Partecipare l'architettura: Ovvero come progettare nella comunità
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I progettisti operano troppo frequentemente senza relazionarsi con coloro i quali utilizzeranno i manufatti, astraendo e uniformando le richieste e anche quando si attuano processi decisionali partecipati si tende a ricondurre la creatività dei cittadini all’interno di logiche che uniformano esigenze e risposte.
Una grande potenzialità è invece presente nell’azione diretta degli abitanti. L’adattamento dei luoghi è infatti una pratica connessa strettamente alla specie umana e nel tempo le culture locali hanno mostrato una capacità tecnica nel risolvere i problemi e nel configurare soluzioni ambientalmente e socialmente ottimali. Una errata interpretazione delle deleghe date agli specialisti del settore sembra avere espropriato le comunità di una capacità che le è propria.
Recuperare la relazione interrotta, riportare l’operato del progettista all’interno delle comunità, riconoscere la capacità dell’azione diretta degli abitanti faciliterebbe il miglioramento delle condizioni insediative, la riduzione del “peso” ambientale, la ricomposizione di comunità equilibrate con luoghi e risorse.
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Book preview
Partecipare l'architettura - Adriano Paolella
Collana
Natura e comunità
Adriano Paolella
PARTECIPARE
L’Architettura
Ovvero come progettare nella comunità
Proprietà letteraria riservata
© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy
Edizione eBook 2017
Isbn: 978-88-6822-639-8
per conto di Pellegrini Editore
Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza
Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672
Sito internet: www.pellegrinieditore.it
E-mail: info@pellegrinieditore.it
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
Si ringrazia Zelinda Carloni per la rilettura e, molto di più, per le insostituibili e profonde riflessioni carpite dall’autore in ragione di una favorevole e grandemente gradita prossimità.
Premessa
Il desiderio di contribuire a migliorare le condizioni ambientali e sociali del Pianeta e delle comunità insediate ha sempre costituito un elemento essenziale delle mie attività.
È forse in ragione del positivo respiro sociale assimilato negli anni ’60 del secolo scorso, che, anche affrontando il mestiere di architetto, mi sono maggiormente rivolto a capire, interpretare, sostenere interessi comuni piuttosto che dedicarmi a produrre manufatti.
Ma sono stato sempre soddisfatto del mestiere che ho scelto, così impregnato di cultura, ambiente, memoria, sociologia, antropologia, tecnica e al contempo così propositivo.
Oggi, in una società sempre più tecnicistica e scientifica
la professione di architetto consente ancora, nonostante i tentativi di trasformarla, modalità produttive artigianali, una creatività non esclusivamente connessa alla produzione di merci, la consapevolezza degli effetti della propria azione.
Un mestiere meraviglioso nella sua possibilità di operare con le comunità e di progettare soluzioni capaci di contribuire al benessere degli abitanti.
Certo ciò non avviene quando si piega la professione a committenze disinteressate a questi temi o palesemente contrarie al bene comune, ovvero quando ci si sottomette a mode, alla ricerca di notorietà; a questi architetti, nel caso migliore, rimarrà denaro e fama perché lavorare per il potere aiuta la fama. Ma coloro i quali acquisiranno completamente la dimensione culturale e sociale raccoglieranno grandi e profonde soddisfazioni nello svolgimento di un mestiere unico e indispensabile.
Contenuti
Nel testo si riflette sui rapporti tra architetto e comunità al fine di superare una dicotomia molto profonda tra linguaggio disciplinare e necessità e desideri degli abitanti.
I progettisti operano troppo frequentemente senza relazionarsi con coloro i quali utilizzeranno i manufatti, astraendo e uniformando le richieste e, anche quando si attuano processi decisionali partecipati, si tende a ricondurre la creatività dei cittadini all’interno di logiche che uniformano esigenze e risposte.
Una grande potenzialità è invece presente nell’azione diretta degli abitanti. L’adattamento dei luoghi è infatti una pratica connessa strettamente alla specie umana e nel tempo le culture locali hanno mostrato una notevole capacità tecnica nel risolvere i problemi e nel configurare soluzioni ambientalmente e socialmente ottimali. Una errata interpretazione delle deleghe date agli specialisti del settore sembra avere espropriato le comunità di una capacità che è loro propria.
Recuperare la relazione interrotta, riportare l’operato del progettista all’interno delle comunità, riconoscere la capacità dell’azione diretta degli abitanti faciliterebbe il miglioramento delle condizioni insediative, la riduzione del peso
ambientale, la ricomposizione di comunità equilibrate con luoghi e risorse.
Cap. 1. L’architetto ordinatore
L’atto del costruire appare regolato più dalle norme e dal linguaggio interno alla disciplina che dall’attenzione alle comunità e alla natura. L’architetto ha assunto un ruolo di ordinatore
degli insediamenti, e quindi delle modalità di vita degli abitanti, troppo spesso riferito a impostazioni teoriche o piegato alle volontà dei potenti.
Cap. 2. La consapevolezza del costruire
La costruzione dei ponti è stata per migliaia di anni percepita come un atto sacrilego
in quanto travalica i confini naturali delle cose. Da tempo si costruisce senza avere la consapevolezza né di quali siano gli effetti sociali, paesaggistici, culturali del costruire né di quanto si modifichino i sistemi naturali.
Cap. 3. L’ambiguità del termine sostenibilità
La definizione ufficiale
del termine sostenibilità è ambigua. La sua interpretazione rende possibili due scenari operativi, quello ecologico
e quello industriale
, da cui discendono azioni profondamente diverse che rendono imprescindibile una scelta. Chi progetta è chiamato ad operare tale scelta.
Cap. 4. L’architetto e gli altri
All’interno di un comportamento piuttosto uniformato vi sono architetti che con il loro operato hanno mostrato e mostrano come sia possibile relazionarsi con gli abitanti in maniera più appropriata. Una cultura parallela di grande efficacia che progetta su misura per individui e comunità.
Cap. 5. Il riuso
L’ambito che si presta maggiormente all’azione diretta dei cittadini è quello del riuso degli edifici. Gli interventi connessi a questo tipo di attività possono avere, infatti, una dimensione (interventi medio piccoli) e una diffusione (dato l’enorme patrimonio edificato inutilizzato) coerenti con le potenzialità degli abitanti.
Cap. 6. I progettisti, parte della comunità
I progettisti hanno un compito imponente: capire cosa vogliono i cittadini, enucleare i desideri effettivi da quanto commercialmente e culturalmente indotto, e aiutarli. E ciò si attua con una progettazione non per
, e nemmeno con
, ma dei
cittadini; attraverso una attività inter pares.
Cap. 7. Il progetto degli spazi informali
Il modello culturale preminente tende a formalizzare e uniformare i comportamenti. L’uniformazione, però, annulla quell’entusiasmo e quella creatività che gli abitanti esprimono principalmente attraverso comportamenti informali. È compito dell’architetto trovare modalità operative che non sprechino tale positiva energia.
1. L’architetto ordinatore
Leon Battista Alberti a metà del XV secolo, in De re edificatoria, opera la più importante classificazione delle componenti del linguaggio architettonico dell’era moderna.
È un testo fondamentale a cui in seguito si riferirà una estesa elaborazione culturale e i cui ragionamenti sulla firmitas, utilitas e venustas ancora oggi sono considerati dagli architetti importanti spunti di riflessione.
Nella sua elaborazione Alberti traccia quei criteri relativi al decorum che uniscono la parte formale dell’edificio alla dimensione etica e sociale e delinea una gerarchia tra le tipologie di edifici in relazione alla loro funzione collegando con diversi livelli di dignitas e di ricchezza di ornamentum.
Attraverso questo impegno teorico Alberti collega manufatti e società e tenta di ordinare gli edifici, la città, l’organizzazione sociale in un unico progetto.
Uscire da quella, come a lui appariva, confusione che aveva caratterizzato i secoli precedenti, recuperare le forme del costruire da una società, quale quella romana, organizzata, centralizzata, fortemente gestita, implicava un nuovo ordine insediativo e sociale.
Un ordine che manifestasse le gerarchie, garantisse un decoro per tutti gli abitanti e, attraverso di esso, raggiungesse la bellezza.
Da allora in poi molti si sono dedicati a simili elaborazioni teoriche. Fino al XIX secolo è tutto un fiorire di regole e di ordini architettonici: alcuni testi sono semplici catalogazioni di misure, di descrizioni di componenti, altri sono integrati con riflessioni di maggiore respiro.
Dato comune al panorama di elaborazioni è la figura di un architetto che ha il suo principale ruolo nell’ordinare il mondo attraverso l’applicazione di linguaggi architettonici codificati.
Molti si interessano solo delle sedi del potere politico e religioso, alcuni si occupano delle abitazioni di minor prestigio, ma tutti ritengono che la qualità della vita si esprima attraverso l’ordine definito dal loro linguaggio.
Questa tensione all’ordinare, a collocare ciascun abitante in una definita casella secondo schemi predefiniti permane anche nei secoli successivi. Così quando Fourier, Owen e poi Howard disegnano i loro insediamenti, con una sensibilità molto più accentuata nei riguardi delle condizioni abitative dei meno abbienti, sono tutte città
regolate su forme astratte, su considerazioni teoriche, e anch’esse profondamente ordinatrici.
Anche, Tony Garnier con la sua Cité Industrielle, in cui gli edifici residenziali sono semplici e personalizzati
, definisce un impianto insediativo ordinatore.
Il parossismo di questa impostazione professionale si raggiunge con il movimento moderno, in cui la crescente sensibilità sociale trova sfogo nella figura di architetto-interprete delle necessità, schematizzate e uniformate, degli abitanti. Le Corbusier che, con la sua Ville Radieuse, una città più che utopica molto atopica, si propone di sostituire qua e là nel mondo gli insediamenti esistenti, anche storici, dedicandosi con particolare veemenza critica a Parigi e New York, è uno dei maggiori esponenti di questa impostazione.
Ma nel XX secolo tale atteggiamento non è stato esclusiva del movimento moderno ma ha interessato anche alcuni tradizionalisti
(si veda ad esempio Paul Schmitthenner negli anni venti), che seppure profondamente critici nei confronti del moderno, individuavano nel mettere in ordine
il compito connaturato dell’architetto.
In molte di queste elaborazioni teoriche la ricerca di ordine formale è una tensione che eccede la mera definizione di un linguaggio e le forme sono lo strumento per indirizzare i comportamenti al fine di supportare l’organizzazione ordinata della società, cosicché gli architetti, anche quando non si interessano esplicitamente degli aspetti sociali, non esulano dall’immaginare attraverso le strutture insediative l’organizzazione della vita della comunità.
L’architetto ordinatore, sulla base dell’osservazione critica disciplinare, constata il malfunzionamento della società e assume la consapevolezza che essa, senza il suo contributo nel progettare insediamenti e architetture qualificati non avrebbe alcuna possibilità di migliorare le proprie condizioni. Partendo da questo presupposto, si ritaglia un ruolo in cui la sua azione, fondata sulla capacità tecnica acquisita nei percorsi formativi, deve attendere alle predisposizione delle soluzioni a beneficio della società.
Si definisce così una dimensione operativa collocata all’interno dell’elaborazione disciplinare in cui l’architetto si arroga, sulla base di una visione settoriale e teorica, il ruolo di interprete degli altri, dei loro bisogni e desideri, di rappresentare l’interesse comune anche quando questo non è stato esplicitamente espresso, senza sentire alcun bisogno di confrontarsi con gli abitanti. Una dimensione avulsa dalla comunità ma coerente con l’interpretazione della stessa attuata alla luce delle teorie di riferimento.
Questa impostazione, in cui l’architetto si attribuisce un ruolo eludendo un contatto diretto con le comunità, questa autolimitazione delle proprie attività all’interno del soddisfacimento delle richieste solo di alcune committenze, ha contribuito non poco a produrre i contemporanei insediamenti: un prodotto, a guardare, non ben riuscito. Una colata di costruzioni che ha ricoperto la morfologia naturale, distrutto la vegetazione, perso ogni contatto con i luoghi, sostituendo ad una varietà mirabile una uniformità alienante. Una infinità di unità abitative, per gran parte uguali (le differenze sono determinate dalle disponibilità economiche dei proprietari), mal costruite, energivore, che impediscono agli abitanti la percezione del paesaggio