con maledizioni del giorno in cui si erano conosciuti.

    Non aveva mai avuto intenzione di sposarla, ma non per lei. È che non gli era mai venuto in mente di sposarsi, né con lei né con altre. Al matrimonio non ci aveva mai pensato. Quando sentiva i suoi amici parlare di sposalizi non si fermava a ragionarci a fondo, a riflettere sul fatto che forse avrebbe potuto riguardare anche lui, che avrebbe potuto interessarlo. Nemmeno come un’eventualità futura che anche lui avrebbe potuto desiderare. Poi, quando lei gli aveva detto d’essere incinta e più tardi che il suo ragazzo l’aveva mollata, si lasciò guidare dalla sua volontà di dare una casa a quel loro figlio e annunciò anche lui il matrimonio agli amici, che lo sfottevano. Però continuava a sentirsi scapolo, come se dovesse fare il marito solo per formalità, per fare un favore a lei. Il passare dei mesi aveva dissotterrato le deboli fondamenta sulle quali poggiava quel rapporto malfermo e già dopo il parto le fratture si rivelarono insanabili. Lei era despota e pretendeva di dettargli la vita, allo stesso tempo si prendeva le sue libertà di donna moderna. Usciva con la compagnia di sempre, a volte tornava tardissimo, col puzzo di alcol e sudore, e anche di fumo. A lui non importava tanto, anche lui usciva coi suoi amici e aveva i suoi svaghi. Il loro conflitto nasceva dai punti più importanti di un’esistenza comune, su cosa mangiare o guardare in televisione. Poi cominciò a non sopportarla più, perché col passare del tempo aveva iniziato a comandarlo, e ogni giorno aggiungeva nuove richieste a quelle vecchie. Quando lui faceva di testa sua scoppiava il finimondo e lei gliene diceva di tutti i colori, ne umiliava i sentimenti di maschio. Il bambino si trovava in mezzo alle urla che talvolta lo chiamavano ad arbitro, ma cercava sempre di tenersi fuori, col silenzio.

    Adesso, aveva ragione il padre. Per lui, infatti, il problema non c’era, era stato risolto. L’aveva mollato al nonno, pensionato, articolazioni che scricchiolavano la mattina e che avevano bisogno di mezzora prima di poter essere usate in modo decente. Spalle storte, ingobbito, consumato da una vita di lavoro. Quando gli aveva chiesto di portarlo con sé, il vecchio era sembrato contrariato. Sempre a lamentarsi quando gli chiedi un piccolo favore, i genitori. Sempre pronti a rubargli ogni momento di svago.

    Gli aveva detto che quell’estate voleva andare giù, che non aveva tempo per queste cose, che lui avrebbe dovuto provare o almeno fare finta, qualche volta, di fare il padre. Non ci andava da decine d’anni, giù. Lui, non capiva perché suo padre facesse tutte quelle storie per prendere il bambino con sé. Mica doveva tenerlo a vita, qualche settimana. E poi, che doveva andare a vedere in quei posti? Che c’era da vedere? Non l’aveva mai capito, anche perché non c’era mai stato e non aveva mai avuto il desiderio di andare da quelle parti. Il vecchio aveva raccontato di voler vedere la sua terra un’ultima volta prima di morire e chiudere gli occhi in pace dopo aver sistemato tutti i conti che negli anni aveva lasciato in sospeso, e mentre lo raccontava la voce sembrava rompersi in un arrochimento, sciogliersi in parole che sembravano non voler uscire. Il figlio muoveva le mani tracciando delle forme nell’aria, con una mimica incomprensibile per chi non stesse ascoltando le parole, ma di perdigiorno in quel bar di periferia ce n’erano sempre tanti, tutti interessati più ai fatti degli altri che ai propri, tutti pronti a dare un buon consiglio. Come poteva fare altrimenti? Gli aveva raccontato che aveva già prenotato e non poteva disdire e che era una buona occasione per passare un po’ di tempo col nipote che vedeva poco e che Patty non l’avrebbe presa bene se avesse saputo che le vacanze non sarebbero state in due, doveva essere come una luna di miele, quella vacanza. Ma poi: giusto adesso gli era venuto il pallino che poteva morire? Non sarebbe potuto andare l’anno prossimo? Giusto adesso per metterlo in difficoltà? Non era egoismo, il suo, ma un padre potrebbe fare qualcosa per un figlio, ogni tanto. E tutti i perdigiorno ad annuire con la testa, a fare il tifo per la luna di miele in due.

    Il vecchio sa che morirà presto. Ci pensa da tanto tempo, medita da anni, e ha fissato, nella sua testa, una data che non vuole rimandare. E adesso è sicuro che presto arriverà la sua fine, è sicuro che si presenterà a chiedergli conto della sua esistenza, ma non lo sorprenderà impreparato.

    Non è che veda di rado il nipote, non lo vede mai, e i due quasi non si conoscono. Frequenta poco il figlio, che lo chiama solo quando ha bisogno di qualcosa, e la ex nuora gli dà ai nervi; non l’ha mai sopportata. La trova sciocca.

    Arroccati su questi pensieri, l’uno guarda dal finestrino e l’altro se ne sta zitto, come due estranei che si trovano per caso a sedere uno di fronte all’altro, in un vagone gremito di gente. Sorridono a tutti, il dolore si sottomette sempre al pudore. Vogliono rimanere in compagnia dei propri pensieri, soli con essi, in teste più affollate di quello scompartimento.

    – Dove andiamo? – domanda tanto per chiedere dopo un pezzo, tra il vociare della gente, senza che gli interessi veramente.

    – Lontano, molto lontano – risponde il vecchio in fretta. Non gli va di perdere tempo con un bambino viziato. Non gli va di perdere tempo adesso che ne è rimasto così poco. Intanto i paesaggi fuggono dietro i vetri e il sole, obliquo, lo abbaglia. La tendina non si può chiudere: è rotta.

    – Lontano dove?

    – In una terra bella e maledetta, accarezzata dal sole e maltrattata dalla gente – dice con una specie di sorriso, e aspetta per vedere la reazione sul volto pubere che gli sta di fronte.

    – Tu sei di lì? – chiede senza mostrare nessun sentimento.

    – Sì.

    – Allora l’hai maltrattata anche tu! – gli rinfaccia con disprezzo.

    – L’ho maltrattata anch’io, come gli altri. Più degli altri.

    Il ragazzo, che non capisce come si possa maltrattare la terra se non a colpi di zappa, rimane in silenzio e riprende a giocare.

    Il vecchio è contento di aver chiuso la discussione velocemente. Pur spiegando ciò che intende, il ragazzo non capirebbe e quindi, perché perdere tempo? Non sa di che parlare con lui. Di cosa può parlare? Di niente.

    La sera si fermeranno a dormire e il giorno seguente ripartiranno. Sembra un ritornare indietro nel tempo, di anni, di decenni, quel treno. I pensieri si continuano ad affacciare alla mente, ad accavallarsi, a sovrapporsi e vengono respinti dal vecchio che però non sa impedirgli di tornare, di opprimerlo, di graffiargli il volto con rughe profonde, mentre il sole continua ad accecarlo.

    Il ragazzo chiede a intervalli quando arriveranno. Il vecchio, già spazientito, gli spiega che dovranno prendere un bus, ancora un’oretta, che deve avere pazienza, che non è colpa sua se i suoi l’hanno scaricato a lui, come se fosse un pacco. Il caldo è asfissiante, il climatizzatore si è rotto, i finestrini non si possono aprire e la gente si lamenta in un vocio confuso e nervoso.

    – Come si chiama il posto dove andiamo?

    – Ah, quanto vuoi sapere tu ogni momento! Granatara si chiama, giù dopo Roma, poi Napoli e ancora più giù. Lontano – e si gira dall’altro lato mentre si fa aria col giornale.

    – Non l’ho mai sentito nominare.

    – E non lo sentirai nominare mai più dopo che ce ne saremo andati.

    Ma come può essere che non sappia che un suo parente tanto stretto sia di così lontano? Perché nessuno glielo ha mai detto? Quell’uomo è taciturno, misterioso e anche un po’ scorbutico. E nemmeno lui gli vuole bene. Gli sta tra i piedi,

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