Il Sogno dello Scrittore: Le Smanie per la Letteratura
By Franco Mimmi
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Il Sogno dello Scrittore - Franco Mimmi
Franco Mimmi
Il Sogno dello Scrittore
ovvero
Le Smanie per la Letteratura
My library was dukedom large enough
(Shakespeare, The Tempest)
Il disegno in copertina è di Lucia Fabiani
CAPITOLO 1
Eulalia estrae un braccio dalla coperta che le avvolge le spalle e senza dire parola porge un foglio a Fernando che chiede cos’è. Un invito, risponde Eulalia, leggi e poi mi dici. Fernando, semi allungato sul divano, è imbacuccato in un berretto e una coperta imbottita, dalla quale spuntano i pantaloni di un pigiama di flanella e infine i piedi in un paio di calzini di lana grossa. Tre dita della mano destra sporgono dal viluppo e prendono il foglio, bella carta color crema sovrastata dal disegno di una casa idillica, immersa nella campagna però con un tratto di mare all’orizzonte, legge a voce alta:
"Maestro,
sappiamo del suo lungo esilio volontario, ma per lontano che Lei sia, spero che questa missiva la raggiunga perché è scritta con il cuore e con l’amore per i libri, per i bei libri, per i Suoi libri.
La nostra, Maestro, è una colonia di scrittori fondata da un anno appena, e si chiama The Writer’s Dream
, il sogno dello scrittore. Il titolo, lo so, è presuntuoso: nel confronto con Lei dovrebbe essere tutt’al più colonia di aspiranti scrittori
, però una cosa è certa, la passione che tutti gli ospiti di questa colonia, per quanto modesti, per quanto in erba, nutrono per la letteratura, e il loro desiderio di imparare, di migliorare, di riuscire almeno in minima parte a raggiungere gli obiettivi che Lei ha saputo magistralmente attingere. E crediamo che a questo fine un periodo trascorso insieme in questa colonia
in una sorta di discreta comunione, confrontandoci, scambiandoci idee, sostenendoci nella soluzione dei dubbi, in questo ambiente raccolto, quasi intimo, lontano dal rumore, alieno alle distrazioni, rappresenti un grande aiuto. Leggere. Scrivere. Comunicare.
Ma ciò, Maestro, potrebbe essere insufficiente o addirittura controproducente, se nel tempo trascorso qui non fosse disponibile ai coloni
un apporto aperto ed esperto (mi perdoni, Maestro, l’allitterazione) di provata maestria, di indiscutibile autorità, di geniale illuminazione.
Per questo, Maestro, mi rivolgo a lei: perché acceda, in nome della Letteratura, a questa mia preghiera, e abbandoni per qualche giorno il buen retiro nel quale, da qualche anno, ha deciso di difendersi dai clamori mondani. Noi le chiediamo, Maestro, di essere nostro ospite per una settimana, o due settimane, o un mese se le fosse possibile: la casa è bella e accogliente, immersa nella campagna e a un tiro di schioppo dal mare, l’ambiente è intimo, pochi e dedicatissimi gli ospiti, buona la cucina (la cuoca sono io), ottimo il letto. Purtroppo è tutto quanto possiamo offrirle, oltre a una cifra simbolica di mille euro più il rimborso delle spese di viaggio, e naturalmente non ci offenderà una risposta negativa o nessuna risposta affatto. Ma speriamo in Lei.
Sua devotissima
Alessandra di Villafiorita
Fernando stropiccia un po’ la lettera, la guarda in recto e verso come potesse nascondere qualche ulteriore messaggio, non lo trova. Mi sembra un invito demenziale a un posto demenziale, dice restituendola a Eulalia. Secondo te il tuo fidanzato accetterà l’invito?
Non è il mio fidanzato, dice Eulalia smanettando nel computer, e aggiunge: Lui no ma tu sì. Anzi: noi sì.
Il fratello ne resta un po’ imbambolato: simili colpi di testa sono piuttosto caratteristica sua che di Eulalia, ma si riprende e chiede perché e se sia sana di mente. Lei non risponde subito, con il labbro inferiore preso fra i denti sta digitando velocemente e solo di tanto in tanto una mano si alza per riportare sul petto il lembo della coperta che ha sulle spalle, per abbassare sulla fronte il cappuccio di lana. Sanissima, dice finalmente rilassandosi, e il perché è presto detto: un mese al caldo, tre pasti al giorno, mille euro in tasca. Fernando medita un istante, più che sufficiente per concordare e per chiedersi come mai non ci abbia pensato lui, poi è già dentro il gioco e affronta le prime incognite: Ma lui, chiede, il tuo fidanzato, che cosa dirà? O pensi di non dirglielo? Eulalia si mette il casco con gli auricolari a cavallo del caschetto di capelli bianchi e batte un tasto, poi dice al microfono: Sono io. È arrivato un invito per te. Un mese in una colonia di scrittori. Zitto un momento, so benissimo che non ti interessa. Ma interessa a noi, a me e a Fernando. Accetteremo a tuo nome. No, idiota, non devi andare tu, andiamo noi col tuo nome. No, tu non ne sai niente. E non fare storie.
Ma quello evidentemente fa storie, e deve farne parecchie perché passano almeno due minuti senza che Eulalia parli, e devono essere veementi perché il gracchio che esce dalle cuffie arriva fino a Fernando che però non si preoccupa, aspetta solo che Eulalia concluda col suo colpo segreto. E alla prima pausa dell’altro, per riprendere fiato, Eulalia glielo sferra: Ho visto qualcosa di orribile nella legnaia, dice.
Flebile ma inequivocabile, eppure tenera e nostalgica, dall’auricolare una parolaccia arriva fino a Fernando che ridacchia e il fiato si condensa in una nuvoletta di vapore, la schermata sparisce, Eulalia si toglie gli auricolari, il fratello scuote la testa. Sa, perché lei una volta glielo ha raccontato, da dove viene la frase: è in un romanzo inglese dove la vecchia proprietaria di una fattoria continua a minacciare oscuramente di svelare ciò che vide nella legnaia ma senza mai arrivare a dirlo, e lo stesso fa Eulalia con il suo antico fidanzato il quale però, evidentemente, capisce al volo l’antifona. Un giorno, dice Fernando, ti deciderai a dirmi tutto ma proprio tutto quello che hai visto nella legnaia. Un giorno, dice Eulalia, e alza una mano per riportare sul petto il lembo della coperta, per abbassare sulla fronte il cappuccio di lana.
All’opera, dunque, dice Fernando, spiegami esattamente dove andremo a farci nutrire e scaldare per un mese. Cos’è questa cosa? Cos’è una colonia di scrittori? Cos’è questo Writer’s Dream
?
Eulalia si rimette alla tastiera, apre una pagina nuova sullo schermo del computer e batte writers colony, poi legge a voce alta in traduzione simultanea: Una Writers Colony è un luogo in cui un gruppo di scrittori convive e interagisce mentre si dedica alla creazione. Gli aspiranti scrittori possono chiedere di essere ospitati a pagamento, se invece sono scrittori affermati, particolarmente significativi o addirittura famosi, sono invitati a risiedere nella colonia per un periodo che può andare da una settimana a qualche mese.
Ovviamente, spiega Eulalia, tutto ciò è nato negli Stati Uniti con licenza di scimmiottare o magari di franchising, e continuando la ricerca recita i nomi delle residenze più famose e degli scrittori famosi che vi hanno soggiornato, le entusiastiche opinioni degli ospiti che vi hanno affinato i loro talenti di novellieri, gli slogan che li hanno attratti (venite a scrivere con noi il vostro prossimo capitolo, attingete alla comune ispirazione), Fernando ridacchia e nuvolette di vapore viaggiano per la stanza sempre gelida ma ora riscaldata da una prospettiva di tepore.
Si affrontano i problemi, di cui Eulalia compila una lista che andrà spuntando a ogni soluzione. Primo: e se volessero un documento? e se la somiglianza non fosse accettabile, nonostante sia passato quasi un quarto di secolo dall’ultima foto del Maestro? Soluzione: c’è in un cassetto una antica carta d’identità, lasciata lì nei primi mesi del soggiorno americano per il caso che Eulalia, ancora in Italia, dovesse ritirare qualcosa alla posta: viene ripescata e porta alla decisione di sacrificare i capelli candidi di Fernando, il tempo trascorso e la sua gran barba sale e pepe faranno il resto. Secondo: e lei, Eulalia, chi sarà? La segretaria, perché del Maestro non si conoscono sorelle. Terzo: qual è la stazione più vicina e abbiamo soldi sufficienti per i biglietti? Un rapido controllo via internet individua la stazione, i pochi soldi in scarsella bastano per due biglietti di seconda ma non di prima, per non fare una figura da miserabili dovranno cambiare di vagone prima di scendere. Quarto: il bagaglio. Hanno un paio di valige e i resti dei guardaroba dei tempi migliori, Eulalia non è ingrassata un chilo ma Fernando, a forza di poltrire, ha messo su pancia nonostante la scarsa alimentazione, Eulalia gli allargherà due paia di pantaloni, la giacca dovrà restare sbottonata, porteranno con sé anche un bel po’ di camicie e biancheria sporca per approfittare della lavatrice, magari c’è anche qualcuno del servizio per stirare il tutto. Un problema sono le scarpe, un po’ troppo scalcagnate anche per un artista irriverente, ma i due ricordano che da qualche tempo una signora inglese ha aperto, a poca distanza, un charity shop dove vende a prezzi bassissimi le cianfrusaglie che la gente porta per disfarsene: libri e vecchi televisori, dvd e vecchi computer, mobili persino, e articoli d’abbigliamento a non finire, un paio di scarpe si troverà, e se anche quei pochi euro fossero troppi Fernando vincerà la pigrizia e andrà a un angolo, a qualche isolato di distanza, a pizzicare la sua chitarra, qualche moneta la rimedia sempre.
Resta da stabilire una cosa, l’ultima, la più importante: di libri Fernando sa mica tanto, qualche poliziesco per passare il tempo, qualche fumetto per addormentarsi, e con siffatto bagaglio come potrà sostenere la parte dello scrittore di fama? Come salverà la faccia del Maestro al cospetto della Colonia? Però è vero che è di lingua sciolta e di faccia tosta, e avrà vicino Eulalia che invece di scrittura è esperta assai (fu lei, come si vedrà, la musa ispiratrice del vero scrittore) e inoltre potrà succhiare da internet del quale è provetta navigatrice.
Eulalia abbandona le sue frenetiche interrogazioni al computer, il cui collegamento è assicurato dalla rete in fibra ottica di un vicino del quale ha violato il codice d’accesso, e si gira sulla sedia per l’ultimo consulto fraterno. E adesso? chiede Fernando. Adesso la chiamiamo, risponde Eulalia. Chiamiamo Alessandra di Villafiorita, che sembra presa pari pari da un romanzo di Guido da Verona, e le diciamo che il Maestro, commosso dalla sua missiva, ha deciso, straordinariamente, per il sì, e questo fine settimana giungerà accompagnato dalla segretaria alla stazione di con il treno delle aspettandosi naturalmente di esservi ricevuto da qualcuno in automobile per essere portato alla colonia. Il Maestro avanza alcune modeste richieste: che per la segretaria sia disponibile una stanza (ma in casi estremi è disposto a condividere) e che possa disporre di un collegamento internet e di una stampante.
Insomma, si può fare, e dopo essersi guardati, e dopo essersi sorrisi con la complicità gemellare che li avvince fin dalla nascita, si accingono al passo decisivo. Vorrei parlare, dice Eulalia nel microfono, ad Alessandra di Villafranca, e nell’attesa si mantiene calma ma i lampi degli occhi marroni, ancora belli, rivelano la contentezza per quel mesetto di agi ai quali ormai ha perso l’abitudine, mentre Fernando ridacchia come un bambino e riempie la stanza di nuvolette di vapore.
CAPITOLO 2
Per iniziare il racconto della loro vita diremo che Eulalia e Fernando sono nati un venerdì, a mezzanotte in punto. Per la precisione tra il 10 e l’11 di dicembre del 1948, sicché nel momento in cui leggono l’invito alla Writers Colony e decidono di approfittarne sono a un paio di settimane dal loro sessantottesimo compleanno. A uscire per prima è stata Eulalia, e apparendo un paio di minuti dopo Fernando ha causato la prima sorpresa della sua vita perché nessuno si aspettava di vedere un secondo bambino, tanto semplice e poco appariscente era stata la gravidanza nonostante le ridotte dimensioni della madre, ma vero è che entrambi, alla nascita, erano assai piccoli, manco un paio di chili ognuno. La bambina uscì e, opportunamente sculacciata, emise uno splendido strillo che fece ridere il giovane ginecologo fresco di studi classici: Bella voce, disse, potreste chiamarla Eulalia che vuol dire eloquente, e così fu. Fernando invece, silenzioso e con gli occhi spalancati e già con una precoce capigliatura a caschetto, prese nome dal paggio di Giacosa che guarda e non favella.
I genitori, ma brevemente. Lui era nato nel 1918, concepito la prima notte trascorsa a casa da suo padre di ritorno dal fronte, e si chiamava Angelo detto Angelino con diminutivo appropriato alla statura, perché manco arrivò al metro e cinquanta al quale la falcidia della guerra e l’imbarazzante, minuscola stazza del re Vittorio Emanuele III avevano ridotto, nel 1917, l’altezza minima della leva. Questo gli evitò di partire per il conflitto successivo, e le ragazze che lo avevano preso in giro, a mano a mano che perdevano marito o fidanzato in qualche area del conflitto, smisero di sfotterlo e anzi incominciarono a vedere in lui qualità prima ignorate come la gentilezza e lo spirito burlone, che in fondo che cosa è mai la statura, solo apparenza. Faceva il sarto ma soprattutto di rammendi e cappotti rivoltati (tra i clienti aveva un colonnello vanesio che anni dopo, in cambio di ritocchi all’uniforme, avrebbe esentato suo figlio dal servizio militare), però all’avvento della confezione si mise d’accordo con un paio di negozi che gli mandavano gli indumenti venduti per adattarli all’acquirente: accorciare un po’ i pantaloni, allargare un po’ le giacche, e tante piccole fatture permisero di sbarcare il lunario con un certo agio. Questo convinse Gilda, ragazza tuttofare in uno dei negozi di abbigliamento per i quali Angelino lavorava, a sposarlo dimenticando un grande amore non si sapeva se vivo o morto ma comunque scomparso in Africa, e a produrre in fretta i due rampolli di cui si occupa questa storia. Come si è detto