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Un mondo diverso
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Un mondo diverso

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“L’azione mentale di abbandonare la propria asserita superiorità ontologica è quanto di più onesto, etico e necessario possa esistere nel comportamento umano: è soprattutto il segno che quel nostro pernicioso delirio di onnipotenza ha lasciato il campo a un sano relativismo e alla pacificazione col mondo.” Un libro per ribellarsi a questo mondo almeno con l’immaginazione, per mostrare all’uomo che possono esserci anche altri modi di vivere, e che si è uomini vivi solo quando non si rinuncia alla speranza di poter migliorare qualcosa.
LanguageItaliano
Release dateNov 28, 2017
ISBN9788893780704
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    Un mondo diverso - Paolo Rumor

    Prefazione

    Era una giornata chiara di settembre in uno dei primi anni dopo il 2010. Ero salito sull’Altopiano di Asiago dove non venivo da tempo perché dopo che era mancata la Chica non avevo più avuto la scusa per compiere le consuete passeggiate fra i boschi. Dal punto in cui la Val di Camporossignolo si affaccia alla pianura e si può spaziare con lo sguardo da una parte fino alla laguna di Venezia e dall’altra fin giù alla città di Vicenza e ai Colli Berici, mi ero sporto a godermi la vista, ma sono rimasto esterrefatto! Mi ricordavo bene la grande spianata verde di qualche tempo prima, ma ora vedevo solo un indistinto alternarsi di capannoni grigi, strade, agglomerati e festoni di case, fabbriche e frammenti di campagna senza soluzione di continuità. Unica nota di distinzione le ghiaie dell’Astico, che accrescono tuttavia il quadro di desolazione con il largo alveo asciutto. Erano dappertutto: seminate per ogni dove lungo l’intrico di stradine che si aggrovigliano nelle ondulazioni della Pedemontana tra Schio e Bassano del Grappa, lungo le Provinciali, le Comunali di collina e pianura e in mezzo a questa.

    La vasta area delineata da Piovene Rocchette, Santorso, Schio, Malo, Marano, Thiene, con l’appendice di Isola, Villaverla, Dueville sta diventando una città e i tratti di coltivazione rimasti intrappolati al suo interno vanno configurandosi come le future aree verdi di questa. Un’altra superficie urbana si va consolidando tra Mason, Breganze, Montecchio Precalcino, Sandrigo, Schiavon. In fondo sulla destra, lungo il corridoio che parte dalla periferia ovest di Vicenza e si intravede solo in parte, Olmo, Altavilla, Tavernelle, Alte e Montecchio Maggiore hanno completamente saturato di capannoni e case quella fetta di pianura attorno alla Statale, arrampicandosi sulle propaggini dei Berici da una parte, dei Lessini dall’altra, che cedono progressivamente alle residenze.

    È successo tutto in breve tempo: poco più di vent’anni, così in fretta che uno si domanda se si sono messi d’accordo per realizzarlo come un piano prestabilito! Passando in auto per la pianura non si capisce bene: dietro le case in fila che prospettano la strada sembra che ci siano le campagne di sempre perché qualche alberata o fetta di coltivazione lo nasconde, e invece ogni Comune, ogni Frazione ha realizzato la seminagione del cemento in buona parte del suo rispettivo territorio talmente rapidamente e sistematicamente da togliere il fiato! Dall’orlo della montagna si vede come un plastico: praticamente la pianura vicentina che io ricordavo non esiste più, gli ultimi fondi liberi li hanno lasciati alle cave altrimenti come facevano a costruire tutta quella roba? Credo che abbiano risparmiato solo la fascia delle risorgive e non è stata certamente una scelta. Mi sarei accorto poco dopo che anche i Comprensori dell’Agno e del Chiampo, che dall’altipiano non si vedono, hanno avuto la stessa sorte perché quelle aree vallive hanno subìto un identico massiccio riempimento, anzi peggiore degli altri. Ma ugualmente è accaduto per le fasce che circondano i Colli Berici a ovest e a est, lungo la Statale, le Provinciali, le Comunali, e si insinuano nelle loro propaggini come un polipo allunga mille tentacoli dentro ogni anfratto: sono interamente circondati da abitazioni e da zone industriali, artigianali, commerciali. Praticamente i dossi collinari emergono da un fitto anello di fabbricati che li saldano a tenaglia. Le stesse bonifiche interne di Fimon sono urbanizzate in profondità: la sponda ovest del lago e la Val Ferrara sono ormai costellate da una teoria di case e casette. A loro volta le dorsali dei colli in molti tratti sono una fila continua di abitazioni che si spandono poi a raggiera o a pettine lungo comunali e capezzagne. Si salvano ancora un poco la Val Liona e la pianura di Brendola. Quanto a Vicenza, praticamente è divenuta una metropoli lineare: comincia ad Arzignano-Montecchio Maggiore, si salda quasi senza soluzioni di continuità al Comprensorio di Padova e questo a Mestre, lasciando libero solo qualche tratto di statale, in attesa di una sua valorizzazione.

    Ma come è stato possibile? Evidentemente l’avevano in programma da molto tempo perché una cosa così non si può realizzarla occasionalmente. Gli amministratori comunali, padri e figli, devono averlo previsto da decine d’anni, naturalmente passandosi la parola in sordina perché altrimenti la gente si sarebbe imbestialita. Oppure è stata una cosa automatica, come il meccanismo delle ciliegie, e tutti ci hanno marciato e guadagnato? Una buona parte di responsabilità è dei privati che hanno fatto i soldi vendendo le campagne da lottizzare, d’intesa con gli amministratori: in effetti come si fa a distinguere nei piccoli Comuni tra proprietari e amministratori? E la Regione che tiene il piano generale del suo territorio? Come ha potuto la mia gente perdere così in profondità il senso dell’armonia, della bellezza, tanto da cedere l’identità e la memoria del proprio passato e distruggere la speranza del futuro per quattro soldi che oggi ci sono e domani saranno solo un amaro rimorso? Come si è giunti così in basso? Quegli individui che sono disposti a negare un futuro equilibrato alla propria discendenza possono sentire di avere contribuito a costruire un’esistenza più umana, o interessa loro solamente l’utile immediato ed egoistico?

    ***

    Credo sia andata così un po’ dappertutto, almeno qui al nord, ma anche in altre Regioni.

    Subito dopo la guerra i padri avevano messo in piedi un’officina, una fabbrichetta, un laboratorio coi finanziamenti del Governo erogati dagli Stati Uniti, mutui pluridecennali sostanzialmente a tasso zero. Siccome dopo i bombardamenti non era rimasto più niente in piedi e già prima della guerra l’industria non aveva compiuto molta strada, quelli che avevano buona volontà e un certo ingegno hanno fatto presto a trovare da vendere i loro prodotti a un popolo che bisognava di tutto. In precedenza c’era stato qualche decennio di avviamento industriale, in alcuni centri fin da fine ottocento, ma era un’iniziativa scaturita dai pochi borghesi o nobili che avevano i soldi e la terra: la gente comune era rimasta nei campi, relativamente pochi operai e il denaro prodotto da quelle fabbriche iniziali non era circolato più di tanto. Praticamente l’Italia era ancora una civiltà contadina e così anche da noi.

    La prima generazione dopo la guerra è stata più fortunata che abile: dopo i vent’anni di autarchia, nell’aprile del ‘48 il Piano Marshall aveva aperto all’Europa i soldi d’oltre oceano per la ricostruzione economica, a tassi ridottissimi e a durata pluridecennale, accessibili a chiunque avesse la disponibilità di un terreno dove costruire quattro muri per produrre qualcosa con un patentino di abilitazione rilasciato dalla Camera di Commercio: nessuno aveva interesse a lesinarli. L’ingegnere faceva il disegno per l’impianto e l’impresa erogatrice dell’energia elettrica rilasciava l’autorizzazione all’allacciamento: bastava una baracchetta nel campo dietro casa o a fianco strada e si cominciava con il padre, la moglie, il cognato: nessun concorrente, investimento pressoché gratuito, gli acquirenti a ogni angolo, zero intralci di norme sull’igiene e l’inquinamento.

    Dopo quindici anni ecco il primo figlio che va all’Istituto Industriale, poi si inserisce nell’aziendina che intanto ha preso avviamento, si è allargata con un capannone più adatto e ammodernata con le macchine produttive di seconda generazione. Il padre si è fatto un poco grigio: il numero dei figli è arrivato a tre e si sono impiegati tutti nella fabbrica che continua a crescere coi generi e le nuore, richiamando qualche operaio dal paese o da poco fuori. Sorge qualche casetta nei pressi per ospitare le famiglie dei figli, ma sorgono anche quelle dei figli dei primi operai, che erano i paesani residenti lì intorno, e ora si sono spostati anche loro un poco più in là, subito dopo le vecchie abitazioni.

    Le commesse fioccano, si guadagna bene e i sindacati collaborano: i risparmi si fanno consistenti e vanno in circolo tramite l’investimento della banca. Verso la fine degli anni Sessanta la guerra e il passato sono un ricordo che comincia a sbiadire: nascono già i musei della civiltà contadina, con i vecchi che raccontano ai nipotini come vestivano e mangiavano. A scuola la maestra insegna il significato degli oggetti che usavano i nonni, come fossero una cosa della preistoria! Tutto bene allora?

    L’uomo è un animale opportunista, dicono gli antropologi, e non ci mette molto ad annusare le convenienze. Dove andavano i soldi che i primi industrialotti di paese depositavano in banca? Ci hanno pensato subito quei personaggi che un tempo si chiamavano mediatori e giravano in calesse per proporre al contadino l’occasione della vacca o dell’attrezzo buono per l’aratura, o del campetto in vendita. I loro figli si sono rifatti il guardaroba e con il certificato rilasciato al corso di finanziatore qualcuno si è presentato ai paesani divenuti imprenditori proponendosi come professionista dell’investimento. Un’infarinatura di borsa si può farsela anche leggendo un manualetto d’uso o affiancandosi al ragioniere del paese: gli investimenti meno sofisticati sono i soliti Bot del governo, ma lo sa anche un ignorante che l’impiego più sicuro è sempre il mattone, perciò non ci è voluto molto: la Giunta Comunale è composta da contadini maturi che hanno appena la quinta elementare e sono stati eletti perché la gente li stima, ma non sono abbastanza preparati da discutere coi mediatori o gli agenti che si presentano col colletto bianco, il diploma e il biglietto della banca! Loro mostrano alla Giunta un progetto di massima per la collocazione delle fabbrichette, delle nuove case e dei negozi in una lottizzazione da approvare, come è previsto dalla legge urbanistica: impianto luce, energia industriale, lotti serviti da strade asfaltate, condotti d’acqua e fognatura, accesso facile dalla Provinciale, anzi davanti alla Provinciale o alle Comunali così che tutti ci capitino senza nessuna fatica. L’indennizzo per l’esproprio dei terreni agricoli è una miseria perché la priorità assoluta è divenuta la produzione industriale.

    Il cerchio potrebbe essersi chiuso qui dato che il lavoro aveva assorbito tutti i membri della collettività paesana, in parte collocati nelle nuove aziendine industriali, parte in quelle agricole che avevano potuto allargarsi e ammodernarsi, parte nei negozi già esistenti e ampliati o in quelli nuovi. Ma da dove erano arrivati i soldi che gli agenti della banca o i promotori avevano messo a disposizione degli investitori? Proprio dai risparmi che le prime fabbrichette del dopoguerra avevano cominciato a produrre in quel borgo e in ogni altro paese e cittadina del nord, che erano stati depositati in numerosissimi conti e ora rendono gli interessi di investimenti fatti un po’ dappertutto, arrivati tramite centinaia di rivoli anche da altre banche.

    Si riapre un nuovo ciclo, ma adesso il giro si è fatto molto più ampio.

    I figli nati dopo la guerra hanno avuto anch’essi i loro figli, i nipoti del patriarca, ma questa volta non più di due perché le nuove mamme non sono più disposte a spendere la vita solo per allevarli: vogliono partecipare alla società e si sono inserite nel mondo che produce: hanno uno stipendio o la partecipazione agli utili del capofamiglia, l’automobile, gli elettrodomestici; si vestono bene e d’estate vanno in vacanza. Dei nipoti uno trova ancora posto nell’azienda di famiglia, magari dopo essere andato all’università, mentre l’altro fa il professionista e così non rischia di litigare col fratello per la conduzione della fabbrica o della proprietà agraria.

    Allora dovrebbe essere tutto a posto e la collettività del paese ora è un’economia in equilibrio: tante anime, tanti occupati.

    Come in equilibrio? dicono i funzionari della banca. Il guadagno che l’azienda vi ha prodotto volete metterlo sotto il mattone come facevano i vostri vecchi? Adesso non si fa più così, si comprano le azioni, perciò potete continuare a guadagnare anche con il commercio di quelle: vi consiglia la banca stessa quali azioni fruttano di più!

    È proprio vero, non c’è che dire: perciò conviene investire nei titoli che la banca suggerisce. Tutti fanno in questo modo e si genera un volume di depositi, prestiti e ricavi che alimenta continuamente il flusso di denaro. Ma in quella banca hanno depositato risparmi anche persone che abitano in altri paesi e in altre regioni, perfino in altre nazioni: perciò essa deve investire anche i loro soldi e lo fa finanziando un po’ dappertutto, oltre che da noi, la costruzione di aziende che non servono solo alla gente del luogo, infatti richiamano operatori da fuori, che hanno bisogno di nuove lottizzazioni col loro corredo di servizi. Come avviene ciò? Col sistema di sempre: una discreta pressione sui Consiglieri del Comune, il cui termine specifico è «corruzione», ma uno può anche non accorgersi di compierla perché considera quella cosa una necessità sociale. Infatti non occorre pagare materialmente un Consigliere od offrirgli delle utilità: basta che il Partito gli faccia una certa sollecitazione mostrandogli una qualche convenienza in termini di consensi elettorali, o qualsiasi altra opportunità con le magiche parole di progresso, allineamento, tendenze ecc… L’aspirazione ad avere un ritorno su di sé, sui propri figli, sul Partito, sulla collettività, magari il segreto timore di non adeguarsi al progresso e con esso l’appuntamento con tutti quei mostri terminologici di cui si pasce la presunzione dell’essere umano; forse l’ansia sottile di non essere adeguato al flusso dei comportamenti della massa e di porsi fuori della corrente della storia; quasi sempre la convinzione che gli altri abbiano ragione e comunque ora si fa così e se lo fanno tutti vuol dire che è giusto, cosa sono io per mettere in discussione queste cose più grandi di me ottengono sempre lo stesso risultato: il consumo dell’unico bene di quest’umanità che è la terra e la vita.

    Il fiume indefinito del denaro è sempre in cerca di nuovi acquirenti, perciò prima o poi ritorna sotto forma di un imprenditore che magari vive al centro o al sud, e con quei soldi si sposta in paese, qui da noi, e vi colloca a sua volta un capannone per la vendita di prodotti che dice essere nuovi o migliori. E la sua famiglia? Ha bisogno di una casa che il Comune deve lasciargli fabbricare in fila alle altre.

    Passa velocemente il tempo e questo sistema continua a funzionare con la stessa metodicità: il paese di una volta si era ampliato con le nuove case sorte di conserva a quelle d’origine e poi collocate nella prima lottizzazione che la Giunta aveva individuato al margine della strada, perché così era più comodo a chi andava e veniva. Tuttavia mano a mano che arriva gente da fuori, attirata dalle opportunità che le attività del luogo hanno diramato ai quattro venti, ecco che si rende necessario costruire nuove case, strade e negozi, e le nuove generazioni hanno aperto altre aziende, botteghe, uffici in cui collocarsi, le quali a loro volta richiedono ancora strade, spazi pubblici e privati, ponti, rotatorie, parcheggi, ambulatori, circonvallazioni e quelle altre moltissime cose che questa società inventa ogni giorno per rendere più confortevole la vita di tutti e far fruttare i soldi accumulati nel vortice ininterrotto che si è innescato. Lungo le Provinciali e le Comunali si sono viste spuntare file di abitazioni coi capannoni per dietro, a volte intercalate a qualche campo rimasto intrappolato in mezzo perché il «vecchio» si è ostinato a non cedere il ricordo della sua giovinezza. Intanto, siccome la stessa cosa è successa anche ai borghi d’intorno, adesso gli edifici in fondo a ciascuno, sulla strada, si sono saldati con quelli del successivo e non si riesce più a distinguere dove cominciano e dove finiscono i paesi. La rotabile principale è divenuta praticamente una fila continua di case e capannoni: hanno messo il divieto di superare i 50 e a tutte le ore il traffico si è fatto ininterrotto, disturbante, inquinante.

    Naturalmente ogni qualche tempo bisogna por mano al Piano di Fabbricazione e allargare sempre più o moltiplicare le aree a vocazione industriale, artigianale, commerciale, residenziale. Quelle agricole fanno la parte di Cenerentola: si riducono sempre più. In questo modo la pianificazione si inverte: anziché disporre l’assetto territoriale futuro essa subisce le conseguenze dei fattori che la condizionano: si pianifica ciò che sta già accadendo. Le sorgenti sono tutte intubate: si allaccia l’acquedotto alle fonti più capienti delle risorgive, così l’acqua che un tempo scorreva a fianco dei campi non la si vede quasi più: basta un poco di siccità per seccare la vegetazione e i fossi: ma sarà poi pulita? Gli esperti dicono di sì, allora com’è che installano così tanti depuratori? E poi vengono per le case a proporre quello domestico a cartuccia!

    Dalle mie parti, nel Vicentino, spesso si sono verificate situazioni che hanno del comico o del patetico, dipende. Nella zona est dei Colli Berici a esempio, superata Longare c’è una serie di comunelli che sono fatti «a fettine», ciascuno praticamente una lunga strisciolina di terreno che va dalla collina alla campagna bassa, larga appena qualche chilometro, così che non fai in tempo a ingranare la quinta e sei già dall’altra parte. Eppure anche questi hanno ciascuno la sua altisonante zona industriale: come saranno riusciti a farcela stare senza debordare fuori territorio? Non sarebbe stato più assennato consorziare qualcuno di quei Comuni per accorpare le attività che gli abitanti del luogo, contadini da sempre, hanno voluto a tutti i costi avviare in una terra a vocazione tipicamente agricola?

    Nella fascia ovest dei Berici che va dalla zona industriale di Vicenza ad Altavilla, poi a Brendola e a Lonigo, sono stati anche più sistematici: il nastro dei capannoni ha deciso che è meglio eliminare del tutto i tratti liberi alterni, perciò tu viaggi sulla rotabile praticamente senza mai uscire dall’inurbamento.

    Di nuovo il meccanismo richiede di attivarsi: i soldi che continuano ad affluire alle banche esigono di trovare investimento, ma la gente del posto ha smesso di aumentare di numero per quel motivo che ho detto prima a proposito delle mamme. Intanto i popoli meno fortunati che si trovano a sud, a est e oltremare hanno sentito che qui si può guadagnare, perciò fanno la valigia e vengono sperando di trovare miglior fortuna. La catena riprende con un nuovo ciclo: case, capannoni, servizi, strade, ora tutto all’interno perché lungo le strade non c’è più posto, perciò sulle prime colline e dentro le campagne si è formato come un reticolo, e l’agricoltura arretra ancora. Ecco: in molti luoghi le campagne non ci sono proprio più: ormai si vede un mare d’asfalto e di cemento, gente con occhi a fessura, gente di colore nero, si fa fatica a comprendere cosa dicono. Non si sa dov’è il vecchio paese: ma c’è ancora? La piazza sola si riesce a ricordarla, col municipio e la chiesa che sono stati ridipinti. Gli amici di gioventù? Non esiste nemmeno l’osteria dove cercarli: solo pizzerie e strani locali anonimi dove non si capisce bene cosa si mangia.

    Sono passati settant’anni; i primi che avevano cominciato questa storia si sono fatti molto vecchi e ormai ne rimangono pochi: quando la nuora li porta fuori in auto non riconoscono il paese e le campagne, infatti queste non esistono proprio più, sepolte dai casoni cinerei e dal bitume. I patriarchi che un tempo stavano sulla panca sotto il castagno dell’osteria e la gente veniva a consultarli per sapere come si fanno certe cose, ora sono lì, i pochi che non sono stati ancora rifilati all’ospizio, in silenzio, da soli, in un bar con le sedie di metallo lucido, il bicchiere vuoto e lo sguardo spento. Ormai sono stranieri in un luogo che parla numerose lingue. Ma non sembra siano gli unici a vivere in solitudine: dev’essere una malattia nuova, di quelle contagiose che prima non esisteva; in effetti sono spariti anche i bambini che un tempo giocavano qui intorno alla fontana e lungo i fossi dei campi. Li hanno ricoverati in certi istituti dove trascorrono la gran parte del giorno. Anche le mamme sono scomparse, proprio quelle che una volta educavano i bambini perché erano i loro figli: escono da casa presto e ricompaiono a pomeriggio inoltrato. E i papà? Quando c’erano le famiglie essi sapevano di essere importanti: ora rientrano e nessuno si accorge, la televisione spande in giro luci e suoni, mangiano in silenzio con lei che luccica e stride di fianco, quindi ognuno si apparta a compiere lunghe operazioni silenziose con un aggeggio in mano che richiede tutta l’attenzione. Un’ora così e la notte assorbe la solitudine di ciascuno.

    Il borgo? Quello dei tempi della guerra è soffocato dai palazzi: non hanno conservato nemmeno la memoria dei luoghi, con i nomi delle tante strade che non si sa cosa significhino! I fossi li hanno intubati tutti e al posto dei campi c’è ora l’uniformità grigiastra del cemento, così li sera non si sentono i grilli cantare.

    Andiamo più avanti: si devono pur vedere le colline e le montagne; ecco infatti, dopo quaranta minuti di strade, camion, tettoie, cartelloni pubblicitari, semafori, bar e caseggiati a più piani che non si sa come orientarsi, spunta il profilo dei monti: grosse moto rombano in su e in giù, assordanti: non fa neanche voglia proseguire, torniamo a casa.

    ***

    Subito non ci si era accorti, e neanche più tardi: ci sono voluti diversi decenni per constatare che ciò che sembrava, ed era infatti un sistema coerente per investire e fare circolare sempre nuova moneta a disposizione di tutti, indipendentemente dalla latitudine e dalla longitudine, aveva assunto una vita propria che si autoalimenta impiegando (sarebbe meglio dire consumando) qualsiasi bene possa in qualche modo trasformarsi in utilità.

    Grosso modo da quel periodo, intorno agli anni novanta del secolo passato, ho osservato in tutta la sua chiarezza e soprattutto nel suo aspetto visivo l’effetto che ha sul nostro territorio vicentino il sistema di investimento del denaro ricavato dalle attività produttive. È sbagliato ritenere che siano soldi collegati solo con la produzione svolta sul luogo perché sia i titoli nei quali il proprietario dell’azienda locale ha investito l’utile ricavato, sia il volume dei mutui accesi dallo stesso, sia infine gli investimenti d’oltralpe qui realizzati appartengono a una rete finanziaria che ha per dimensione reale il mondo intero ed esige l’investimento e la fruttificazione della ricchezza che é scritta nei suoi registri telematici. Pertanto adesso è lei, la rete, a scegliere il luogo in cui investire ed edificare qualcosa, e lo fa indipendentemente dalle esigenze del territorio in cui essa decide di collocare materialmente l’opera che costituisce il suo aspetto visibile.

    Torniamo ai capannoni: ora è evidente che, dopo diversi decenni dall’avviamento della macchina finanziaria (avevo preso per riferimento convenzionale il termine della seconda guerra), essi per lo più non hanno nemmeno un rapporto coerente col luogo in cui sono edificati: spesso costituiscono semplicemente un bene investito la cui proprietà sostanziale è irrintracciabile, sistemato lì in attesa di un acquirente, o forse nemmeno: sono profitti del tutto immobilizzati (si dice così) perché la moneta col tempo e con le crisi perde valore mentre gli oggetti no. Ma intanto la collettività del posto ha perso il corrispondente uso del suolo e del sottosuolo, e ciò per un tempo che si può ragionevolmente contare in unità di secoli.

    Qualcuno dirà: ma è il Consiglio Comunale che decide sul proprio territorio, non gli viene imposto, perciò è libero di valutare l’opportunità di un suo corretto utilizzo, e ciò indipendentemente dalla richiesta degli investitori immobiliari. In teoria è così, ma guardiamo attentamente quali sono le spinte che agiscono all’interno di quel gruppo di persone che si chiamano Consiglieri Comunali e in particolar modo di quelli che fanno parte della Maggioranza e della Giunta. Spesso sono figure individuate dai Partiti politici, cioè dai comparti che gestiscono o partecipano o concorrono, chi l’uno chi l’altro, in molti aspetti della vita economica della nazione o fanno da filtro tra l’economia e il territorio. Altre volte appartengono a Liste civiche, cioè a raggruppamenti di individui che costituiscono i portavoce di qualche interesse locale: in entrambi i casi dovrebbero svolgere un compito che i cittadini elettori valutano per ciò che essi promettono prima delle elezioni di voler compiere. Ma una volta concesso il voto e attribuito il potere, i cittadini non hanno possibilità di pretendere che venga attuato quel che era stato loro promesso. Per modificare gli intenti elettorali basta un motivo qualsiasi dotato di credibilità, reale o supposta: il cittadino non potrà revocare il mandato che ha rilasciato agli eletti, pertanto si offre a quei Consiglieri la possibilità di adottare qualsiasi decisione possa dirsi motivata da ragioni le più disparate che abbiano una parvenza di utilità pubblica diretta, indiretta, ipotetica, futura, quand’anche essi accettino di volerne rendere conto, il che avviene assai di rado. E quale cittadino si è mai opposto alla macchina della trasformazione del territorio, al mito del progresso, del benessere e del futuro? Tutti gli uomini a ogni latitudine e longitudine sono colti dalla frenesia del cemento perché in esso si è venuta progressivamente identificando e condensando ogni aspettativa dell’uomo contemporaneo.

    Cinque anni di gestione dei soldi pubblici e soprattutto delle mille opportunità che scaturiscono dal potere sono più che sufficienti per far conseguire ai Consiglieri discreti guadagni in forma di occasioni lecite o colluse, di interessi i più disparati che essi possono raggiungere disponendo del voto conseguito dopo averne lasciato una qualche parte alla loro Lista o Partito di appartenenza. Per lo più sono entrature provenienti dal folto gruppo di operatori che gravitano attorno all’economia alimentata o indotta o controllata dall’amministrazione del territorio. Poche persone, immagino, hanno fatto un conto a spanne di quanto può fruttare al Consigliere non illibato lo smistamento degli interessi economici che fanno capo a un territorio urbanizzato, in particolare a quelli che siedono sulla poltrona ambita. Ma per farsene un’idea basta ascoltare il telegiornale o leggere sui quotidiani quanto sono aumentati i costi preventivati delle opere pubbliche. Nella norma la lievitazione non è minore della metà, e va a beneficio della rete di interessi che fa perno sugli amministratori. Sono quindi comprensibili la smania e le liti furibonde per vincere le elezioni e quelle improvvise agiatezze di cui godono molti soggetti dopo aver servito la comunità. Io parlo per ciò che ho constatato di persona: la professione che ho svolto mi ha permesso di notare che sostanzialmente nei Comuni e nelle altre Amministrazioni Pubbliche ogni pratica che non sia di semplice routine produce un profitto di qualche tipo: economico, di gratitudine (da riscuotere all’evenienza anche in modo non venale), di avanzamento, di consenso, di partecipazione, di cointeressenza ecc… Ma è più semplice dire che tutto viaggia su un’economia parallela la quale unisce il più modesto cittadino all’Amministratore, al Ministro, al Partito. Esistono infatti due mondi economici: quello delle attività produttive, degli scambi e del lavoro, quello legato all’amministrazione in genere e alla fruizione del territorio: il secondo è altrettanto ampio e invasivo del primo. Nel presente ormai è impossibile purificare o anche solo sfoltire il sistema che ho detto perché esso coincide sostanzialmente con

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