DivagAzioni
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Le declinazioni necessarie e mai sufficienti del rapporto tra naturale e artificiale, la centralità del corpo per ogni esperienza, il pollice digitale che fa e conosce insieme alla mano che lo ospita, la natura e la cultura dell’apprendimento sono alcuni degli itinerari ridisegnati da queste nuove immersioni, tra le quali l’immagine come linguaggio aspiratutto e la narrazione del sé dentro specchifinestre digitali e multimediali.
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DivagAzioni - Ornella Martini
Ringraziamenti
Il cinghiale e la contadina (a mo’ di introduzione)
Dove, parlando di città e campagna, provo a dire le mie idee sulle tecnologie digitali, spero con qualche interesse e utilità per i lettori
Dal nome risulto una donna, e già questo soltanto può dire moltissimo; femminista per storia politica e personale (sono appartenuta totalmente al ’77, a partire dai miei 17 anni); ‘soggetto nomade’ per caso e per scelta. Nel pensiero della filosofa Rosi Braidotti la ‘coscienza nomade’ è multiforme, dinamica, temporanea, poliglotta, frammentata, straniera, situata, sessuata, tecnologica, globalizzata: questi sono alcuni degli attributi associati ad una soggettività concreta che il vissuto delle donne, legato alla mancanza, al particolare, al frammento, conoscono bene e che si presenta, oggi, in tutta la sua attualità. Il nomade percorre la sua traiettoria a velocità controllata. Parla di transizioni e di paesaggi senza destinazioni predeterminate. Non rimpiange patrie perdute. Il nomade intrattiene un rapporto di attaccamento transitorio e di frequentazione ciclica con la terra. Antitesi del contadino, il nomade raccoglie, miete, scambia e non sfrutta
(Braidotti, 2002, 47). Ecco qua: donna, femminista, esperta di tecnologie audiovisive e di rete, divisa e convinta abitante al tempo stesso della città e della campagna, pure cuoca e contadina nella piccola azienda organica di cui mio marito è l’agguerrito e appassionato genius loci, mi vedo come nomade sì ma di provincia: fisicamente e mentalmente mi muovo dalla Sabina in provincia di Rieti a Roma e viceversa. Non è un gran viaggiare (a parte la condivisione dei drammi giornalieri dei pendolari) nello spazio fisico, lo è piuttosto in quello della mente. Questa condizione mi permette di stare costantemente in bilico, in un equilibrio quotidianamente riassestato (anche attraverso una dolce, un pochino incostante, pratica dello yoga) dopo essere stato messo in gioco; mi permette di guardare alle cose come costantemente in transito, temporanee e parziali, attraenti proprio per questo. Nulla mi convince mai del tutto, e tutto mi appare come degno di essere preso in considerazione.
Probabilmente, una mia disposizione psichica e femminile, al tempo stesso, alla frammentarietà e alla molteplicità, ha trovato terreno fertile non soltanto nella scelta di vivere la doppia dimensione città-campagna, ma anche in quella di studiare e adottare le tecnologie come ambienti, socialmente e personalmente determinati. Nella visione dei media come cornici che ritagliano il mondo di esperienze, conoscenze, relazioni, c’è certamente la nozione di parzialità e di temporalità, ma anche quella di ciclicità e di variazione; le tecnologie contribuiscono a modificare le mentalità attraverso le pratiche d’uso, distruggono e innovano al tempo stesso; portano via e riportano in vita forme ‘vecchie’ in varianti nuove.
Come membri di culture alfabetizzate che, attraverso la scrittura, il libro e, soprattutto, la stampa, almeno per come le intendiamo oggi, hanno inventato la filosofia, la scienza, la storia, la narrazione, abbiamo imparato a dare valore culturale al passato, così tanto da temere sempre il nuovo come una minaccia per la nostra stessa sopravvivenza. Guardiamo al presente e ci spaventiamo, ma se impariamo a comprendere il passato guardando il presente scopriamo che ciò che arriva nuovo è stato sempre a lungo temuto e rifiutato. Le innovazioni tecnologiche hanno significato per tanti esseri umani la perdita del proprio sapere, del proprio lavoro, del proprio ambiente culturale ‘naturale’. Pensiamo soltanto alle conseguenze distruttive derivanti dallo sviluppo della stampa a caratteri mobili.
Nell’antichità ci fu un lunghissimo periodo in cui il principale problema culturale deve essere stata una profusione apparentemente inesauribile di libri. Dove metterli? Come organizzarli negli scaffali cigolanti? Come memorizzare quella valanga di conoscenze? La perdita di quel patrimonio sarà apparsa pressoché inconcepibile per gli uomini dell’epoca. Poi, piano piano, quell’attività febbrile cessò. Ciò che sembrava stabile si rivelò fragile e ciò che era parso eterno si dimostrò effimero. I copisti devono essere stati i primi ad accorgersene, perché avevano sempre meno da fare. L’attività di trascrizione si interruppe quasi ovunque. La pioggia, che gocciolava lentamente dai buchi dei tetti fatiscenti, lavava via le lettere da quei testi che le fiamme avevano risparmiato, e le tarme, i denti del tempo, si accanivano su ciò che restava. Gli insetti, tuttavia, furono solo gli agenti più umili del grande naufragio. Altre forze si misero all’opera per affrettare la scomparsa dei volumi e lo sbriciolamento degli scaffali
(Greenblatt, 2012, 94).
La citazione è tratta dal libro in cui Stephen Greenblatt ha raccontato magistralmente (vincendo nel 2012 il premio Pulitzer per la documentazione storica) la scomparsa dell’opera più importante di Lucrezio, De Rerum Natura, il suo ritrovamento in un anonimo manoscritto del nono secolo ad opera dell’umanista Poggio Bracciolini nel 1417, e come questa riscoperta abbia aiutato la ‘svolta’ verso la modernità.
Le distruzioni hanno cause naturali, politiche, religiose; possono essere eventi traumatici (purtroppo continuiamo ad averne esempi sempre troppo frequenti) come incendi, terremoti, guerre, fanatismi religiosi. Perdere ciò che è stato costruito con fatica, sapienza e passione sembra far parte della condizione umana nella sua doppia dimensione naturale e culturale. Al tempo stesso, però, proprio gli intrecci tra queste due dimensioni rivelano che, molto spesso, le perdite sono provocate da trasformazioni che introducono novità, a volte lente e progressive, a volte improvvise e irregolari, nella loro complessità simili ai processi di selezione naturale. Come organismi viventi partecipiamo del grande lavorio della natura per garantire la sopravvivenza della specie (in Italia non riusciamo affatto bene in questo obiettivo, visto che attualmente abbiamo un tasso di fecondità così basso che il numero di nuovi nati è più basso di quello dei deceduti): siamo esseri animali così fragili da essersi dovuti inventare tutto per potersi difendere e organizzare come individui e come collettività.
Il processo dinamico di regolazione della vita è detto ‘omeostasi’, che agisce attraverso l’interazione di due varietà di esso: ‘fondamentale’ e ‘socioculturale’, secondo Damasio.
Tutti gli strumenti di cui ci siamo dotati sono serviti, servono (in molti casi e situazioni mondiali sarebbe meglio dire servirebbero) a questo scopo fondamentale: gli strumenti e le armi, le leggi e le istituzioni, le scienze e la medicina, tutte le arti; insomma, tutta la splendida, contraddittoria, dispendiosa produzione dell’ingegno umano sono il frutto combinato e temporaneo dell’intreccio indistricabile di natura e cultura. Gli uomini trasformano l’ambiente in cui vivono utilizzando tutti gli strumenti, cioè tutte le tecnologie, che hanno inventato e di cui si dotano, a volte per scelta a volte per obbligo; così facendo trasformano se stessi, la loro natura. Cambiano. Perdono (e non chiedono quasi mai perdono per questo). Distruggono. Fanno cose meravigliose e cose terribili.
Le varietà dell’omeostasi – a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale – sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni nel genoma.
(Damasio, 2012, 42-43).
Vivere in campagna concede ogni giorno occasioni per osservare e riflettere sulla interazione di questa doppia dimensione. Eventi, gesti e azioni a volte minime rivelano implicazioni profonde derivanti da questa complessità.
Accade un giorno, ad esempio, che un giovanissimo cinghiale scelga di entrare nel grande spazio recintato di