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La nebbia nell'anima
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Ebook489 pages7 hours

La nebbia nell'anima

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Speranza Bicefalo è una giovane ragazza di Chioggia: bionda, occhi verdi, un fisico slanciato, intelligente, stimata da tutta la comunità, attiva in parrocchia e nel volontariato, studentessa di Medicina presso l’Università di Padova. Ma una mattina di novembre viene trovata morta sulla spiaggia di Sottomarina, con piccole croci rovesciate incise sul corpo.
Una setta satanica ha ordito l’omicidio? Cos’altro si nasconde dietro la morte di una ragazza acqua e sapone? Speranza Bicefalo era davvero la studentessa ‘casa e chiesa’ che tutti credevano, oppure serbava segreti inconfessabili?
Il quarantenne capitano dei Carabinieri, Claudio Sperandio, cercherà di fare luce sul caso anche grazie al diario della giovane vittima, per diradare la nebbia che sembra avvolgere ogni cosa, perfino le anime delle persone perbene del mitico Nord-Est.
LanguageItaliano
Release dateJan 4, 2018
ISBN9788866602408
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    Book preview

    La nebbia nell'anima - Massimiliano Ferrati

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    PROLOGO

    I

    II

    III

    IV

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    CAPITOLO 31

    CAPITOLO 32

    CAPITOLO 33

    CAPITOLO 34

    CAPITOLO 35

    CAPITOLO 36

    CAPITOLO 37

    CAPITOLO 38

    CAPITOLO 39

    CAPITOLO 40

    CAPITOLO 41

    CAPITOLO 42

    CAPITOLO 43

    CAPITOLO 44

    CAPITOLO 45

    CAPITOLO 46

    CAPITOLO 47

    CAPITOLO 48

    CAPITOLO 49

    CAPITOLO 50

    EPILOGO

    I

    II

    III

    IV

    RINGRAZIAMENTI

    Un Giallo di

    Massimiliano Ferrati

    La nebbia nell’anima

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-240-8

    LA NEBBIA NELL’ANIMA

    Autore: Massimiliano Ferrati

    © 2018 CIESSE Edizioni

    www.ciessedizioni.it

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di gennaio 2018

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2018 CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: © 2018 Victor Gladkov

    (diritto d’uso su autorizzazione di 123rf.com)

    Collana: Black & Yellow

    Editing a cura di: Renato Costa

    PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A te, cara mamma,

    che da lassù

    sarai la mia prima lettrice

     e il mio primo critico...

    PROLOGO

    I

    Sabato 4 agosto 2007

    Zanzibar Music Beach - Lungomare Adriatico - Sottomarina (VE)

    Ore 16:00.

    Un sole gagliardo dominava incontrastato l’azzurro del cielo, incendiando l’aria già rovente di metà pomeriggio. La spiaggia brulicava di turisti che si contendevano centimetri quadrati di prezioso spazio vitale. Il mare presentava colori che spaziavano dal blu scuro al madreperla. Piccole onde s’infrangevano sul bagnasciuga, dove alcuni bambini sguazzavano felici, mentre altri, intenti a costruire castelli di sabbia, erano circondati da accaldati genitori.

    All’interno di una tensostruttura bianca, a una cinquantina di metri dal mare, era in corso una festa di compleanno. Attorno a una lunga tavola da campeggio, imbandita con panini, patatine, torte di frutta e bibite gassate, erano radunate decine di bambini che riempivano l’aria con le loro voci eccitate. Due adulti osservavano la scena ai margini del tendone e facevano da sentinella, storditi da quella chiassosa cacofonia di suoni. Dopo una decina di minuti, quando sulla tavola erano rimaste solo briciole, mozziconi di pane e macchie di Coca-Cola, l’attenzione di tutti i presenti fu calamitata dall’ingresso trionfale di una torta di crema e cioccolato, sormontata da dieci candeline. Occhi meravigliati seguirono quel baluginare intenso di luci, mentre i sensi furono rapiti da un’intensa scia profumata che sapeva di vaniglia e di altre cose buone. Gli sguardi si posarono su una bambina bionda, dai grandi occhi verdi, un faccino punteggiato di lentiggini; era molto carina se non fosse stato per le braccia piene di cerotti e per il viso, che presentava numerosi graffi. Indossava una T-shirt rossa e pantaloncini jeans.

    Speranza Bicefalo era la festeggiata e sembrava proprio felice di essere al centro dell’attenzione. Le si avvicinò furtivo il padre Carlo, un uomo alto e magro, con le braccia sottili e sgraziatamente lunghe, i capelli castani e diradati, gli occhi chiari, piccole fessure che si aprivano su un volto pallido ed emaciato, una bocca sottile appena accennata.

    L’ingegner Bicefalo, che indossava solo un paio di slip azzurri, stava impugnando una Canon Reflex come fosse un’arma da guerra.

    «Su, Speranza, guarda l’obiettivo e regala un bel sorriso al tuo papà, ti prego!».

    La festeggiata offrì allora ai presenti un volto radioso, con quei suoi occhi così accattivanti e luminosi. Solo un osservatore particolarmente attento avrebbe potuto cogliere dietro a quell’espressione spensierata un alone opaco, all’interno del quale si nascondeva un mondo di sofferenze. Quella bimba portava ostinatamente dentro di sé un grande segreto, e lo avrebbe difeso strenuamente dalla curiosità morbosa della gente. In realtà, Speranza stava faticosamente cercando di lasciarsi alle spalle anni difficili, in cui l’ombra dell’orco, del personaggio cattivo delle fiabe, si era estesa minacciosa sulla sua infanzia e ora popolava molte notti insonni. La vita della bambina, iniziata come una bella favola tra agi e ricchezze, si era ben presto trasformata in un racconto horror. All’improvviso, i buoni avevano indossato la maschera dei cattivi, come per effetto di un inspiegabile sortilegio. Ora voleva solo dimenticare, ma non era facile perché ogni sera doveva guardarsi alle spalle con timore: quel mostro viscido poteva esserle accanto, pronto ad azzannarla allungando le mani sudice sul suo corpo esile. Non sopportava più di sentire sul viso delicato l’alito pesante e maleodorante dell’orco. Ma in quel giorno di festa non poteva esserci spazio per i cattivi pensieri; il compleanno doveva rappresentare un’oasi di tranquillità e di pace, dove i mostri malvagi non avevano accesso. Speranza era determinata a godersi appieno quel momento, circondata da tutti gli amichetti, e allora spense con forza ed entusiasmo, in un colpo solo, tutte e dieci le candeline.

    Seguì un applauso scrosciante. Mamma Paola le scoccò un bacio sulla guancia destra abbracciandola intensamente e costrinse il figlio, più piccolo di un anno, a fare altrettanto. Giovanni posò allora timidamente le labbra sulla guancia sinistra di Speranza, in modo goffo e senza alcun trasporto.

    Il padre Carlo era invece distratto da un’appassionante conversazione che stava intrattenendo con una ragazza ventenne, vicina di casa, avviluppata in un copricostume aderente di color rosa pesca. Speranza aveva imparato a non dare troppo peso all’indifferenza del genitore: un tempo sì, ne aveva sofferto, ma ora se n’era fatta una ragione.

    Brindarono tutti, sollevando al cielo bicchieri di carta pieni di spumante.

    «Happy birthday to you, cara Speranza, tanti auguri a te!», salmodiarono decine di voci all’unisono.

    La festa proseguì fino a quando il sole andò a morire sotto la linea dell’orizzonte, allungando le ombre sulla spiaggia; a quel punto gli ospiti, uno dopo l’altro, si congedarono. Solo allora Speranza si dedicò all’apertura dei tanti regali ricevuti: peluche, bambole, vestitini colorati, persino una mutandina di pizzo, un regalo del papà.

    In un primo momento, la bambina osservò l’indumento intimo incuriosita, poi lo gettò con rabbia nel sacco della spazzatura. Brutti ricordi erano affiorati alla mente, improvvisi, inaspettati, sgraditi. Compiva dieci anni e non pensava certo che nel giro di qualche lustro avrebbe addirittura rimpianto quel pomeriggio di felicità. Il nome che portava con tanto orgoglio e che voleva essere un augurio di buona vita, in futuro non si sarebbe rivelato il più adatto a lei.

    II

    Sabato 4 agosto 2007

    Reggio Calabria.

    Ore 16:10.

    Il Meridione d’Italia da giorni era martoriato da un caldo soffocante, quasi insopportabile. Il sole si abbatteva implacabile sulle strade deserte, riflettendosi sui vetri delle finestre, abbagliando i pochi coraggiosi passanti. Il cielo era di un azzurro intenso, al quale faceva da contraltare un mare trasparente che si distendeva placido lungo lo Stretto. La spiaggia si era trasformata in un festival all’aperto dell’allegria e dei colori, un inno alla vita e alla gioventù. Un venticello sbarazzino si levò improvvisamente dal mare, accarezzando dolcemente le pelli nude che si crogiolavano al sole.

    Dall’alto non era ancora piovuto alcun indizio premonitore, ma quel pomeriggio spensierato stava per essere rovinato da un evento tragico.

    La filiale della Banca Cooperativa locale, ubicata a poche centinaia di metri dal mare, lungo la frequentata via Italia, era affollata di clienti, per lo più pensionati in fila ordinata allo sportello per ritirare i pochi soldi ai quali era legata la loro misera sopravvivenza. In coda si trovava anche una ventenne, molto avvenente, una tipica bellezza mediterranea con la carnagione ambrata e la folta capigliatura corvina. I suoi occhi verdi, con una lieve sfumatura di indaco, sembravano disegnati con il rimmel, ma erano splendidamente naturali e ricordavano diamanti preziosi. Gioia Imbriani indossava jeans di colore azzurro chiaro e una maglietta bianca di cotone che aderiva alla pelle in modo molto sensuale; mostrava anche meno dei suoi anni, con tutte quelle lentiggini che punteggiavano il viso conferendole un aspetto sbarazzino, decisamente simpatico. Nel suo sguardo, che si stava spalancando su un futuro carico di aspettative, si poteva leggere tutta la felicità del mondo e tante promesse che attendevano solo di realizzarsi.

    Ma Gioia ignorava di avere un appuntamento con il destino.

    All’improvviso, all’interno della banca, il lieve ronzio dell’aria condizionata fu sopraffatto da un rumore intenso, come un’esplosione.

    Fece irruzione un commando di quattro uomini armati, travisati con copricapo scuri. I banditi, sotto la minaccia delle pistole, ordinarono ai presenti di distendersi a terra. Intimarono al direttore di aprire la cassaforte e chiusero la porta da dentro, prendendo in ostaggio proprio la giovane ragazza dai lunghi capelli corvini. Gioia cominciò a piangere. I rapinatori nel giro di pochi minuti riempirono due sacchi di denaro contante e lingotti d’oro; si trattava di un colpo sensazionale, per di più realizzato in pieno giorno: un lavoro da veri professionisti. Ma qualcosa andò storto, perché un impiegato azionò di nascosto l’allarme. Così, mentre i malviventi, appesantiti dalla refurtiva e trascinandosi dietro l’ostaggio, uscirono per darsi alla fuga, l’aria immota di metà pomeriggio venne squarciata dal suono penetrante delle sirene dei Carabinieri. Due pantere piombarono davanti all’ingresso della banca; uscirono otto militari armati fino ai denti. I banditi ripararono di nuovo all’interno della filiale e a quel punto iniziò una serrata trattativa tra la banda e le forze dell’ordine. La tensione, in breve, salì alle stelle.

    Il trentenne Claudio Sperandio, promosso da pochi mesi capitano, ma con alle spalle già dieci anni di onorata militanza nell’Arma, condusse in prima persona la trattativa con il capo del commando, Peppino Vantaggiato. Il malvivente, che indossava una canottiera bianca senza maniche e pantaloni di fustagno, ai piedi zoccoli di legno, era un uomo basso e tozzo, con la barba ispida, che parlava uno stretto dialetto calabrese. Sperandio presentava invece un fisico aitante, atletico e muscoloso, ma al contempo aggraziato; alto un metro e ottanta per settantacinque chili, aveva spalle larghe, occhi neri e penetranti, folti capelli scuri e mascelle volitive. La divisa che indossava lo rendeva ancor più affascinante. Aveva ereditato il grande amore per l’Arma dal nonno, un maresciallo dei Carabinieri che nel corso della carriera si era distinto per diversi atti eroici ed era stato più volte insignito di onorificenze, e poi dal padre, un tenente morto quattordici anni prima in circostanze tragiche nell’assolvimento del proprio dovere. Dai suoi avi, Claudio aveva ricevuto in dono l’innato senso della giustizia, dell’equità sociale, dell’onore e della fedeltà alle Istituzioni; valori, questi, che intendeva difendere a ogni costo, dimostrandosi, se non superiore, almeno all’altezza del padre e del nonno.

    Dalla madre, insegnante di lettere, aveva invece appreso l’amore per la letteratura e la scrittura, hobby che coltivava nel poco tempo libero che gli rimaneva al di fuori della professione. Quel caldo pomeriggio di agosto, il giovane capitano aveva il morale a mille e il petto gonfio per la fresca promozione, inseguita a lungo ma assolutamente meritata, dopo aver speso anni a contrastare in prima linea l‘Ndrangheta.

    Così, con un’insolita determinazione, Sperandio impugnò la pistola in dotazione, una Beretta semiautomatica, e il suo cuore accelerò incredibilmente i battiti. Non vedeva l’ora di assicurare alla giustizia quel manipolo di criminali. Si sentiva sicuro di sé e già immaginava i titoli che le principali testate giornalistiche gli avrebbero dedicato l’indomani, celebrando in pompa magna la sua audacia. Certo, il protocollo imponeva in quei casi di condurre la trattativa in modo prudente, senza forzare la mano, con l’obiettivo primario di salvaguardare la vita degli ostaggi, tuttavia il suo istinto di combattente gli stava suggerendo ben altro. La tensione continuava intanto a salire, come la temperatura sull’asfalto sferzato dal sole. Peppino Vantaggiato chiese l’invio immediato di un’autovettura per potersi dare alla fuga con i suoi uomini, l’ostaggio e il bottino; assicurò, come contropartita, che avrebbe rilasciato la ragazza non appena avessero raggiunto la periferia della città. Quel patto non piacque affatto al capitano, che tuttavia finse di accettarlo, disponendo il pronto arrivo di una Fiat Punto bianca. La macchina giunse nel giro di pochi minuti e fu parcheggiata di fronte all’ingresso della banca, con il motore acceso e le portiere spalancate. Dopo interminabili minuti, la trattativa si concluse e le porte della filiale si schiusero. Il commando uscì, in testa Peppino Vantaggiato che avanzava facendosi schermo con la povera ragazza, alle cui tempie era puntato un fucile a canne mozze. Proprio quando il bandito raggiunse la portiera della Punto e cercò di entrare all’interno della vettura, spingendovi dentro l’ostaggio, lasciò per un attimo scoperto il fianco sinistro. Tutto si svolse velocemente, lo spazio di un lampo e di un tuono. Si sentì il fragore di uno sparo, subito seguito dal riverbero di un altro. Poi, silenzio, assoluto e assordante.

    L’aria si riempì di un odore aspro e pungente. Due corpi si afflosciarono lentamente a terra, l’uno sopra l’altro. Sull’asfalto si estese una macchia di color rosso cremisi. Tre banditi si allontanarono a passo veloce dalla scena, sparando all’impazzata. Quando l’atmosfera tornò immobile, a terra, di fronte alla banca, due cadaveri si tenevano teneramente abbracciati. Il primo, con il fianco sinistro squarciato, era quello di un uomo basso e tarchiato, il capo della banda. Peppino Vantaggiato lasciava una moglie casalinga, un figlio ventenne e una piccolina di dieci anni, bocche che ora altri avrebbero dovuto sfamare.

    L’altro corpo inerte a terra, era quello di una donna, colpita alla nuca da un proiettile sparato da uno dei malviventi, che aveva premuto il grilletto dopo aver visto il capo ferito a morte. Aveva lunghi capelli scuri, raggrumati di sangue, due occhi grandi e verdi sbarrati, inespressivi. La morte aveva cancellato quella lieve sfumatura d’indaco. Gioia Imbriani non avrebbe più avuto un futuro davanti a sé, non avrebbe più fatto ritorno a casa dalla madre Maria, dal padre Otello e dal fratellino Simone, che anche quella sera la stavano aspettando impazienti.

    Il capitano, immobile come una statua, con l’arma ancora stretta in pugno, stava fissando quella macabra scena. Un tenente ancor più giovane gli andò incontro, sottraendogli delicatamente la pistola; un altro collega gli cinse le spalle, invitandolo ad allontanarsi dai corpi esanimi e da tutto quel sangue. Ma Sperandio non reagiva, era in stato di shock. Si sentiva responsabile di quelle morti. Un pesante macigno si abbatté sulla sua coscienza: a causa del comportamento superficiale, impulsivo e imprudente, aveva spezzato due giovani vite. Come un’atroce beffa, la sua azione avventata aveva finito per agevolare la fuga dei complici. Non avrebbe dovuto aprire il fuoco per primo, anzi, si disse, proprio non avrebbe dovuto sparare! Il protocollo, in quei casi, non lo prevedeva. Era stato troppo sicuro di sé, delle sue capacità, sottovalutando il pericolo; non aveva messo al primo posto la vita dell’ostaggio, ingannato da uno stupido orgoglio, tradito dalla sua insensata vanagloria, per un istante di notorietà destinato a essere spazzato via, per sempre, dal destino, come foglie d’autunno sferzate da un vento gelido e implacabile. Se solo avesse agito diversamente, Gioia Imbriani, la bella ragazza dagli occhi verdi e dal volto sensuale punteggiato di lentiggini, avrebbe potuto ancora sorridere alla vita, e un giovane padre di famiglia, anche se schierato dalla parte del male, avrebbe riabbracciato i suoi figli.

    Claudio Sperandio si sentiva morire, il mondo gli era crollato addosso. Tutti i suoi sogni, diventare un Carabiniere bravo e leale, come lo erano stati prima di lui il padre e il padre di suo padre, erano evaporati in quella calura ossessiva come pozzanghere nel deserto. Tornò a casa e agli occhi della giovane fidanzata Michela, apparve un uomo letteralmente distrutto, prima ancora che un militare sconfitto. La ragazza non disse nulla, ma riuscì perfettamente a leggere la disperazione sul viso dell’amato.

    Fu merito di Michela e della sua innata dolcezza se Claudio, alla fine, decise di non abbandonare l’Arma, come si era ripromesso di fare a caldo, nei giorni immediatamente seguenti alla tragedia.

    Tuttavia, il capitano si portò dentro per sempre quel ricordo e quel rimorso, anche se riuscì a tenerli ben celati nel segreto del proprio cuore. Ma certe ferite profonde, invisibili agli occhi della gente, lasciano in realtà una cicatrice che segna per sempre l’anima di una persona, soprattutto quella sensibile di un giovane ragazzo che sognava semplicemente di diventare un valoroso servitore dello Stato.

    III

    Martedì 7 Agosto 2012.

    Calle San Giacomo – Chioggia (VE)

    Ore 18:00.

    Speranza indossava un pigiama rosa ed era distesa sul letto, supina; stava pensando a tante cose: alla vita, al suo tormentato passato, al suo difficile presente, al suo oscuro futuro. Da pochi giorni aveva compiuto quindici anni. Da quasi due era diventata una donna a tutti gli effetti. L’adolescenza e i primi turbamenti avevano fatto irruzione improvvisi, quasi inaspettati, nella vita di quella dolce bambina che amava trascorrere ore interminabili a giocare da sola con un bambolotto di pezza rossa di nome Tato, che accudiva come un figlio.

    Speranza non aveva amici, non tanto per colpa di un carattere particolarmente scorbutico, ma semplicemente perché era schiacciata dal peso del suo segreto. Un segreto che non poteva condividere proprio con nessuno, nemmeno con il fratello quattordicenne Giovanni che, sconvolto da una violenta tempesta ormonale, aveva la testa lontana anni luce dal suo universo complicato. Giovanni, a ogni modo, non avrebbe potuto comprenderla, né tantomeno aiutarla. Il mostro era troppo astuto, troppo forte per entrambi. Forse, se in passato fossero stati più uniti, avrebbero anche potuto affrontare assieme quell’essere malvagio, e addirittura sconfiggerlo. Ma loro due non erano mai stati una squadra, non avevano mai avuto nulla in comune, se non l’essere nati dagli stessi genitori, per uno strano gioco del destino. Tutto il resto, la vita, il carattere, le passioni, li aveva profondamente divisi. Anche esteriormente erano diversi: lei così bella, dai lineamenti eleganti e dalle forme arrotondate e sinuose, un volto acqua e sapone, sexy come sua madre, o almeno come lo era stata un tempo la signora Paola. Il fratello, invece, era magro e poco muscoloso, allampanato, un po’ ingobbito anche per il modo goffo di camminare e di gesticolare; pallido in viso, occhi piccoli e infossati, capelli sottili e ribelli, spalle strette e gambe troppo magre: la brutta copia dell’ingegner Carlo Bicefalo.

    Sembrava che il Signore si fosse sadicamente divertito a ripartire malamente i geni all’interno della famiglia Bicefalo, donando tutto il meglio alla femmina e regalando gli scarti al maschio. Ma, al di là dell’aspetto fisico, Giovanni e Speranza erano sempre stati divisi da un’accesa rivalità.

    A dire il vero - rifletteva Speranza, fissando un piccolo ragno appollaiato sul soffitto - è sempre stato Giovanni a provare un pesante disagio nei miei confronti, fin da quando eravamo solo dei bambini. Un senso d’inadeguatezza che ha sovente sconfinato nel risentimento, se non forse nell’odio.

    Lei era brava, intelligente, tanto perfetta da non sembrare neppure vera agli occhi del fratello, stimata e ben voluta da tutti; Giovanni invece passava indifferente davanti agli occhi della gente e soprattutto della madre, a stento sopportato da un padre che non riusciva a cogliere in lui l’atteggiamento virile di un uomo, quella vis che pretendeva da un figlio maschio. Sovente il ragazzo era stato il bersaglio preferito della sorella, che lo prendeva in giro e lo umiliava con la cattiveria di cui solo i bambini sono capaci.

    Speranza sorrise proprio mentre il ragno aveva preso a scenderle sul viso, rammentando come il fratello fosse sempre stato un imbranato e un insicuro, capace solo di collezionare brutti voti a scuola e di bagnare il letto. Lei, invece, si era confermata ogni anno la prima della classe e la più brava negli sport, suonava meravigliosamente il pianoforte e aveva persino vinto un premio di poesia riservato agli studenti delle scuole medie.

    Un velo di tristezza offuscò all’improvviso il sorriso della ragazzina, i cui lunghi capelli biondi erano sparpagliati sul cuscino, ma non era certo colpa del ragno, che ora stava zampettando sfrontato sulle sue guance. Un ricordo lontano l’aveva sorpresa, risalente a tanto tempo addietro, quando aveva solo sette anni. Si rivide bambina, sempre taciturna, appartata nel suo mondo misterioso fatto di libri, di pagine e pagine di strani racconti fotografici di mostri e fate, a parlare per ore e ore con un muto bambolotto di pezza rossa.

    Una mattina di febbraio del 2005 era tornata a casa da scuola in lacrime, stringendo nella mano un disegno che aveva fatto per la maestra. Il quadretto ritraeva la sua famiglia durante una scampagnata domenicale sui Colli Euganei, con il prato verde, i fiorellini colorati, il sole e le nuvole. Purtroppo, per quel lavoro aveva rimediato solo un quattro, un voto talmente basso da lasciarla stordita e umiliata. Nel disegno, in primo piano, Speranza aveva ritratto se stessa mentre teneva per mano la madre: entrambe erano sorridenti e indossavano abiti eleganti dai colori sgargianti. Il padre Carlo lo aveva invece disegnato più lontano, vestito di nero, con il volto scuro e i tratti indefiniti, molto più alto e sgraziato di quanto non fosse realmente, con un braccio esageratamente lungo che si distendeva fino a cingerle completamente le spalle: una specie di mostro tentacolare. Era stato quel particolare a colpire la maestra, che aveva subito convocato i genitori per chiarimenti sulla sanità mentale della ragazzina. Giovanni era stato dipinto piccolo, confinato in un angolo del foglio, con le dita buffamente infilate nel naso e lo sguardo corrucciato. Speranza ricordava di aver fatto in mille pezzi quel disegno e di essersi rinchiusa in camera a piangere, sfogando tutta la propria frustrazione su Tato, l’orsacchiotto di pezza rossa con un solo bottone cucito come occhio: un buffo ciclope in miniatura. Era uscita solo tre ore dopo, cedendo agli insistenti richiami della madre.

    Si rivide in lacrime, fuori dalla porta della cameretta, con lo sguardo stralunato, il viso e le braccia graffiate e gocciolanti di sangue, gli occhi gonfi e arrossati, il muco che le colava dal naso.

    Rammentò di aver rivolto alla madre uno sguardo da cane bastonato, pronunciando solo una frase: «Lo so, mio figlio è stato proprio cattivo... ho provato a insegnargli un comportamento corretto e l’ho duramente rimproverato per quel brutto disegno che proprio non è piaciuto alla maestra, né a suo padre. Perché è stato lui a farlo, sai! Lui odia suo papà, proprio non lo sopporta. E invece di chiedermi scusa, è andato su tutte le furie, mi ha aggredita e graffiata con le sue unghie affilate. Mamma, cosa devo fare con lui? A volte mi fa dannare, ma è un bambino così adorabile...».

    Sua madre, allora, le aveva regalato un sorriso rassicurante, rispondendole con dolcezza e cercando di assecondare la figlia: «Mia cara, con i bambini bisogna avere pazienza, tanta pazienza, come quella che io ho tutti i giorni con te e con Giovanni! Non ti preoccupare, Tato diventerà un bravo giovanotto, un giorno sarai orgogliosa di avere un figlio come lui, vedrai!».

    Il ragno, intanto, si era rifugiato sotto il cuscino, ma Speranza continuava a fissare il soffitto, cercando di recuperare frammenti di vita passata.

    Si rivide così già grande, al Ginnasio. Aveva sempre il massimo dei voti in tutte le materie, in particolare in latino, ma erano i suoi temi, quelli di attualità, a lasciare interdetti i professori e i compagni di classe: composizioni strane, popolate da mostri che minacciavano bambini e donne indifese. Non c’era spazio, nei suoi scritti, per una normale e serena quotidianità, com’era invece ben rappresentata dagli altri coetanei.

    All’improvviso Speranza staccò gli occhi dal soffitto e girò la testa verso il cuscino, ma non vide più il piccolo ragno. Sulla parete bianca della camera proiettò il ricordo di suo padre, pochi giorni prima, la sera del suo quindicesimo compleanno. Carlo aveva bussato alla porta entrando furtivo, proprio mentre lei era intenta a scartare i regali. Con una scusa si era accomodato sul letto prendendole una mano. Poi, le dita rozze dell’ingegnere si erano spinte fino a lambirle le cosce e ancora più sotto, dove anche solo il pensiero fa arrossire di vergogna. E quella sera, la notte del suo genetliaco, lei lo aveva lasciato fare, com’era già successo in troppe altre occasioni, si era fatta toccare e frugare all’interno della propria intimità, limitandosi a singhiozzare come una bambina stupida.

    Speranza ora non guardava più il soffitto, né il cuscino né il ragno… chissà dov’era finito. Aveva gli occhi chiusi, o meglio, spalancati sulla sua anima confusa e straziata, sui tanti ricordi che avrebbe voluto non ricordare affatto.

    La radiosveglia sul comodino segnò le diciannove, era quasi ora di cena. Si alzò dal letto dirigendosi lentamente in cucina, ma dentro di sé avrebbe voluto sparire lontano e perdersi nella notte.

    IV

    Sabato 8 Settembre 2012.

    Reggio Calabria.

    Ore 19:30.

    La luce del tramonto dipingeva di rosso e di giallo la terrazza del ristorante con vista sullo Stretto.

    Claudio e Michela, in compagnia di una decina di amici, stavano festeggiando il loro quarto anniversario di matrimonio, degustando piatti a base di pesce, accompagnati da un vino bianco frizzante, fresco al punto giusto. Michela, in particolare, era raggiante, aveva lunghi capelli biondi che incorniciavano un viso radioso, impreziosito da un paio di occhi verdi che ricordavano il mare della Sardegna, ed era avvolta in un elegante tailleur grigio. Claudio, invece, aveva scelto per l’occasione un gessato scuro.

    I due giovani sposi erano raggianti e dimostravano di essere una coppia molto affiatata: si tenevano per mano, si accarezzavano, scambiandosi dolci effusioni, incuranti dei presenti. Il capitano non smetteva un istante di passare la mano sopra la pancia della moglie, che stava lievitando giorno dopo giorno. Michela era ormai al quinto mese di gravidanza e l’anno nuovo avrebbe regalato loro il figlio tanto atteso. Avevano trascorso notti intere, insonni, a fantasticare sul bambino che stava per affacciarsi al mondo, sul colore degli occhi che avrebbe avuto, a chi dei due sarebbe somigliato maggiormente, sul carattere, sul sesso, sul nome… Se fosse stato maschio allora lo avrebbero chiamato Antonio, come il nonno paterno, se femmina, Gaia, perché immaginavano che avrebbe avuto un carattere allegro e sorridente, come quello di sua madre.

    Claudio, sempre con la mano teneramente abbandonata sopra la pancia della moglie, per un attimo si perse a guardare il disco infuocato del sole tuffarsi e morire oltre la linea dell’orizzonte, e così la mente lo portò verso ricordi lontani. Rammentò il dramma che cinque anni prima aveva cambiato per sempre la sua vita: il sangue sull’asfalto polveroso e quegli occhi verdi, giovani e pieni di vita, spegnersi poco a poco. Avvertì all’improvviso tutto il dolore provato in quei terribili giorni, rivisse il profondo senso di smarrimento che l’aveva colto, la voglia di mollare tutto e di fuggire lontano.

    Michela, con il suo amore, l’aveva spronato a non mollare, continuando a indossare con orgoglio la divisa di Carabiniere, ripetendogli fino allo sfinimento che si era trattato solo di un terribile incidente, nulla di più, che non si era macchiato di particolari colpe, che contro il fato tutti, non solo lui, erano impotenti. Gli era stata vicino in ogni momento, coccolandolo e anche viziandolo. Poi, un giorno, invertendo i ruoli, Michela si era fatta coraggio chiedendogli di sposarla. Claudio per un momento era rimasto spiazzato ma poi aveva accettato con entusiasmo e l’anno successivo l’aveva portata all’altare. In realtà, lui non aveva mai pensato seriamente al matrimonio, considerava quel sacramento un istituto contro natura, una convenzione sociale per mettere al mondo dei figli con l’animo sereno; voleva bene a Michela, questo sì, si trovava a proprio agio con lei, ma l’amore era un’altra cosa, un sentimento travolgente che aveva provato solo una volta, a vent’anni, e con un’altra ragazza… il suo cuore, ora, non era un torrente in piena, come avrebbe anelato, ma solo un placido fiume che si trascinava stanco verso il mare.

    Michela, tuttavia, rappresentava la sicurezza, la sua oasi di tranquillità. E questo a lui era bastato. L’aveva sposata, convinto che anche grazie al matrimonio avrebbe ritrovato se stesso più facilmente. In parte era stato vero, ma solo in parte. Anche quattro anni dopo, infatti, le ombre scure di quel brutto pomeriggio estivo continuavano ad allungarsi minacciose, offuscando la sua felicità.

    Il capitano si ridestò proprio quando l’amico più caro, Fabio Ingannatore, più vecchio di due anni, che era stato suo testimone di nozze, gli propose l’ennesimo brindisi. Fabio era qualche centimetro più alto di lui, muscoloso, con un viso irregolare e zigomi pronunciati. Aveva occhi celesti molto intensi e indossava uno splendido completo beige di Armani.

    Il sole era definitivamente tramontato e le stelle stavano accendendo, una ad una, il cielo. La notte che avanzava spazzò via quei pensieri foschi e Claudio strinse a sé con particolare trasporto la giovane moglie. Nel giro di un mese la coppia si sarebbe trasferita al Nord, a Chioggia, sul bordo della fredda e nebbiosa Pianura Padana. Il capitano Sperandio aveva accettato il trasferimento dopo settimane di attente e dolorose riflessioni. Cambiare vita e ambiente gli avrebbe fatto bene, aveva convenuto, l’avrebbe aiutato a ripartire da zero, con rinnovate energie e ambizioni, chiudendo per sempre una pagina dolorosa del proprio passato. Non avrebbe più combattuto l’Ndrangheta, come avevano fatto con tanto onore e sacrificio i suoi avi, ma si era convinto che avrebbe reso ugualmente alla collettività un importante servigio. Più semplicemente, gli sarebbero mancati i colori, i suoni, gli odori e le emozioni della sua terra. Si dice che partire è un po’ morire. Forse era proprio vero, ma lui era già morto cinque anni prima, ora aspettava solo l’occasione giusta per risorgere. Il matrimonio e Michela l’avevano aiutato a credere in questa resurrezione, ad avere fede in un futuro. Ma quale fosse questo futuro e dove si sarebbe realizzato, in Calabria o altrove, francamente appariva ai suoi occhi la cosa meno importante in quel momento.

    I camerieri servirono un’enorme torta alla crema, decorata con uva e pesche. La vita, all’improvviso, sembrò avere tutto il dolce sapore della frutta della sua terra, il profumo dei luoghi dov’era nato e cresciuto. Si sentì felice e, almeno per quella notte, pensò che chiedere di più alla vita sarebbe stato un segno di ingratitudine. Assorto in quelle profonde meditazioni, non si accorse che Fabio gli aveva posato una mano sulla spalla. Erano cresciuti assieme, come fratelli. Quando i genitori dell’amico erano periti in circostanze mai precisate, il bambino era stato accolto come un figlio dalla famiglia Sperandio, vicina di casa. E così Fabio e Claudio avevano per anni condiviso la stessa stanza, fino al raggiungimento della maggiore età. Assieme avevano sperimentato la leggerezza dell’infanzia, i turbamenti adolescenziali, i primi amori, ma anche delusioni e privazioni. Ormai erano adulti, ma il destino non voleva evidentemente ancora separarli. Claudio era prossimo al trasferimento in Veneto, presso la caserma dei Carabinieri di Chioggia. A gennaio, lo avrebbe raggiunto Fabio, che a sua volta aveva trovato un posto come caporedattore a La Nuova Venezia, il quotidiano locale, accontentando così la moglie Irene, che era originaria proprio della città clodiense e desiderava riavvicinarsi a casa. Per lui, del resto, si sarebbe trattato di un’importante crescita professionale, dato che era un giornalista collaboratore e sarebbe andato ad assumere un ruolo di maggiore responsabilità.

    Claudio si voltò, guardò l’amico negli occhi, che quella sera erano ancora più penetranti del solito e sembravano contenere tutto il cielo del Meridione, sorridendogli con molto calore.

    «Oh, ecco il mio testimone di nozze! Caro Fabio, facciamo un brindisi: a noi due e al nostro futuro lontano da qui, dalla nostra terra, ma ancora assieme, tu e io, amici inseparabili, per la pelle e, come vedi, anche per la sorte!».

    «Prosit! A noi e alla nostra inossidabile amicizia!», gli rispose Fabio.

    «Amici per sempre! E grazie ancora per tutto quello che hai fatto per noi! Fabio, come al solito sei stato splendido e hai contribuito a rendere il mio anniversario di matrimonio assolutamente indimenticabile, un giorno fantastico, quasi come quello irripetibile di quattro anni fa. Ti sarò eternamente grato per la tua preziosa amicizia, per me sei sempre stato come un fratello, un insostituibile punto di riferimento!».

    «Figurati, Claudio, sciocchezze, cosa vuoi che sia… è il mio regalo! Altrimenti a che servono gli amici? Ma vedrai, un giorno troverai il modo e l’occasione per restituirmi il favore e allora, chissà, forse sarò io a doverti ringraziare».

    «Puoi scommetterci, se avrai bisogno di me io ci sarò sempre, e anche la mia famiglia! Ma ora non perdiamoci in inutili smancerie e brindiamo».

    I due amici si abbracciarono e incrociarono i calici. Claudio confidò a Fabio: «Sai cosa mi sta tornando alla mente? Ti ricordi, mi pare fosse l’estate del 1987. Una sera, in campagna, mentre giocavamo a rincorrerci, caddi in un pozzo artesiano e mi fratturai una gamba. Urlai per il dolore e lo spavento e tu rimanesti al mio fianco per ore, consolandomi e rassicurandomi. Poi, quando mi calmai, corresti in cerca di aiuto, percorrendo chilometri e chilometri. Ma alla fine, riuscisti a trovare qualcuno e solo grazie al tuo coraggio, Fabio, fui salvo. Da quel momento, ti ho considerato qualcosa di più del mio migliore amico: un vero fratello, quello che io non ho mai avuto, purtroppo! Non solo ti sono e ti sarò sempre riconoscente per la tua vicinanza, ma ti devo proprio la vita! Senza di te sarei morto, quel giorno, e ora non mi troverei certo qui a festeggiare in tua compagnia, in questa splendida terrazza di fronte al mare!».

    «E assieme a una splendida moglie…».

    «Certo, è vero, Michela è una ragazza carina».

    «Solo carina? Hai voglia! È proprio bella, altro che! Te la invidio e, credimi, non sono il solo… A parte gli scherzi, mi ricordo anch’io quel brutto episodio. Quanta paura, forse proprio quel giorno abbiamo perduto entrambi l’innocenza, comprendendo che sulla vita aleggiava anche lo spettro della morte con cui dover fare i conti, non solo rose e fiori, e cartoni animati… Sinceramente, avevo creduto che tu fossi ormai spacciato, invece decisi di affidarmi all’istinto e alla forza della disperazione; andò tutto bene, per fortuna. Te l’ho già detto, la vita è un continuo dare e ricevere: vedrai, il destino un giorno farà in modo che tu possa ricambiare e sdebitarti con me, si tratta solo di attendere. Intanto ti raggiungerò su al Nord e continuerò a essere il tuo angelo custode, o il tuo tormento, scegli un po’ tu!».

    «Ah, questo sì, non riesco proprio a toglierti dai piedi!».

    Su in cielo, le innumerevoli stelle apparivano ancora più luminose del solito, come se anche il firmamento avesse voluto strizzare l’occhiolino per suggellare quella splendida amicizia.

    CAPITOLO 1

    Domenica 12 novembre 2017.

    Calle San Giacomo – Chioggia (VE).

    Ore 7:30.

    Una grigia foschia salì lentamente dal mare, stendendosi come un lenzuolo opaco sulla cittadina lagunare. Il sole, appena sorto, era solo un cerchio sfuocato vicino all’orizzonte. L’aria risuonava dei rintocchi delle campane che chiamavano i pochi residenti alla prima messa di quel dì di festa. Le finestre delle case erano ancora tutte chiuse, le strade popolate solo da qualche cane che trotterellava svogliato al guinzaglio di anziani padroni dall’aria già sveglia e il giornale sotto braccio, pronti a tuffarsi nel gossip e negli annunci mortuari.

    Una fioca luce si era intanto accesa al secondo piano di una casa di mattoni rossi e finestre verdi, di fronte alla chiesa di San Giacomo, nel cuore del centro storico di Chioggia.

    Tra le tendine grigie semiaperte si muoveva una figura di donna, dalle forme snelle e slanciate, con lunghi capelli biondi che ricadevano morbidi sulle spalle. La luce, poco dopo, si spense per riaccendersi più intensa al piano terra. Passò un minuto e la porta d’ingresso si spalancò. Uscì una bella ragazza, con una luce particolare che le illuminava il volto e faceva brillare gli occhi, un mix di malinconia e spensieratezza giovanile. Indossava una maglietta azzurra a maniche lunghe, pantaloni della tuta rossi e scarpe da ginnastica rossoblù. I capelli erano raccolti all’altezza della nuca in uno chignon sbarazzino. La ragazza controllò l’orologio da polso, un cronografo, e premette il tasto di accensione. Iniziò a camminare veloce, un passo dopo l’altro, con le braccia che accompagnavano elegantemente il movimento ritmico delle gambe affusolate. Svoltò a sinistra, imboccò Corso del Popolo per poi virare a destra su Calle del Duomo e sbucando infine a Piazzale Poliuto.

    Sarebbe tornata a casa dopo un’oretta, ansimante e sudata, sbuffando e tergendosi con movenze sensuali il sudore dalla fronte. Questo lo sapeva bene un anziano e rugoso pescatore di telline che ogni giorno, appena dopo l’alba, osservava incuriosito quella giovane così carina sfilare davanti al proprio banco del pesce, per poi ripassarvi dopo una sessantina di minuti circa. Per quell’uomo, la ragazza era meglio di un orologio svizzero, scandendo con precisione l’inizio delle sue giornate, una uguale all’altra.

    Pochi metri più in là, in un appartamento signorile lungo Calle Muneghette, le persiane delle finestre erano già alzate e all’interno si percepiva un movimento frenetico.

    Il quarantenne capitano della locale caserma dei Carabinieri, Claudio Sperandio, stava preparando la colazione per la moglie Michela e la piccola Gaia, un diavoletto

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