I Guerrieri d'Argento: Le Cronache dei cinque Regni
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About this ebook
L’autore – da sempre amante del genere fantasy, avido lettore, vincitore di numerosi premi letterari – ha concepito questa storia incantata per dare la buona notte alla figlia bambina. Guerrieri d’argento è divenuto il primo libro di una saga in cui passione e amore per la scrittura e il racconto lo hanno portato in giro nelle scuole d’Italia dove ha incontrato e appassionato moltissimi lettori grandi e piccoli.
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Book preview
I Guerrieri d'Argento - Elvio Ravasio
Capitolo 1
La scelta di Elamar
Il repentino sconvolgimento del clima mise in allarme gli Immortali, la situazione era tutt’altro che tranquilla. Un presagio funesto prendeva forma e, mentre i Cèldi si preoccupavano del raccolto, un’ombra lugubre aleggiava al di sopra dei pendii.
Senza rendersi conto del pericolo e costretti da venti minacciosi, si rifugiarono dietro i carri rovesciati. Il cielo si oscurò sempre più, il raccolto si disperse ovunque, a fatica i malcapitati cercarono di raggiungere le loro capanne. All’improvviso, mentre correvano verso il villaggio, un bagliore accompagnato da un turbine di vento impietrì tutti.
Arkàdon si materializzò al centro del chiarore, la sua figura imponente e austera si stagliava nel buio che lo circondava. Rimase immobile per pochi istanti: il capo chino, gli occhi chiusi e le mani unite sul bastone conficcato a terra. Socchiuse gli occhi, il tempo sembrò fermarsi e, senza alzare il capo, pronunciò con tono profondo una cantilena in una lingua ai Cèldi sconosciuta:
«Al bény de nai ismàil rumai ne dicta brand ish chair ni mei
ablics maira nu qium staìr
pliun crev niu marn’fad kynh runai ish chair ni mei
ablics maira nu qium staìr»
Immediatamente il vento si raccolse intorno a lui e si mise a girare vorticosamente in senso orario. Il Re allargò le braccia, alzò la testa verso il cielo e il vento esplose verso l’alto aprendo un varco nell’oscurità e disperdendo le nuvole.
Il buio andava ora dissolvendosi, lentamente, il terrore lasciava posto allo stupore e alla curiosità, tutti erano con la testa rivolta verso l’alto a osservare lo straordinario prodigio.
Nayla, la figlia del capo dei Cèldi, rimase affascinata da quella severa figura che li aveva aiutati. Il Re scomparve appena tutto tornò alla normalità, senza lasciare traccia. Rimase visibile solo il buco nel terreno dove il bastone del Re era stato conficcato.
«Venite a vedere, presto!» esclamò Nayla «in questo punto la terra è bruciata, proprio dove stava immobile quell’uomo.»
«Probabilmente qui non crescerà più niente» replicò con tono irritato Olef, l’anziano del gruppo, senza rendersi conto della gravità di ciò che era appena accaduto. Un sommesso mormorìo cresceva sempre più, tutti si erano riuniti intorno a quel luogo a osservare le bruciature e il buco nel terreno.
«Chi era quell’uomo? Cosa sta accadendo? Possibile che nessuno lo conosca?» disse Nayla a voce alta.
«Io lo so!» rispose un ragazzo Goljis, dalla pelle ambrata dal sole e i capelli corvini, che si avvicinò con passo veloce e deciso.
Raramente le due popolazioni s’incontravano, ciò avveniva solo al grande mercato di Perjias. Non c’era ostilità tra i due popoli ma i contatti tra loro erano ridotti al minimo e ognuno preferiva rimanere nelle proprie terre.
Quindi, con ostentata diffidenza, Nayla chiese al forestiero:
«Chi sei? Non ti ho mai visto da queste parti, cosa fai sulle nostre terre?»
Nonostante la curiosità che le rodeva dentro, il tono di Nayla era abbastanza seccato, il suo orgoglio faticava ad accettare che un ragazzo Goljis ne sapesse più di lei, che per giunta era la figlia del capo.
«Io sono Elamar degli altopiani e le terre sono di chi le calpesta.»
Nonostante Nayla stesse per ribattere in modo pungente, decise di assecondare il nuovo arrivato e scoprire cosa potesse sapere riguardo quella misteriosa apparizione.
«D’accordo, parliamone al villaggio e vediamo se veramente puoi dare una spiegazione a quello che abbiamo appena visto.»
Così, mentre alcuni Cèldi si fermarono a raddrizzare i carri, eseguire le riparazioni e recuperare il raccolto ancora commerciabile, Nayla ed Elamar seguiti da un considerevole numero di giovani curiosi, si avviarono verso il villaggio. Percorsero la tortuosa stradina che lasciava la valle dei pendii e una volta giunti alla grande piazza, si sedettero per terra in cerchio, come erano soliti fare quando la sera si raccontavano le storie più singolari davanti al fuoco.
I due ragazzi si misero in mezzo al cerchio ed Elamar iniziò a narrare gli avvenimenti che lo avevano condotto al villaggio dei Cèldi.
«Era una giornata di sole cocente e stavo cacciando un Drill, una specie di coniglio selvatico piuttosto grosso che vive in quelle terre. D’un tratto lo vidi dirigersi verso un’apertura nelle rocce ma, prima che vi s’infilasse, presi la mia fionda e da tre lunghezze di distanza lo colpii proprio sulla nuca, stordendolo.»
«Nessuno può colpire un Drill da tre lunghezze di distanza!» lo interruppe Nayla con tono di disappunto.
Elamar non disse niente, si guardò in giro, prese un sasso grosso come una noce, si alzo in piedi e lo mise nella sua fionda, poi il suo indice puntò un cappello appoggiato su una staccionata, dall’altra parte del villaggio, a sei lunghezze di distanza, quasi sessanta passi di un uomo, e con la mano destra cominciò a far girare la sua fionda tanto velocemente che quasi non la si vedeva.
Dopo pochi secondi si vide il cappello volare via. Con calma si sedette come se niente fosse successo e, con un’espressione di chiara soddisfazione, riprese a raccontare. Lo sguardo stupito e meravigliato dei Cèldi restò fisso sul cappello caduto a terra, tutti rimasero per qualche istante a bocca spalancata prima di riprendersi, Nayla compresa, poi Elamar continuò:
«Andai a prendere il Drill e notai un luccichìo che usciva dall’apertura in cui voleva nascondersi; incuriosito, decisi di allargare il buco in modo da poterci entrare. Mi armai di un paletto appuntito e sgretolando le rocce intorno al foro, dopo circa due cicli, riuscii ad allargare l’apertura a sufficienza. M’infilai all’interno e mi ritrovai in una grossa caverna. La cosa non mi stupì più di tanto, è abbastanza normale trovarne all’interno degli altopiani. Continuai a inoltrarmi. Più avanzavo, più mi rendevo conto che era la più grossa e profonda caverna che avessi mai incontrato. Il pavimento era liscio e levigato come la superficie degli altopiani e, attraverso piccole fenditure, filtrava una luce che mi permetteva di vedere con sufficienza tutt’attorno.»
I Cèldi erano completamente assorti dal racconto del ragazzo, in quel momento arrivarono anche i loro compagni, che avevano recuperato il raccolto, e si sedettero in cerchio ad ascoltare il seguito della storia.
«Come dicevo, proseguii tenendo sempre la mia fionda a portata di mano. Dopo aver camminato per un bel pezzo, mi trovai di fronte a un vicolo cieco. Davanti a me, un grosso portone di legno mi sbarrava la strada, al centro vi era scolpita un’incisione a me incomprensibile, quattro brevi parole con caratteri che non conoscevo.
Rimasi per un tempo indefinito a fissare quei simboli. Non so perché ma quelle iscrizioni avevano qualcosa di familiare e nella mia mente si trasformarono, da segni senza senso in suoni armoniosi. Pronunciai quelle quattro parole senza rendermene conto, il portone si aprì e la luce all’interno aumentò d’intensità. Mentre avanzavo, attirato dal bagliore che proveniva dal fondo, vidi un uomo fermo in mezzo alla via. Con voce calma e serena mi chiese di avvicinarmi a lui, mi disse di non avere paura. Io non avevo nessun timore, so riconoscere un pericolo e quell’uomo non sembrava avesse cattive intenzioni.
In mano aveva un bracciale opaco, di color ambra, che continuava a far roteare tra le dita. Mi spiegò di essere il Re degli immortali, Arkàdon, e che voleva donarmi il bracciale di Ephir, disse che solo poche persone possono raccontare di averlo indossato e io avrei potuto essere uno di loro. Il destino ha voluto che mi trovassi in quel luogo magico poco prima che il bracciale si materializzasse, spettava a me fare una scelta. Il Re mi fece capire che dalla mia decisione sarebbe dipeso il destino di molti e che dovevo riflettere con attenzione.»
Il nome di Arkàdon rimbalzava di bocca in bocca tra i Cèldi seduti ad ascoltare. Le leggende che si narravano sul Re degli Immortali avevano dell’incredibile e risalivano ai periodi bui, quando i sette Re sconfissero le orde oscure di Merja Norim.
Senza curarsi dei commenti, Elamar, proseguì il suo racconto:
«Un brivido mi percorse la schiena, feci istintivamente un passo indietro, Arkàdon rimase immobile con lo sguardo fisso su di me, il braccio teso e il bracciale sul palmo della mano. Disse che i poteri del bracciale non potevano nuocermi, che avrebbe servito solo chi ne fosse stato degno.
Gli Immortali non si erano mai mostrati a noi e tantomeno il loro Re, pensai... cosa potevano volere da me? Mille domande mi pervasero la mente, Arkàdon continuava a fissarmi come se volesse leggermi dentro. Mi feci coraggio e mi avvicinai a lui, allungai la mano per toccare il bracciale che diventò sempre più luminoso.» Il giovane parlava alla folla con enfasi, catturando i loro sguardi.
«Il Re continuò a parlarmi, mi disse cha avevo decifrato gli antichi simboli e pronunciato le quattro parole che regolano l’equilibrio delle forze: Luce, Terra, Aria e Fuoco. Non capitava da parecchie ere, Arkàdon insistette sul fatto che il bracciale di Ephir mi aveva scelto ma io continuai a nutrire forti dubbi su questo» ammise il ragazzo.
«E cosa hai fatto allora?» chiese un bimbo incuriosito.
«Non riuscivo a riflettere lucidamente, allora decisi di svuotare la mente e dare ascolto al mio istinto, un forte impulso mi portava verso il bracciale anche se, sinceramente, quel bracciale non era un granché a vedersi. Un breve momento d’indecisione e lo presi di scatto dalla mano di Arkàdon infilandomelo. Immediatamente si adattò alla misura del polso e divenne leggerissimo, emise un forte bagliore e tornò subito opaco.»
Il giovane raccontò che Arkàdon increspò le labbra in un mezzo sorriso di soddisfazione. In quel luogo, aveva spiegato a Elamar il Re, fino a non molto tempo prima, era custodito il libro di Iljia. Poggiava su un grosso leggìo di legno in fondo alla caverna. Il libro e anche l’accesso alla grotta, erano stati protetti dall’incantesimo dell’evanescenza. Il Re unendo le mani dietro la schiena si era avvicinato a Elamar con aria seria.
«Hanno rubato il libro?» domandò il capo del villaggio.
«Sì!» rispose il giovane con aria mesta. In quella grotta al cospetto del Re, il ragazzo si era chiesto quale forza era riuscita a vincere tali difese, quale oscuro e malvagio essere aveva tanto potere. Il futuro delle lande di Arìshtar era in pericolo. «Il Re mi ha raccontato che sul libro sacro è scritto tutto il sapere degli Immortali, in mani sbagliate la catastrofe sarebbe stata tremenda.
Elamar si era posto decine di domande e non aveva nessuna risposta ma il potere del bracciale gli infondeva un senso di invincibilità.
«E tu cosa hai detto ad Arkàdon?» chiese Nayla
«Disponete pure di me, i lampi e i fulmini mi sono secondi e i miei piedi correranno sulle ali del vento! Arkàdon mi ha fissato e, con voce seria, mi ha detto di raggiungere le terre dei pendii, una volta là il bracciale mi avrebbe indicato la via.
Il destino si compia, avrai bisogno d’aiuto per affrontare la terribile prova che ti attende! Ha gridato il Re.
Allora ho corso più veloce del lampo e potrei giurare che il bracciale al mio polso si è illuminato per un istante.»
«Infine… eccomi qua! Ho corso per sei cicli senza fermarmi e sono arrivato appena prima della sparizione di Arkàdon.»
«Vuoi dire che sei arrivato dagli altopiani in soli sei cicli?» disse Nayla
«Proprio così, ti ho detto che sono veloce, ma non ti ho ancora raccontato che sono il più veloce di tutte le lande! Alla città di Perjas, durante il mercato di quest’anno, ho vinto la sfida dei Dossi Rossi.»
La sfida dei Dossi Rossi era una gara di velocità, tutti i ragazzi delle terre conosciute vi partecipavano. Era un evento d’incredibile prestigio. Al vincitore veniva dato vitto e alloggio per tutta la durata del mercato, oltre a una spada corta, circa