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Tutta colpa di Magath
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Tutta colpa di Magath

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Gianpiero detto Gipo, Claudio e Carmelo sono amici dai tempi ormai lontani della scuola superiore, delle mattinate passate a sfogliare il Tuttosport sui banchi di un Istituto Commerciale posto nel centro di Torino. È la Juventus la passione che li unisce, l’origine di un’intesa che dura ancora oggi che i capelli hanno iniziato a ingrigire. Sono tifosi comuni non ultrà, supporters da divano e da panchina: quella del giardino pubblico vicino a casa, la loro Sede ufficiale. Conducono esistenze normali e ripudiano ogni tipo di violenza.
Eppure, quando la Juve perde contro il Barcellona l’ennesima finale di Champions League, in seno al gruppo si sprigiona una forza negativa. Possibile che una squadra così abituata a vincere si areni ogni volta all’atto conclusivo nella competizione più prestigiosa? La soluzione la trova Gipo, o così crede: “Dobbiamo uccidere Magath” dice ai suoi amici lasciandoli di sasso. Felix Magath, il mediano tedesco dell’Amburgo che nel 1983 beffò Zoff con un tiro impossibile. Da quel giorno, tra la Juve e la “Coppa dalle grandi orecchie”, si frappone una barriera invisibile e malevola. Gianpiero è sicuro: sparito Magath sparirà il sortilegio!
LanguageItaliano
Release dateDec 13, 2017
ISBN9788885557116
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    Tutta colpa di Magath - Fausto Goggio

    Silvia

    LA FOLLE PROPOSTA

    Primavera 2015

    Era già trascorsa una settimana, otto giorni per l’esattezza, dall’ultima volta in cui si erano visti, da quel Juventus – Barcellona uno a tre: la sesta finale di Champions League persa su otto tentativi, la quarta consecutiva.

    Sui loro visi restavano le tracce profonde, tutt’altro che enigmatiche per l’occhio esperto di un tifoso, di quel recente lutto sportivo.

    Gianpiero, detto Gipo in ossequio a quelle origini piemontesi di cui andava tanto fiero, arrivò alla loro sede estiva, uno dei giardini pubblici del quartiere Santa Rita di Torino, che i suoi due amici erano già mollemente svaccati sulle verdi panchine di legno: palesemente consunte dal tempo, dalle intemperie e dal lavorio costante dei molti cittadini di passaggio votati al vandalismo.

    Si ritrovavano sempre lì nella bella stagione: Gianpiero, Claudio e Carmelo, che però si faceva chiamare Marco, facendo leva su un anagramma che utilizzava solo alcune tra le lettere del suo nome. Quelli della Triade, come amavano ironicamente autodefinirsi.

    A turno, uno di loro, provvedeva al rifornimento di birra e patatine, contorno godereccio della serissima assemblea.

    A volte, molto spesso in verità, il clima sulla panchina era allegro se non addirittura euforico, altre invece più ombroso e contrito: dipendeva dai risultati e dal cammino della Vecchia Signora, loro grande e comune amore, collante primordiale di un’amicizia prossima alle nozze d’argento.

    Gipo preferiva chiamarla Madama, alla piemontese. «Sono sabaudo io», ripeteva ogni qualvolta ne aveva l’occasione, quasi a voler sottolineare, tra sé e il più antico sodalizio calcistico torinese, un legame di sangue privilegiato, tra conterranei.

    Amava rimarcare i concetti intercalando le frasi con idiomi dialettali appresi dal nonno e mai più dimenticati.

    Gli amici spesso diventavano "badola, o garula; a l’è incredibil" ¹ chiudeva di frequente un monologo nel quale si era accalorato oltre misura.

    Il suo dialetto per il resto, si fermava tutto qui: figlio del proprio tempo, così come per i suoi coetanei nati nella grande città, era l’italiano la sola lingua utilizzata per comunicare; a casa come a scuola, un tempo, e al lavoro oggi.

    Il parco vernacolo di Gipo non soffriva di rigurgiti razzisti né ambiva a rimarcare alcuna idea di superiorità. Era una macchietta e come tale non dispiaceva ai suoi due amici, che gli reggevano la parte assecondandolo di buon grado.

    Insieme, quelli della Triade, stilavano settimanalmente la migliore formazione da mandare in campo, concertavano moduli, studiavano con scrupolo risorse e punti deboli degli avversari alle viste. Vagliavano operazioni di mercato: cessioni, acquisti, costi e plusvalenze, poi… aspettavano di leggere sui giornali se quelli deputati a farlo avessero operato le giuste scelte influenzati, in grazia di chissà quale forza telepatica, dalle decisioni da loro precedentemente discusse e approvate sulla panchina.

    Con l’arrivo del freddo e della brutta stagione la sede si spostava al chiuso di un bar o di una birreria: il luogo, non essendo più fisso, veniva concordato di volta in volta.

    Certo la sede estiva era tutta un’altra storia.

    Era lontana da occhi e orecchie indiscrete e inoltre, dettaglio non trascurabile, consentiva pure di risparmiare qualche quattrino sull’aperitivo, cosa che a Gipo, più che agli altri, non dispiaceva affatto.

    «Noi piemontesi stiamo attenti a non sperperare i "gran". Mica facciamo come il Berlusca o Moratti, ca spendu e spandu.» ²

    Insomma quel pezzo di verde faticosamente ricavato e incastonato tra gli alti palazzi di uno dei borghi più popolosi della città, per loro era come il salotto di casa.

    Avvicinandosi, Gianpiero lo scrutava in lontananza, mentre cercava di elaborare la formula migliore con cui aprire l’assemblea. L’andatura dinoccolata, il portamento di un quarantenne allenato, i capelli accuratamente spettinati e un groviglio di pensieri per la mente.

    Gli amici, gli sembrava, erano insolitamente taciturni e incuranti l’uno dell’altro: la recente sconfitta coi suoi strascichi fiaccava ancora la voglia di comunicare.

    Rallentò il passo in modo da non farsi notare, la frase adatta tardava a farsi breccia.

    Doveva risultare secca, ferma, convincente.

    Non avrebbero potuto non accoglierla e non farla propria.

    Bisognava che penetrasse nelle loro menti come uno slogan, udito e mai più dimenticato.

    D’altra parte quella era forse l’unica via d’uscita al loro dramma; Gipo vi si arrovellava intorno senza divagazioni ormai da una settimana. In fondo a lui tutto s’era fatto chiaro, ben delineato, ovvio perfino.

    Restava il problema di convincere loro, di tirarli sulla sua barca per sfidare le mareggiate di quell’avventura e sperare che non lo prendessero per pazzo, o peggio ancora per un giullare. Sull’ultima ipotesi, però, nutriva pochi dubbi. Chi avrebbe avuto voglia di scherzare in quei giorni, dopo una delusione del genere?

    Ci avevano creduto davvero, erano stati a un passo dal superare i mostri sacri dell’ormai leggendario tiqui-taca. Sarebbe bastato un refolo bonario per invertire il corso della storia. Ma quel soffio fatato non era arrivato. Neppure questa volta. Ed eccoli lì: sfiancati, derubati della più piccola goccia d’energia vitale, svuotati d’appetito di stomaco e di esistenza; aggrappati unicamente l’uno all’altro in quell’amicizia che si perdeva ormai nella notte dei ricordi adolescenziali. E non è poco conforto: l’amicizia, intendo. Perché non si tratta dell’abusato mal comune che dovrebbe rendere ciascuno gaudente per metà, e alla fine lascia tutti scazzati per intero. Per loro era proprio un solcare la vita a braccetto, che è molto meglio che ingoiarsela da soli: che quando senti che sei a terra, ma a terra per davvero (e una finale di Coppa persa ti stronca ma se tifi per la Juve ti consuma dall’interno come il più putrido dei batteri), c’è sempre chi di fianco a te, inaspettatamente, ha ancora la forza per risollevare le vele e farti ripartire. Insieme.

    Ecco, ci siamo! L’aveva trovata.

    Affrettò il passo, attraversò la strada quasi saltandola a piè pari e fece la propria apparizione in sede. Neppure l’indugio per i saluti, neppure una pausa tra una parola e l’altra. Come uno scioglilingua recitato in rapida cantilena sparò secco in faccia ai suoi amici, quasi a riprendere un discorso appena interrotto: «C’è una sola cosa da fare: dobbiamo uccidere Magath.»

    1 fannullone o fesso; è incredibile.

    2 «... che spendono e spandono.»

    IL PRIMO APERITIVO

    Gli albori

    Sul giardino, sulle panchine, tra le fronde degli ippocastani, un silenzio prebellico destinato a breve vita distese il proprio manto riempito dall’incrocio di sguardi che i tre si scambiavano.

    Claudio guardava Carmelo; Carmelo guardava Claudio. Gipo scrutava alternativamente Carmelo e Claudio che continuavano a fissarsi ammutoliti, cercando in quei visi l’anticipo d’una risposta.

    Infine Carmelo si alzò dalla panchina scoppiando in una risata che lasciava intravedere fin quasi le tonsille. Rideva senza ritegno né compostezza, come per altro gli capitava spesso: non era tipo da trattenere le emozioni.

    Poi si lanciò su Gipo abbracciandolo nel suo modo particolare e personalissimo. Gli si appese al collo quasi spintonandolo all’indietro, colpendolo col ventre, a peso morto. L’altro dovette opporre quanta più resistenza possibile per mantenersi in piedi e non finire a terra, sulla schiena, con l’amico coricato sopra.

    Era, questa, la sola maniera con cui sapeva abbracciare. Il contatto tra i corpi era totale, una vera e propria aderenza di pance. O così o niente.

    E infatti Carmelo, detto Marco, il suo abbraccio lo concedeva ai parenti più stretti, neppure a tutti, e agli amici della Triade.

    «Gli abbracci finti a me non piacciono. Le pance si devono toccare con sincerità» spiegò agli esordi per giustificare tutto il proprio calore e far evaporare il loro imbarazzato stupore.

    A Gipo di solito non dispiaceva ma questa volta, non fosse stato per il peso soverchiante dell’amico, l’avrebbe volentieri scaraventato il più lontano possibile da sé.

    Desiderava avere immediate risposte, considerazioni e opinioni sulla sua risolutiva illuminazione; senza perdere ulteriore tempo.

    Chi invece, indipendentemente dallo stato d’animo del momento, mal digeriva tale genere di effusioni era Claudio, il Professore. Raffinato ed essenziale, nel pensiero e nel portamento, quasi snob, un po’ restio nel lasciarsi andare al contatto fisico, spesso aveva tentato la via democratica per argomentare la propria ritrosia ad essere avvinghiato.

    «Abbracciatevi tra voi, mica ve lo impedisco» proseguiva quindi alternando mugugni e frasi smozzicate, lesinando quasi del tutto sui verbi ma riuscendo a fare in modo, tuttavia, che il proprio pensiero risultasse ugualmente se non ulteriormente incisivo: «Ste pance… così stretti… un po’ sudati… che necessità c’è?» – E non era per necessità appunto che Carmelo gli si accollava, ma per puro, irrefrenabile, insopprimibile affetto: quello che provava per entrambi i suoi migliori amici, e non vedeva alcuna ragione per doversi contenere.

    Gipo e Carmelo, scientemente convinti d’asserire il falso, passavano ad accusarlo di volersi dare un tono, giusto per far pesare la propria maggior cultura, la laurea che dei tre era l’unico ad avere conseguito; in lettere, per giunta.

    E ogni volta terminavano la discussione su toni risentiti, che sfociavano nella minaccia di non sfiorarlo mai più. Il loro affetto non avrebbe ulteriormente disturbato la compostezza del Professorino in nessuna futura occasione.

    Poi, non appena le circostanze lo consentivano, magari con la scusa di complimentarsi per un pronostico azzeccato o una battuta ben riuscita, con un’occhiata d’intesa balzavano entrambi in piedi e lo soffocavano in un prolungato, eccessivo, ostentato abbraccio, assai più animoso di quelli d’ordinanza.

    Carmelo lo fagocitava frontalmente, mentre Gipo si occupava di richiuderlo a sandwich dalle spalle.

    Saltando dunque in perfetta sincronia, e strofinandosi così da creargli il maggior disgusto possibile, si congratulavano attribuendogli a gran voce frasi di apprezzamento: «Bravo! Tu sì che parli bene! Si vede che hai studiato!»

    Questa volta però la stretta stava coinvolgendo solo Gipo e Carmelo. Quando quest’ultimo finalmente esaurì la risata sciogliendosi dal collo dell’amico, Claudio era ancora immobile sulla panchina, con la stessa espressione attonita che non aveva più smesso da quando Gianpiero li aveva salutati con quella sua… proposta.

    «Chi cazzo è che dobbiamo uccidere?» – La voce rauca di Carmelo diede di fatto inizio al dialogo, sciogliendo pensieri e favelle.

    «Non credo ci si debba porre la domanda su chi dobbiamo uccidere, quanto piuttosto su cosa c’entri quel verbo associato a noi tre.»

    Finalmente anche Claudio, con il consueto puntiglio ironico, manifestò la propria concreta presenza.

    «Per altro trattasi di Magath, ex calciatore degli anni ottanta – proseguì – ruolo mezz’ala di fantasia, quasi sempre in forza all’Amburgo. Attualmente allenatore, mi risulta disoccupato, è stato anche alla guida del Bayern vincendo la Bundesliga due volte, ma soprattutto conquistando il titolo con il Wolsburg che mai vi era riuscito nella propria storia» – concluse l’intervento da autentica enciclopedia vivente.

    «Vuoi dirci anche peso e altezza?»

    «Credo si aggirasse intorno ai settanta chilogrammi per poco più di un metro e settanta d’altezza. Ma vado così a occhio, per come lo ricordo nelle immagini da giocatore. Tanto dubito tu sia in grado di smentirmi» rispose con una punta di acidità a Carmelo che aveva osato motteggiarlo con quella domanda sarcastica.

    Carmelo cercò Gipo aspettando l’intesa per balzargli addosso e riempirlo di meritati complimenti, l’occasione era di quelle ghiotte. Ma l’amico non era proprio in vena di scherzare.

    Palesando il proprio fastidio sbuffò due boccate di vapore dalla sigaretta elettronica, mordicchiandola di malumore tra i denti: ancora non gli avevano risposto.

    I ruoli e le competenze in seno al gruppo erano, niente meno, quelli appena esplicitati da questo scambio di battute.

    Gianpiero era nelle gerarchie il militante più anziano, quello che fin dall’infanzia si era legato alle sorti della Juventus. Vantava ricordi in prima persona assai più datati di quelli degli altri.

    «Mio padre mi portava al Comunale che per merenda tra il primo e il secondo tempo ciucciavo ancora il biberon.»

    E non esagerava di una virgola: il babbo lo battezzò personalmente, neonato sul tavolo della cucina, avvolgendolo per intero nella bandiera bianconera. A corredo dell’evento e a futura memoria, un ricco reportage di foto che Gipo non ha mai smesso di custodire.

    Dal padre ha ereditato una certa sobrietà nel tifo e ancor di più il rispetto per i risultati del campo, compresi quelli negativi, e quello per gli avversari che mai gli è riuscito di vedere quali nemici.

    I giudizi faziosi lo infastidiscono al punto da fargli abbandonare ogni discussione, specie quando provengono da persone della sua stessa fede calcistica.

    Claudio era della Triade l’archivio storico, una Treccani calcistica deambulante. Sul tema possedeva una cultura sconfinata, figlia di abbondanti ricerche e costanti letture. L’esperienza diretta se l’era però dovuta costruire da solo, attraverso televisione e giornali prima e, solo successivamente, recandosi allo stadio.

    In casa di calcio si parlava quanto del campionato mondiale di freccette. Senza nulla voler togliere al nobile passatempo da pub.

    Diversamente da Gipo, amava il calcio nei suoi variegati colori, non solo quello in bianco e nero. Seguiva quello inglese, principalmente, ma pure quello tedesco, la Liga, era aggiornato sulla Coppa Libertadores, conosceva perfino l’andamento del campionato Primavera, dal quale ogni tanto segnalava agli amici il nome di un predestinato che presto, a sentir lui, sarebbe balzato agli occhi della massa.

    Era un esperto a tuttotondo, la loro finestra sul mondo; Gipo gli portava grande rispetto.

    Carmelo a tutto questo patrimonio di sapere riservava la stessa importanza che attribuiva ai trattati di filosofia in compagnia dei quali l’altro, talvolta, si faceva pizzicare.

    «Fammici appoggiare sopra i piedi così non sporco il tavolo per l’aperitivo» diceva quando voleva unire, al piacere di allungare le gambe, quello ancor più appagante di rompergli le palle.

    Per lui il calcio aveva radici corte, che nascevano nel momento esatto in cui aveva iniziato personalmente a interessarsene: tutto quanto accaduto prima di allora, semplicemente, non esisteva.

    Era arrivato a Torino all’età di quattordici anni, subendo, è questo il verbo più adeguato, la decisone del padre che dalla Puglia aveva trascinato nel freddo del nord lui e la madre, per cercare orizzonti più fecondi alla propria attività di decoratore.

    Fino ad allora il pallone lo aveva sempre solo calciato: nei cortili, nelle piazze o nei prati dopo scuola. Un divertimento all’aria aperta, niente di più.

    Calato nella realtà di tutti i giorni, i punti di contatto con i coetanei non gli mancavano di certo: le amicizie erano consolidate, discutere di calcio non lo interessava né gli era necessario.

    Nel capoluogo piemontese lo scenario mutò drasticamente, acuito dai travagli personali tipici di quell’età; il cambio di abitudini e lo smarrimento lo costrinsero a inoltrarsi lungo inesplorati sentieri di aggregazione.

    In prima superiore, in un

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