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LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC: Attraverso il mondo solare
LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC: Attraverso il mondo solare
LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC: Attraverso il mondo solare
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LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC: Attraverso il mondo solare

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About this ebook

Una cometa sfiora la Terra portandosi via una parte dell'Algeria insieme a una quarantina di persone di varie nazioni ed età, e condannandoli a due anni di viaggio attraverso il sistema solare, finché la cometa non torna vicina alla Terra, consentendo il loro ritorno.
Durante il viaggio, i personaggi formano una mini-società e devono affrontare l'ambiente ostile della cometa.
LanguageItaliano
PublisherBauer Books
Release dateMay 20, 2021
ISBN9788827542538
LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC: Attraverso il mondo solare
Author

Victor Hugo

Victor Marie Hugo (1802–1885) was a French poet, novelist, and dramatist of the Romantic movement and is considered one of the greatest French writers. Hugo’s best-known works are the novels Les Misérables, 1862, and The Hunchbak of Notre-Dame, 1831, both of which have had several adaptations for stage and screen.

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    LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC - Victor Hugo

    Jules

    LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC: Attraverso il mondo solare

    UUID: 03d6608c-ebe6-11e7-b8cb-17532927e555

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    Indice dei contenuti

    LE AVVENTURE DI ETTORE SERVADAC

    (ATTRAVERSO IL MONDO SOLARE)

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO I

    IL CONTE: «ECCO IL MIO BIGLIETTO DI VISITA». IL CAPITANO: «ECCO IL MIO!».

    — No, CAPITANO, non intendo affatto cedervi il posto!

    — Mi dispiace, signor conte, ma le vostre pretese non

    modificheranno le mie!

    — Davvero?

    — Davvero.

    — Eppure, vi faccio notare che io, irrefutabilmente, sono il primo

    in ordine di tempo!

    — E io rispondo che in simile circostanza l'anzianità non può

    creare alcun diritto.

    — Troverò io il modo di costringervi a cedermi il posto, capitano. — Non lo credo, signor conte.

    — Sono del parere che un colpo di spada...

    — Neppure un colpo di pistola...

    — Ecco il mio biglietto di visita!

    — Ecco il mio!

    Dopo queste parole, scambiate come botte e risposte di una partita

    di scherma, i due biglietti di visita passarono da una mano all'altra fra

    i due contendenti. Su uno si leggeva:

    «E TTORE S ERVADAC

    Capitano di Stato Maggiore Mostaganem».

    Sull'altro:

    «C ONTE W ASSILI T IMASCHEFF a bordo della goletta Dobryna».

    Al momento di separarsi, il conte Timascheff chiese:

    — Dove e quando i miei testimoni potranno incontrare i vostri? — Oggi alle due, se lo desiderate, — rispose Ettore Servadac, —

    allo Stato Maggiore.

    — A Mostaganem?

    — Esattamente.

    Quindi, il capitano Servadac e il conte Timascheff si salutarono

    cortesemente.

    Ma, al momento di lasciarsi, il conte Timascheff fece un'ultima osservazione:

    — Capitano, credo che convenga tener segreto il vero motivo del nostro duello.

    — Sono dello stesso parere, — rispose Servadac.

    — Non sarà pronunciato nessun nome!

    — Nessuno.

    — E il pretesto?

    — Il pretesto? Una discussione musicale, se siete d'accordo, signor conte.

    — Benissimo, — rispose Timascheff. — Io avrò preso le difese di Wagner, il che è nelle mie idee.

    — E io quelle di Rossini, — rispose con un sorriso il capitano Servadac. Poi il conte Timascheff e l'ufficiale di Stato Maggiore, dopo essersi

    salutati per l'ultima volta, si separarono.

    Questa scena era avvenuta verso mezzogiorno, all'estremità d'un piccolo capo di quel tratto della costa algerina compresa fra Tenez e Mostaganem, e a tre chilometri circa dalla foce del Cheliff. Questo capo dominava il mare per una ventina di metri, e le acque azzurre del Mediterraneo venivano a morire ai suoi piedi, lambendo le rupi del greto, arrossate dall'ossido di ferro. Era il 31 dicembre. Quel giorno il sole, i cui raggi obliqui solitamente ricoprivano di pagliuzze scintillanti tutte le sporgenze del litorale, era velato da un'opaca cortina di nuvole; inoltre, fitte foschie coprivano il mare e il continente. Queste nebbie, che per una circostanza inspiegabile avvolgevano la Terra da più di due mesi, rendevano difficili le comunicazioni fra i vari continenti. Ma a questo non vi era alcun rimedio.

    Il conte Wassili Timascheff, dopo essersi accomiatato dall'ufficiale di Stato Maggiore, si diresse verso un canotto a quattro remi, che lo aspettava in uno dei piccoli seni della costa. Appena egli vi fu salito, la leggera imbarcazione lasciò la riva, puntando verso una goletta di diporto che, con la vela di brigantino cazzata e con la vela di trinchetto attraversata al vento, era all'ancora a poche gomene di distanza.

    Quanto al capitano Servadac, fece un cenno a un soldato che era a venti passi da lui. Questi, tenendo per le brighe uno stupendo corsiero arabo, si avvicinò senza proferir verbo. Il capitano Servadac, montando agilmente in sella, prese la via per Mostaganem, seguito dal suo attendente, che cavalcava un animale non meno veloce del suo.

    Era mezzogiorno e mezzo quando i due cavalieri passarono sul ponte che il genio aveva costruito di recente sul Cheliff. All'una e tre quarti i loro cavalli, bianchi di schiuma, passavano velocemente attraverso la porta di Mascara, una delle cinque mura merlate della città.

    In quell'anno la popolazione di Mostaganem era costituita da circa quindicimila abitanti, di cui tremila francesi. Era sempre uno dei capoluoghi sia del dipartimento di Oran sia della circoscrizione militare. La sua economia si fondava ancora sull'industria delle paste alimentari, dei preziosi tessuti di spartea lavorata e di oggetti di marocchino, e sull'esportazione con la Francia di grano, cotone, lana, bestiame, fichi e uva. A quel tempo però non esisteva più alcuna traccia dell'antico porto, nel quale in passato le navi non potevano trovare sicuro riparo alla furia dei venti di ovest e di nord-ovest. Mostaganem possedeva ora un porto funzionale e ben riparato, che le permetteva di trarre profitto dall'esportazione di tutti i molteplici prodotti della Mina e del basso Cheliff.

    Grazie a questo porto sicuro, la goletta Dobryna aveva potuto trascorrere l'inverno in quelle acque, poiché la costa, in quel tratto scoscesa, non offre alcun riparo naturale. Infatti, là, da due mesi si vedeva sventolare sul suo picco la bandiera russa, e in cima al suo albero di maestra lo stendardo dello yacht Club de France, con queste iniziali M. C. W. T.

    Il capitano Servadac, oltrepassate le mura di cinta della città, raggiunse il quartier militare di Matmore: qui incontrò quasi subito un comandante del 2° reggimento cacciatori e un capitano dell'8° artiglieria, due ufficiali sui quali poteva contare.

    Costoro ascoltarono con gravità la richiesta, avanzata da Ettore Servadac, di fargli da testimoni nella diatriba con Timascheff, ma non riuscirono a trattenere un lieve sorriso quando l'amico espose la causa del duello: una semplice discussione di carattere musicale accesasi fra lui e il conte.

    — Forse si potrebbe trovare un'altra soluzione, — osservò il comandante del 2° cacciatori.

    — Neanche per sogno, — rispose Ettore Servadac.

    — Qualche piccola concessione, almeno! — intervenne il capitano dell'8° artiglieria.

    — Non è possibile fare concessioni fra Wagner e Rossini, — rispose gravemente l'ufficiale di Stato Maggiore. — O si è per l'uno o per l'altro. Del resto in tutta questa faccenda Rossini è l'offeso. Quel pazzo di Wagner ha scritto su di lui cose assurde, e io voglio vendicare Rossini.

    — D'altra parte, — disse allora il comandante, — un colpo di spada non è sempre mortale!

    — In particolare quando si è dell'avviso, come lo sono io, di non lasciarselo dare, — rispose il capitano Ettore Servadac.

    I due ufficiali non ebbero allora altra cosa da fare se non di recarsi allo Stato Maggiore, dove, alle due precise, avevano appuntamento con i testimoni del conte Timascheff.

    Il comandante del 2° reggimento cacciatori e il capitano dell'8° artiglieria non si lasciarono però ingannare dal loro compagno. Qual era la vera causa che gli armava la mano? La sospettavano forse, ma non avevano altra soluzione se non di accettare per vero il pretesto che Servadac aveva deciso di far loro credere.

    Dopo due ore erano già di ritorno; avevano visto i testimoni del conte e preso accordi sulle modalità del duello. Il conte Timascheff, aiutante di campo dell'imperatore di Russia, come sono molti russi all'estero, aveva accettato di battersi con la spada, l'arma del soldato. I due avversari si dovevano affrontare il giorno seguente 1° gennaio, alle nove del mattino, in un punto della costa a tre chilometri dalla foce del Cheliff.

    — A domani dunque, siate puntuale! - disse il comandante.

    — Sarò puntualissimo, — rispose Ettore Servadac.

    Quindi i due ufficiali, dopo aver stretto con vigore la mano del loro amico, se ne tornarono al caffé della Zulma per fare una partita di picchetto ai centocinquanta secco.

    Il capitano Servadac, invece, tornò indietro e si allontanò immediatamente dalla città.

    Da una quindicina di giorni, Ettore Servadac non abitava più nel suo alloggio in piazza d'Armi. Incaricato di un rilievo topografico, abitava una piccola capanna sulla costa di Mostaganem, a otto chilometri dal Cheliff, e non aveva altro compagno che il suo attendente. La cosa non era molto allegra, e chiunque altro, ma non il capitano di Stato Maggiore, avrebbe potuto considerare come una punizione il suo soggiorno in quel posto così solitario.

    Egli riprese, dunque, la via della capanna dando la caccia ad alcuni versi che cercava di accomodare alla meglio nella forma un po' sorpassata di un rondò. Questo tentativo di rondò, è inutile nasconderlo, era indirizzato a una giovane vedova che il capitano sperava di sposare, e tendeva a provare che, quando si ha la fortuna di amare una persona degna di tutto il rispetto, bisogna amare «con la più grande semplicità del mondo». Che questo aforisma poi fosse vero o no, al capitano Servadac non importava gran che.

    «Sì! Sì!» mormorava mentre il suo attendente in silenzio cavalcava al suo fianco. «Se un rondò è ben sentito fa sempre effetto. Sono rari i rondò sulla costa algerina, e appunto per questo il mio sarà benevolmente accolto, almeno lo spero.»

    E il poeta-capitano così cominciò:

    Quando si ama conviene Semplicemente amar...

    — Sì! semplicemente, cioè onestamente e in vista del matrimonio, e io che vi parlo... Per Bacco! questo non rima più! Sono difficili le rime in « ene»! Strana idea, la mia, di comporre un rondò. Ehi! BenZuf.

    Ben-Zuf era l'attendente del capitano.

    — Capitano! — rispose Ben-Zuf.

    — Hai fatto dei versi qualche volta?

    — No, capitano, ma ne ho visti fare!

    — E da chi?

    — Dal trombettiere d'un baraccone di sonnambula, una sera, alla

    festa di Montmartre.

    — E ricordi quei versi del trombettiere?

    — Sì, signor capitano:

    Entrate, entrate, entrate! A veder le donne amate, Tutti quanti v'affrettate Quattro soldi mi pagate.

    — Diamine! sono orribili i tuoi versi!

    — Perché non sono, come si suol dire, zuccherati, capitano, altrimenti varrebbero quanto gli altri!

    — Taci, Ben-Zuf! — esclamò Ettore Servadac. — Taci, ho trovato finalmente la terza e la quarta rima...

    Quando si ama, conviene Semplicemente amar... Fidarsi al caro bene Null'altro domandar!

    Nonostante si sforzasse di continuare il suo rondò, l'ispirazione poetica venne meno al capitano che, quando alle sei fu di ritorno alla capanna, non era riuscito a comporre nulla all'infuori della prima quartina.

    CAPITOLO II

    IN CUI SI FA IL RITRATTO FISICO E MORALE DEL CAPITANO SERVADAC E DEL SUO ATTENDENTE BENZUF

    Q UELL' ANNO e in quella data si poteva leggere sul suo stato di servizio, al Ministero della Guerra:

    «Servadac (Ettore) nato il 19 luglio 18... a Saint-Trelody, circondario di Lespare, dipartimento della Gironda.

    «Patrimonio: rendita di milleduecento franchi.

    «Durata del servizio: quattordici anni, tre mesi e cinque giorni.

    «Particolari di servizio e delle campagne: Scuola di Saint Cyr: due anni. Scuola d'addestramento: due anni. Nell'87° di linea: due anni. Nel 3° cacciatori: due anni. In Algeria: sette anni. Campagna del Sudan. Campagna del Giappone.

    «Grado: Capitano di Stato Maggiore a Mostaganem.

    «Decorazioni: Cavaliere della Legione d'onore dal 13 marzo 18...».

    Ettore Servadac aveva trent'anni. Orfano, senza parenti, quasi privo di sostanze, ambizioso di gloria se non di denaro, un po' sventato, dotato di una vivace prontezza di spirito, generoso, fornito di un coraggio a tutta prova, visibilmente il protetto del dio della guerra, cui non risparmiava ansie; per nulla spaccone, benché nativo della regione di Entre-deux-Mers e benché fosse stato allattato venti mesi da una robusta balia del Medoc, vero discendente di quegli eroi che vissero nell'epoca delle grandi gesta militari. Questo era il ritratto morale del capitano Servadac, che si può considerare uno di quegli amabili giovani che la natura sembra predestinare a grandi cose, e che hanno avuto come madrine, al momento della nascita, la fata delle avventure e la fata della buona sorte.

    Fisicamente, Ettore Servadac era un bell'ufficiale, alto circa un metro e settanta, svelto, di aspetto piacevole, con i capelli neri, ricciuti; belle mani, piedi ben fatti, baffi attorcigliati con civetteria, occhi azzurri con uno sguardo franco, atto, in una parola, a piacere, e, si può dirlo, piacevole senza aver l'aria di accorgersene.

    Bisogna sottolineare però che il capitano Servadac - lo confessava volentieri egli stesso - non aveva una profonda cultura.

    — Noi non dormiamo sugli allori, — dicono gli ufficiali d'artiglieria, volendo con ciò mettere l'accento sul fatto che essi non temono la fatica. Ettore Servadac invece «dormiva sugli allori» volontieri, ed era per natura girellone, quant'era cattivo poeta; ma con la sua facilità d'imparare ogni cosa, di assimilare tutto, aveva potuto uscire dalla scuola con onore ed entrare a far parte dello Stato Maggiore. D'altra parte, disegnava bene; era un eccellente cavallerizzo, e più d'un selvaggio saltatore dell'allevamento di Saint Cyr aveva trovato in lui il suo domatore. I suoi stati di servizio mettevano in rilievo ch'egli era stato più volte all'ordine del giorno, e la qualcosa era la pura verità.

    Si citava di lui il seguente episodio:

    «Un giorno era al comando in trincea di una compagnia di fanti. In un punto la parte alta del muretto di difesa, crivellata dai colpi di obice, aveva ceduto e non era più sufficientemente alta per coprire i soldati contro i colpi di mitraglia che grandinavano fischiando. I soldati erano esitanti. Il capitano Servadac allora balzò sul rialzo della trincea e, coricandosi attraverso la breccia interamente otturata dal suo corpo, disse:

    «Ora passate.

    «E la compagnia passò in mezzo a una grandine di palle, nessuna delle quali colpì l'ufficiale di Stato Maggiore».

    Uscito dalla scuola di addestramento, fatta eccezione delle campagne cui partecipò (Sudan e Giappone), Servadac fu di stanza sempre in Algeria. A quel tempo aveva funzioni di ufficiale di Stato Maggiore nella circoscrizione di Mostaganem. Incaricato di particolari rilievi topografici su quella parte del litorale compresa fra Tenez e la foce del Cheliff, abitava in una piccola capanna che lo riparava bene o male dalle intemperie. Ma non era uomo da impensierirsi per una così irrilevante inezia. Amava vivere all'aria aperta, godendo di tutta la libertà che può essere concessa a un ufficiale. Ora percorrendo a piedi le sabbie del litorale, ora a cavallo i crinali delle scogliere, egli non lavorava più del dovuto.

    Questa vita semi indipendente gli andava a pennello. D'altro canto, le sue occupazioni non lo assorbivano in modo tale da vietargli di prendere il treno due o tre volte la settimana, e di partecipare alle serate di gala del generale a Oran, o alle feste del governatore ad Algeri.

    Fu anzi in una di queste feste che vide la signora di L..., alla quale era destinato il famoso rondò, di cui era stato capace di comporre solo i primi quattro versi. Era la vedova d'un colonnello, giovane donna, molto bella e molto riservata, perfino un poco altera, che non si degnava di notare neppure gli omaggi che le venivano rivolti. Per questa ragione il capitano Servadac non aveva ancora osato rivelarle i suoi sentimenti. Egli sapeva di avere dei rivali, fra i quali, come abbiamo visto, il conte Timascheff. Era questo il motivo che aveva posto di fronte i due avversari con le armi in pugno, e ciò senza che la giovane vedova ne avesse il più piccolo sospetto.

    D'altra parte, come il lettore sa, il nome della giovane donna, rispettato da tutti, non era stato pronunciato.

    Con il capitano Ettore Servadac abitava nella piccola capanna il suo attendente Ben-Zuf.

    Ben-Zuf era profondamente affezionato all'ufficiale che aveva l'onore di «spazzolare». Fra l'incarico di aiutante di campo del governatore generale dell'Algeria e quello di attendente del capitano Servadac, Ben-Zuf non avrebbe esitato nemmeno un istante. Ma se egli non aveva alcuna ambizione per ciò che riguardava la sua persona, era ben altro nei riguardi del suo ufficiale, e ogni mattina egli guardava se durante la notte non fosse spuntato uno spallino sulla spalla sinistra dell'uniforme del capitano di Stato Maggiore.

    Il nome «Ben-Zuf» potrebbe far credere che il bravo soldato fosse nativo dell'Algeria. Niente affatto. Questo non era che un nomignolo. Ora perché mai questo spazzolatore veniva chiamato Zuf, se il suo nome era Lorenzo, perché Ben, se egli era di Parigi, anzi di Montmartre? È una di quelle anomalie che anche i più dotti etimologisti non riuscirebbero a spiegare.

    Ebbene, non solo Ben-Zuf era di Montmartre, ma era originario della celebre collina omonima, essendo nato fra la torre Solferino e il molino della Gaiette. Ora, quando si ha avuto la fortuna di nascere in condizioni così eccezionali, è naturale che si provi per il proprio luogo natale un'ammirazione senza limiti e che non si consideri nulla di più magnifico al mondo. Perciò, per lo spazzolatore, Montmartre era la sola vera montagna dell'universo, e il quartiere omonimo era ai suoi occhi un insieme di tutte le meraviglie del mondo. Ben-Zuf aveva viaggiato. A sentir lui, i paesi visitati non erano che dei Montmartre, più grandi forse, ma senz'altro meno pittoreschi. Montmartre, infatti, non possiede forse una chiesa che vale quanto la cattedrale di Burgos, non possiede cave non meno importanti di quella di Pentelico, un bacino di cui sarebbe geloso il Mediterraneo, un molino che non si accontenta di produrre semplice farina, ma dà anche delle gallette rinomate, una torre Solferino che è più diritta di quella di Pisa, non ha i resti di quelle foreste, che erano vergini prima dell'invasione dei Celti, e non ha finalmente una montagna, una vera montagna, cui gli invidiosi soltanto osano dare l'umiliante appellativo di «collinetta»? Ben-Zuf si sarebbe lasciato tagliare a pezzi piuttosto di confessare che questa montagna non era alta cinquemila metri.

    E dove mai vedere in tutto il resto del mondo tante meraviglie riunite in un solo posto?

    — In nessun luogo! — rispondeva Ben-Zuf a chiunque osasse dire che la sua affermazione era alquanto esagerata.

    A pensarci bene, la sua non era che una innocua mania. Comunque, Ben-Zuf non aveva che un unico desiderio: ritornare a Montmartre, sulla collinetta, e finire i suoi giorni là dov'erano incominciati, con il suo capitano, s'intende. Perciò Servadac aveva le orecchie continuamente rintronate dalla descrizione delle bellezze impareggiabili del XVIII circondario di Parigi, e cominciava ad averlo in uggia.

    Nonostante tutto, Ben-Zuf non disperava di convincere il suo capitano, ben deciso ormai, a non lasciarlo. La sua ferma era finita. Stava per lasciare il servizio a ventotto anni, come semplice cacciatore a cavallo di prima classe, nell'8° reggimento, quando fu elevato al grado di attendente di Ettore Servadac. Con il suo capitano prese parte alle campagne. Si batté al suo fianco in molte circostanze, e tanto coraggiosamente che fu proposto per la croce; ma egli la rifiutò per rimanere attendente del suo capitano. Se Ettore Servadac salvò la vita a Ben-Zuf in Giappone, Ben-Zuf lo ricambiò durante la campagna del Sudan. Queste sono cose che non si possono scordare.

    Insomma, ecco perché Ben-Zuf metteva al servizio del capitano di Stato Maggiore due braccia di acciaio temperato, una salute di ferro, tetragona a tutti i climi, una vigoria fisica che gli avrebbe concesso il diritto di chiamarsi «il baluardo di Montmartre» e, infine, con un coraggio capace di osare ogni impresa, un'abnegazione capace di affrontare ogni pericolo.

    Bisogna convenire che se Ben-Zuf non era per natura «poeta» come il suo diretto superiore, poteva essere considerato un'enciclopedia vivente, una fonte inesauribile di tutte le sciocchezze e di tutte le bagatelle della caserma. In ciò era maestro a tutti, e la sua ferrea memoria gli permetteva di sciorinare proverbi in continuazione.

    Il capitano Servadac sapeva quanto valesse quest'uomo. Lo stimava e gli perdonava molte manie che, del resto, l'eterno buon umore dell'attendente rendeva sopportabili, e all'occasione sapeva dirgli alcune frasi che rendono un servitore fedele al suo padrone.

    Una volta, mentre Ben-Zuf, sulla sua cavalcatura, caracollava «moralmente» nel XVIII circondario, il capitano gli disse:

    — Ben-Zuf, sai che se la collinetta di Montmartre fosse solamente quat-tromilasettecentocinque metri più alta supererebbe l'altezza del Monte Bianco?

    A queste parole, gli occhi di Ben-Zuf avevano mandato due baleni, e da quel giorno la sua collinetta e il suo capitano nel suo cuore si erano indistintamente confusi.

    CAPITOLO III

    IN CUI SI VEDRÀ CHE L'ISPIRAZIONE POETICA DEL CAPITANO SERVADAC È INTERROTTA DA UN CONTRATTEMPO IMPREVISTO

    L A PICCOLA CAPANNA del capitano era formata di travature, e coperta da una stoppia che gl'indigeni chiamano «driss». Queste capanne sono più grandi della tenda usata dagli arabi nomadi, ma meno delle loro abitazioni.

    Perciò l'abitazione del capitano Servadac non sarebbe stata sufficiente ai bisogni dei suoi inquilini se non fosse stata annessa a una vecchia costruzione in pietra che serviva come alloggio a BenZuf e ai due cavalli. Questa costruzione era stata precedentemente occupata da un distaccamento del genio, e in essa si trovava ancora una certa quantità di utensili, come zappe, vanghe e picconi.

    In realtà quell'alloggio lasciava alquanto a desiderare in fatto di comodità, ma non era che una sistemazione temporanea. D'altra parte, il capitano e il suo attendente non erano di gusti difficili in fatto di cibo e di alloggio.

    — Con un po' di filosofia e con un buono stomaco — ripeteva volontieri Ettore Servadac, — si sta bene ovunque.

    Ora, la filosofia è come gli spiccioli per un guascone, il quale ne ha sempre nel suo portamonete; e quanto allo stomaco, tutte le acque della Garonna avrebbero potuto passare attraverso quello del capitano senza arrecargli il minimo disturbo.

    Per quanto riguarda poi Ben-Zuf, se si crede alla metempsicosi, egli doveva essere stato struzzo in una esistenza inferiore, poiché aveva conservato un apparato digerente straordinario, coadiuvato da prodigiosi succhi gastrici, che gli permettevano di digerire i ciottoli come se fossero petti di pollo.

    I due ospiti della capanna avevano provviste per un mese, una cisterna forniva loro acqua potabile in abbondanza, il foraggio riempiva i granai della scuderia, e del resto la parte della pianura, compresa fra Tenez e Mostaganem, può, grazie al terreno fertile, gareggiare con le doviziose campagne della Mitidia. La selvaggina era abbondante, e non era proibito a un ufficiale di Stato Maggiore portare ad armacollo un fucile da caccia nei suoi giri di perlustrazione, a patto che non dimenticasse il suo eclimetro né la sua tavoletta. Il capitano Servadac, ritornato al suo alloggio, desinò con un appetito che la passeggiata aveva reso formidabile; Ben-Zuf era un ottimo cuoco: da lui non si dovevano temere cibi insipidi perché usava abbondantemente il sale, il pepe e l'aceto. Ma era un tipo di cucina adatto ai due stomachi descritti più sopra che sfidavano i condimenti più piccanti e per i quali la gastralgia non esisteva.

    Dopo la cena, mentre il suo attendente riponeva con cura gli avanzi del pasto in ciò che egli chiamava la «sua dispensa addominale», il capitano Servadac uscì all'aperto e andò a prendere aria, fumando sul ciglio della scogliera.

    Cominciavano a cadere le tenebre, il Sole era scomparso da più di un'ora, velato dalle fitte nuvole, dietro quella parte dell'orizzonte che la pianura tagliava nettamente al di là del corso del Cheliff. Il cielo in quel momento offriva un così singolare spettacolo che qualsiasi osservatore di fenomeni cosmici l'avrebbe notato non senza stupore. Infatti, verso il nord, sebbene le tenebre fossero già tanto profonde da limitare la portata dello sguardo a una distanza di mezzo chilometro, una specie di bagliore rossiccio tingeva le nebbie superiori dell'atmosfera. Non si intravedevano né frange regolarmente frastagliate, né irradiamenti di raggi luminosi provenienti da un centro luminoso; nulla, dunque, indicava l'apparizione di un'aurora boreale, la cui magnificenza, del resto, si può ammirare in zone a latitudine più alta. Un meteorologo sarebbe dunque stato assai imbarazzato se avesse dovuto dire da quale fenomeno era originata la magnifica illuminazione di quell'ultima notte dell'anno. Ma il capitano Servadac non era esattamente un meteorologo, e si può credere che, dal giorno in cui aveva lasciato i banchi di scuola, egli non avesse mai riaperto il suo Trattato di cosmografia. D'altra parte, quella sera l'ufficiale era poco incline a osservare la volta celeste; camminava senza meta e fumava. Non credo neppure che pensasse al duello che doveva il giorno seguente metterlo di fronte al conte Timascheff: e, in ogni modo, se questo pensiero gli attraversava talvolta la mente, non era già per eccitarlo più del necessario contro il conte. I due avversari non nutrivano odio l'un per l'altro, benché fossero rivali; volevano semplicemente risolvere una situazione in cui, quando si è in due, uno è di troppo. Perciò Ettore Servadac stimava il conte Timascheff un vero galantuomo, e il conte, a sua volta, non poteva nutrire per l'ufficiale che una stima sincera.

    Alle otto di sera, il capitano Servadac rientrò nell'unica camera del suo alloggio che conteneva un letto, un piccolo tavolino da lavoro e alcune valigie che servivano d'armadio.

    Era nella costruzione adiacente, non nella capanna, che l'attendente preparava i suoi manicaretti, ed era lì ch'egli si coricava, come era solito dire, «sopra un materasso di buona quercia»! La qualcosa non gli impediva di dormire dodici ore di seguito, perché in fatto di sonno avrebbe dato dei punti a un ghiro.

    Il capitano Servadac, non avendo sonno, sedette dinanzi al tavolino su cui erano sparsi i suoi strumenti di lavoro. Senza un proposito preciso, prese con una mano la sua matita rossa e azzurra, e con l'altra il suo compasso di riduzione; poi, avendo sott'occhio la carta di disegno, cominciò a tracciare linee diversamente colorate e disuguali, che non ricordavano minimamente il disegno severo di un rilievo topografico.

    Nel frattempo Ben-Zuf, che ancora non aveva ricevuto ordine di andarsene a letto, sdraiato in un cantuccio, cercava di dormire: cosa che la singolare agitazione del suo superiore rendeva difficile.

    Infatti non era l'ufficiale di Stato Maggiore, ma il poeta guascone che ora stava seduto al tavolino. Sì! Ettore Servadac si ostinava dietro al suo rondò, aspettando un'ispirazione che si faceva terribilmente pregare. Usava forse il compasso per dare ai suoi versi una forma rigorosamente matematica, o forse la matita a due colori gli era d'aiuto a variar le sue rime ribelli? Si sarebbe tentati di crederlo. Fatto è che il lavoro era faticoso.

    — Per Diana! — esclamava. — Perché sono andato a scegliere questa forma metrica che mi obbliga a raccogliere le rime come codardi di fronte alla battaglia? Per tutti i diavoli! io lotterò! Non sarà mai detto che un ufficiale francese sia fuggito dinanzi a poche rime. Una poesia è come un battaglione. La prima compagnia è già formata, mi correggo la prima quartina, avanti le altre!

    Le rime inseguite ad oltranza accorsero finalmente alla chiamata, perché una linea rossa e una linea azzurra si allungarono poco dopo sulla carta.

    Favelli in prosa o rime, Quando favella amor...

    «Che diavolo sta borbottando il capitano?» si domandava Ben-Zuf voltandosi e rivoltandosi. «Da un'ora si agita come un ossesso.»

    Ettore Servadac misurava a grandi passi la capanna completamente in preda all'ispirazione poetica.

    Ahi! poco il labbro esprime, Il più sta chiuso in cor.

    «Certamente sta componendo dei versi!» pensò Ben-Zuf drizzandosi nel suo cantuccio. «Quello è un mestiere chiassoso! Non si può dormire qui!» e mandò un sordo brontolio.

    — Che cosa hai, Ben-Zuf? — domandò Ettore Servadac. — Nulla capitano... è un incubo!

    — Il diavolo ti porti!

    — Venga pure subito, — mormorò Ben-Zuf, — soprattutto se non

    compone versi.

    — Quell'animale mi ha interrotto l'ispirazione, — disse il capitano

    Servadac. — Ben-Zuf!

    — Presente, capitano, — rispose l'attendente balzando in piedi e

    portando una mano alla visiera, e l'altra lungo il fianco.

    — Sta' fermo, Ben-Zuf! Sta' fermo! Sono riuscito a portare a

    termine il mio rondò!

    E con voce ispirata, Ettore Servadac aggiunse, con movenze da

    vero poeta:

    Non son che capitano, E un angelo voi siete. E pur la vostra mano

    Spero...

    L'ultimo verso non era ancora stato declamato completamente, quando il capitano Servadac e Ben-Zuf venivano buttati bocconi a terra con grande violenza.

    CAPITOLO IV

    CHE PERMETTE AL LETTORE DI MOLTIPLICARE ALL'INFINITO I PUNTI ESCLAMATIVI E INTERROGATIVI

    P ERCHÉ in quello stesso istante l'orizzonte si era modificato in modo così strano e improvviso che l'occhio esperto di un marinaio non avrebbe potuto riconoscere la linea circolare su cui si confondevano cielo e acqua?

    Perché mai il mare sollevava le sue onde a un'altezza che gli scienziati si erano rifiutati di ammettere fino ad allora?

    Perché, in mezzo allo scricchiolare del suolo che si lacerava, si udiva un frastuono spaventoso di diversi rumori, come lo stridio prodotto da uno sconquassamento del globo, e muggiti di acque che si urtano a profondità inconsuete, e fischi dell'aria sollevata a turbine?

    Perché, attraverso lo spazio, quel bagliore straordinario, più intenso della luce di un'aurora boreale, bagliore che invase il firmamento ed eclissò per un istante le stelle di ogni grandezza?

    Perché il bacino del Mediterraneo, che sembrava essersi vuotato per un momento, si colmò di nuovo delle sue acque in tempesta?

    E perché il disco della Luna parve ingrandirsi smisuratamente, come se in pochi secondi l'astro delle notti si fosse riavvicinato da novantaseimila leghe a diecimila?

    E perché, infine, un nuovo sferoide enorme, fiammeggiante, sconosciuto ai cosmografi, apparve nel firmamento per andarsi subito a perdere dietro fitti strati di nubi?

    Infine, quale bizzarro fenomeno aveva prodotto quel cataclisma, che scompigliò così profondamente la Terra, il mare, il cielo, tutto lo spazio?

    Chi avrebbe potuto dirlo? Rimaneva forse uno solo degli abitanti sulla Terra per rispondere a quelle domande?

    CAPITOLO V

    CON IL QUALE SI PARLA DI ALCUNE MODIFICAZIONI PORTATE NELL'ORDINE FISICO, SENZA CHE SI POSSA INDICARNE LA CAUSA

    E PPURE nessun mutamento sembrava essere avvenuto in quella parte del litorale algerino, limitata a ovest dalla sponda destra del Cheliff e a nord dal Mediterraneo. Nonostante lo spavento fosse stato grandissimo, nulla indicava né su quella fertile pianura, forse qua e là ondulata, né sulla linea irregolare della scogliera, né sul mare che si agitava in modo inconsueto, che un mutamento avesse alterato l'aspetto del paesaggio circostante. La costruzione in pietra, fatta eccezione di alcune parti del muro sensibilmente danneggiate, aveva resistito abbastanza. La piccola capanna invece si era rovesciata a terra come un castello di carte da gioco al soffio di un fanciullo, e i suoi due ospiti giacevano apparentemente senza vita sotto la stoppia del tetto.

    Soltanto due ore dopo la catastrofe il capitano Servadac riprese i sensi. Egli stentò in un primo momento a riordinare le idee, ma le prime parole che pronunciò, e il fatto non farà stupire nessuno, furono le ultime di quel famoso rondò che erano state troncate in modo così imprevisto sulle sue labbra:

    E pur la vostra mano Spero che mi darete.

    Subito dopo disse:

    — Dunque che cosa è accaduto?

    A questa domanda, ch'egli rivolse a se stesso, gli sarebbe stato

    piuttosto difficile rispondere. Sollevando il braccio, riuscì a sfondare il tetto di paglia, e la sua testa apparve fuor della stoppia. Il capitano Servadac si guardò dapprima intorno.

    — La capanna distrutta! — esclamò. — Sarà passata una tromba d'aria sul litorale!

    Si tastò. Non una lussazione, neppure una graffiatura.

    — Diamine! E il mio attendente? Si rialzò gridando:

    — Ben-Zuf!

    Alla voce del capitano Servadac, una seconda testa apparve sfondando la stoppia.

    — Presente! — rispose Ben-Zuf.

    Si sarebbe detto che l'attendente non aspettasse che questo ordine per riapparire.

    __ Puoi farti un'idea di quanto sia accaduto, Ben-Zuf? — domando

    Ettore Servadac.

    — No, capitano, ma ho l'impressione che stia scoccando la nostra ultima ora.

    — Bah! Una tromba, Ben-Zuf, una semplice tromba!

    __ E vada per una tromba, — rispose filosoficamente l'attendente. —

    Nulla di rotto, capitano?

    — Nulla, Ben-Zuf.

    Un istante dopo erano entrambi in piedi; sgomberando l'area su cui sorgeva poco prima la capanna, trovarono i loro strumenti, i loro effetti personali, le loro armi pressoché intatte e l'ufficiale di Stato Maggiore disse:

    — Che ore sono?

    __ Circa le otto, — rispose Ben-Zuf guardando il sole che si era innalzato di molto sopra l'orizzonte.

    — Le otto!

    — Poco più poco meno, capitano.

    — È mai possibile?

    — Sì, bisogna partire.

    — Partire?

    — Certamente, per il nostro appuntamento.

    — Quale appuntamento?

    — Il nostro duello con il conte.

    — Ah! per Diana! — esclamò il capitano, — me n'ero scordato. E togliendo di tasca l'orologio:

    — Che cosa vai dicendo, Ben-Zuf? Sei matto, non sono che le due.

    — Le due del mattino, o le due del pomeriggio? — disse Ben-Zuf guardando il Sole.

    Ettore Servadac, accostando l'orologio all'orecchio, disse:

    — Funziona.

    — E il Sole anche, — rispose l'attendente.

    — E infatti, stando alla sua altezza sopra l'orizzonte... Ah! per tutte le vigne del Medoc!...

    — Che cosa avete capitano?

    — Che siano le otto di sera?

    — Di sera?

    — Sì, il sole è a ovest, ed è evidente che sta per tramontare.

    — Tramontare? No, capitano, — rispose Ben-Zuf, — si alza appunto come un coscritto al suon della tromba! e vedete, intanto che chiacchieriamo, è già salito maggiormente, sull'orizzonte.

    — Che il Sole sorga a ovest, ora? — mormorò il capitano Servadac. — Ma no! non è possibile.

    Eppure, il fatto era indiscutibile. Il Sole, apparendo sopra le acque del Cheliff, percorreva in quel momento il tratto occidentale dell'orizzonte su cui aveva tracciato fin allora la seconda metà del suo arco diurno.

    Ettore Servadac comprese senza fatica che un fenomeno assolutamente inaudito, e in ogni modo inspiegabile, aveva modificato non già la posizione del Sole nel mondo siderale, ma il verso stesso del movimento di rotazione della Terra sul suo asse.

    Era cosa da perdere la testa. L'impossibile poteva dunque diventare realtà?

    Se il capitano Servadac avesse avuto la possibilità di interpellare un funzionario dell'ufficio astronomico, avrebbe cercato di aver da lui qualche spiegazione. Ma essendo assolutamente solo, disse:

    — In fede mia, questo riguarda gli astronomi; vedrò fra otto giorni che cosa diranno nei giornali.

    E, senza più indugiarsi nella ricerca della causa dello strano fenomeno, disse al suo attendente:

    — Muoviamoci, qualunque sia l'avvenimento che si è verificato, e quand'anche tutta la meccanica terrestre e celeste fosse sottosopra, io devo essere il primo a trovarmi sul posto per fare al conte Timascheff l'onore...

    — D'infilzarlo, — continuò Ben-Zuf.

    Se Ettore Servadac e il suo attendente fossero stati in grado di osservare i mutamenti fisici che si erano improvvisamente compiuti in quella notte dal 31 dicembre al 1° gennaio, dopo aver notato la modificazione nel movimento apparente del Sole, si sarebbero veramente meravigliati del cambiamento incredibile delle

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