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Dolly
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Ebook289 pages3 hours

Dolly

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About this ebook

Thriller - romanzo (217 pagine) - Donne rapite i cui corpi vengono ritrovati accuratamente truccati come delle bambole. Un killer spietato che sembra perseguire un preciso obiettivo e un poliziotto che combatte con il suo passato.


DOC, Disturbo Ossessivo Compulsivo. Una bestia che domina ogni momento della tua vita. Se poi a soffrirne è un poliziotto, combatterla diventa una sfida impossibile, una lotta continua che prima o poi porterà alla luce i mostri del passato che l’hanno scatenata. Mostri che prendono vita negli atti di un assassino crudele e delicato al tempo stesso. Un assassino che sembra avere un conto in sospeso con l’investigatore.


Giampietro Stocco è nato a Roma nel 1961. Laureato in Scienze Politiche, ha studiato e lavorato in Danimarca per alcuni anni. Giornalista professionista in RAI dal 1991, è stato al GR2 e attualmente lavora nella sede regionale per la Liguria di Genova, la città dove risiede. Studioso e maestro del genere ucronia, ha pubblicato finora sette romanzi: Nero Italiano (2003) e il sequel Dea del Caos (2005), Figlio della schiera (2007), Dalle mie ceneri (Delos Books 2008), Nuovo mondo (2010), Dolly (2012), La corona perduta (2013). Da Dea del Caos il regista Lorenzo Costa ha tratto un adattamento per il palcoscenico che è stato messo in scena dal Teatro Garage di Genova nel 2006 e nel 2007. Nel 2006 ha vinto il premio Alien.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 21, 2017
ISBN9788825404074
Dolly

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    Dolly - Giampietro Stocco

    9788825400793

    Forse non ti sarebbe piaciuto,

    ma di sicuro avresti apprezzato la dedica,

    col tuo sorriso ironico.

    Ciao a te, per quarant’anni mio padre lieve.

    1

    Zitta, non fiatare, non deve accorgersi che vivi ancora, che quel maledetto foulard ti stringe troppo sugli occhi e ti ha fatto venire l’emicrania del secolo. E del resto, adesso, cosa te ne frega?

    Immagini come flash abbagliano la tua memoria. Tu in auto diretta al lavoro, come tutti i giorni la mano destra sul volante, la sinistra a penzolare fuori del finestrino. Ma chi cazzo è ‘sto deficiente che ti taglia la strada? Una mano decorata da un massiccio anello d’oro spunta e appoggia il lampeggiante sul tetto della macchina, un’Alfa 156 grigia metallizzata. Infine la portiera si apre. Un tipo in giacca si estrae fuori dall’abitacolo. È alto, rasato a zero e porta un ridicolo pizzetto. Viene a piedi verso di te. Allampanato e sgraziato, una vera penolla scivertâ, come direbbe tua nonna.

    Un marabù, ecco a cosa assomiglia.

    Ma chi è? Cazzo, ma è lui. Allora è della polizia. Ma che hai fatto? Andavi troppo forte? Miracolosamente, la Sopraelevata si decongestiona sulla corsia di destra, dove lui ti ha fatto fermare, mentre a sinistra sfilano lente le auto dei curiosi. Ti accendi una sigaretta. Chinandosi cerimonioso come un trampoliere, lui si affaccia al tuo finestrino. Un volto impersonale, pressoché glabro, a parte quella assurda barbetta. Occhi piccoli, neri e freddi. Si volta in continuazione a destra e a sinistra.

    I ricordi si fanno sempre più precisi, man mano che i flashback si incastrano l’uno sull’altro come in un montaggio cinematografico. Ed eccoti recitare per te stessa e per la tua sanità mentale.

    – Chi è lei?

    – La signorina Luciana Orengo?

    Una voce bassa, con in fondo una nota melodiosa. Quasi un sussurro, eppure perfettamente udibile sopra il frastuono urbano. Lo vedi arricciare il naso al fumo della siga, e infine riesci a balbettare.

    – Co… cosa vuole da me?

    – Deve seguirmi in Questura. Adesso.

    – Ma come sarebbe? Senta, sono giorni che mi sta dietro. Poteva dirmelo subito. Io non mi muovo di qui.

    Ti fissi le dita che tamburellano sul volante. Sei abbarbicata allo sterzo come a un amante ritroso. Cadesse il mondo, non lascerai quell’abitacolo.

    Lui sospira, alza lo sguardo al cielo. Poi il primo colpo, un manrovescio tanto violento quanto discreto, il bruciore che ti esplode sul volto cambia del tutto la tua prospettiva. Adesso sei fuori del tuo corpo, una spettatrice terrorizzata che valuta l’ampiezza dell’arco che la tua testa compie in seguito all’impatto, finendo per sbattere dolorosamente contro il finestrino opposto. La sigaretta vola via, chissà dove. Sei talmente esterrefatta da non riuscire a capire se lo stordimento sia effetto della sorpresa o dell’improvvisa violenza. Ti vedi, tramortita sui sedili, e vedi lui tirarti fuori di peso dalla tua macchina gridando Sta male, sta male!.

    È forte; ti trascina, imbambolata e dolente, dentro a quella maledetta Alfa 156. Lì fuori nessuno, ma proprio nessuno, ha fatto una piega. Un malore sulla Sopraelevata intasata dal traffico, succede alle volte nei giorni appiccicosi di maccaia. Finito lo spettacolo, i curiosi accelerano di nuovo, andandosene per la loro strada.

    Solo che non è stata la polizia a prelevarti. Te ne accorgi quando, di nuovo dentro al tuo corpo, ti risvegli da un sonno comatoso.

    – Ehi, dico, ma… cazzo, mi hai spaccato il labbro!

    Sciak.

    Un nuovo colpo. Un altro manrovescio in pieno viso. Dato con indifferenza, ma con tutta la forza, usando malevolmente la massa e gli spigoli dell’anello. Dopo il labbro, ti spacca anche la pelle delicata dello zigomo sinistro.

    Odi appena, stavolta, l’Alfa accostare.

    Deve avere abbandonato la Sopraelevata, pensi istupidita dalle botte.

    Lui parla di nuovo. Con una mano da orco regge il volante, e con l’altra ti artiglia il braccio sinistro. Te lo circonda completamente con le lunghe dita.

    – Fai silenzio – intima, sempre sussurrando e sottolineando l’ordine con un pugno cattivo, sferrato nelle costole con la nocca del medio sporgente, per far male.

    Ti senti gridare, di dolore e di protesta. Non riesci proprio a capire come puoi essere finita in un incubo simile. E c’è altro, a ben vedere, che è assolutamente incomprensibile.

    – Ma p… perché? Perché io? – ti senti infine farfugliare, mentre il sangue ti cola sul viso e sul colletto della camicia.

    Lui molla il tuo braccio per pulirti le guance con un kleenex. Ha un’aria curiosamente assorta, come se si stesse prendendo cura di una cosa.

    – Perché? Non siete tutte uguali? – sussurra infine, rimettendo entrambe le mani sul volante.

    Come fa a sapere che non tenterai di fuggire? Lo sente, forse, lo capisce in qualche contorta maniera belluina – perché di una belva deve trattarsi – che, stordita come sei, non ci hai nemmeno pensato a scappare, nell’assurda speranza che ti stia portando dove l’equivoco sarà senz’altro chiarito?

    Finalmente, dopo forse mezz’ora, vi fermate. Lui ti trascina come un sacco di stracci verso un capannone industriale basso e di colore bianco e giallo. Appena il tempo di distinguerne le forme tozze e squadrate. Ti lega, e ti cala sugli occhi quel maledetto foulard. Pochi, affrettati passi, una porta che si apre con fragore metallico, e sei scagliata in avanti come fossi un fuscello. Ti senti impattare con la spalla e una mano contro una superficie di cemento dura e irregolare. L’attesa è cominciata, e con l’attesa cominci a sentire con chiarezza ogni dolore. Quanto tempo? Due ore? Mezza giornata? In realtà ti sembra di averci passato una vita su quel pavimento umido e scabro quando, improvvisamente, senti che la porta si sta riaprendo.

    2

    Alza gli occhi lentamente verso l’immagine riflessa nello specchio.

    No. Nonono. Non così. Adesso, sguardo di nuovo in basso, e uno-e due-e tre-e quattro.

    Pian piano, il ciuffo di capelli sulla fronte si apre come un sipario e scopre lineamenti resi duri dalla concentrazione. È davvero questa la sua faccia?

    No. Ho mosso gli occhi, cazzo. Che cazzo mi guardo a fare? Daccapo. E uno-e due-e tre-e quattro.

    Così. Ora viene il difficile. Con un movimento lento e controllato solleva il bilama blu all’altezza della guancia destra. Il mosaico di cicatrici sulla faccia lo proclama: per un malato di DOC, radersi può essere un esercizio estenuante.

    Già. Vallo a dire al mio analista.

    Comincia a respirare con ritmo più rilassato.

    Calma, adesso.

    Com’è che gli hanno insegnato? Ah, sì. Bisogna dare del tu al mostro.

    Buongiorno, mister DOC. Signor Disturbo Ossessivo Compulsivo, com’è che funzioni? Già. La paura.

    Paura che succeda qualcosa di brutto. Di tanto brutto da non poter essere sopportato. Di così brutto da esorcizzare con formule magiche. O con litanie.

    Su la testa, giù la testa. Rasoio parallelo alla guancia, attenti, e… cazzo. Lo sapevo, cazzo!

    La piccola fitta di dolore arriva puntuale. In un unico movimento fluido della mano sinistra, appoggia il batuffolo di cotone che teneva già pronto e imbevuto d’alcool sopra l’ennesimo taglio che si è procurato.

    O che mi sono voluto procurare?

    Negli ultimi tempi gli capita sempre più di frequente. La mano e il polso destri si irrigidiscono fino a tremare. Insorgono contro la ripetizione del rito. Ma non può evitarlo. Oppure sì? Ha letto una volta che l’autolesionismo va di pari passo con le compulsioni ossessive. Che serve sia per cercare di interrompere il circolo vizioso, sia per punire se stessi. Si guarda ancora allo specchio. La sua vita è fatta di cazzate che gli scivolano lungo il cervello come questo filo di sangue lungo la guancia.

    Basta, ho deciso. Mi compro un rasoio elettrico.

    Ma poi, se non usa la lametta, cosa succederà? Cazzo, cosa c’è di così brutto che sta cercando di evitare?

    Continua a scrutarsi la faccia e si concede una misurata insurrezione interiore. Perché succede proprio a lui? Per quanto si sforzi, non riesce a spiegarselo. Cinque anni di DOC conclamato e adesso è solo in questo tugurio al secondo piano, alle Grazie. Giulia, lei se n’è andata un anno prima, schiantata dal peso delle sue paure. Paura di ammalarsi, paura che lei lo lasciasse, da ultimo perfino paura di uscire in strada. Troppa paranoia per una solida trentenne americana. La sua mente concreta ha valutato a fondo le due alternative: o lui o la sopravvivenza, e non ha avuto incertezze.

    Se lei non c’è più, di cosa ha paura allora, chiede di nuovo alla faccia pallida che lo guarda dallo specchio. Di tutto, gli rimanda ottuso e implacabile il volto striato di sangue e cicatrici. E di nuovo, come ogni giorno, monta l’altra fissazione: vedere l’immagine riflessa squagliarsi in un impasto casuale di peli e carne. Sciocca carne indifferente, estranea allo spirito ferito che la tormenta. Carne che, tuttavia, vive di una sua bizzarra, odiosa autonomia. Coi polpastrelli, cauto, saggia la consistenza di questo volto. È l’inizio di quel rito mattutino che poi diventa un frenetico sfregarsi.

    Consistenza di gomma ed escrescenze rugose, crosticine di sangue e pori dilatati. L’alienazione è parte del disturbo, non dice così l’analista? Avverte intanto l’abituale nodo salire alla gola. Che senso ha vivere così?

    Che prigione è, questa che mi sono scelto?

    Un sospiro, un altro sguardo allo specchio, a trovare occhi stanchi e apatici. E se si stesse immaginando tutto, compresa la malattia e tutta questa vita? Se tutto fosse un incubo? Una congiura ai suoi danni?

    Il trillo del telefono risuona come un gong. Per qualche istante è libero. Si precipita in sala, plana sul divano liso e afferra la cornetta.

    – Pronto?

    – Esposito?

    – Dottesio.

    – Sei ancora in grado di intendere e di volere, allora. Ascolta…

    – Giorgio, vieni al sodo, perché stamattina io, proprio…

    – Va bene, Luca. Devi essere in via Fillak tra venti minuti, il capo non sente ragioni.

    – Ma…

    – Niente ma. Ne abbiamo trovata un’altra.

    Click. Di nuovo il silenzio, nel buio ovattato del salotto, appena due fili di luce, dal bagno e attraverso le gelosie chiuse.

    Uno, due, tre quattro, cinque, sei, sette… sei più uno, sessantuno, il mio anno di nascita.

    Con estrema lentezza Luca riaggancia il ricevitore. Al sette il microfono riposa sulla forcella. Esposito sente umido sulla faccia e con il dorso della mano spazza via due lacrime.

    3

    È già mezzogiorno, ma il cielo è cupo come all’imbrunire. È una di quelle giornate di settembre in cui su Genova sembra appeso il diluvio universale. Nuvole nere avvolgono i monti in spire malevoli, titanici serpenti scuri si avviluppano intorno alle colline, pronti a strangolarle. L’acqua che minaccia, ma non si decide a venire giù. In lontananza, il ponte autostradale più che fare da sfondo incombe sulla scena del delitto. I due piloni ricordano le minacciose corna di un colossale demone alieno. E a Luca, via Fillak sembra davvero un altro mondo. Normalmente deserto, il triste stradone che fu operaio e che attraversa il quartiere di Certosa ora rigurgita di gente. Attirati dalle auto e dai lampeggianti della polizia, i pochi passanti si sono coagulati in un capannello che si arricchisce a ogni istante di curiosi.

    L’orgogliosa dignità proletaria trasformata in bovina morbosità borghese. Luca sorride. Anni prima, da queste parti, avresti incontrato solo operai col berretto tirato indietro e i polmoni marci. Adesso, quando si vede passare qualcuno, si tratta sempre di gente anonima che si affretta verso casa e la soap-opera preferita. Sull’identità di quel quartiere, il tempo si è divertito a far cadere un diluvio di melassa. Impossibile districarsi per capire cosa sia diventato.

    O forse, non è poi così difficile.

    Basta distrarsi dalla massa e guardare i volti. Volti su cui il desiderio di conoscere i dettagli di una storia eccitante fa a pugni con l’abulia di una vita di routine: auto acquistate a rate, canali satellitari porno. Facce su cui si legge la brama di spiare le forme della donna nuda che hanno trovato morta… Facce di gente comune. Anonime e… Gommose.

    Scacciando il pensiero fisso, Luca si fa largo tra borbottii tanto risentiti quanto incomprensibili, rigurgiti d’aglio puro e zaffate alcoliche, afrori di spezie senegalesi e bicchieri di mate, fino ad affacciarsi all’area di rispetto creata dai colleghi intorno al corpo riverso sul marciapiede. A ridosso di questa si agitano una decina tra operatori televisivi e giornalisti isterici. Questi ultimi brandiscono i microfoni come fossero le spade laser di Guerre Stellari. Ignorandoli, Luca avanza. Tre lunghi passi che ai più sembrarono sicuri e spavaldi, ma che in realtà servono solo a mettere ciascun piede su una diversa lastra di cemento. Alla fine Luca solleva il nastro bianco e rosso.

    – È la terza in tre settimane – lo aggiorna Dottesio senza voltarsi, lo sguardo fisso sul cadavere – ormai ne ammazza una ogni sette giorni precisi.

    Scuote la massiccia testa come un pupazzo a molla.

    – Stesso modo di procedere?– chiede Luca, affascinato dal movimento ritmico.

    – Maledettamente uguale. Chiama da una cabina pubblica e poi molla il corpo nelle vicinanze – senza smettere di fissare il cadavere, Dottesio indica il vicino incrocio – scordati le impronte.

    – E lei com’è, stavolta?

    – Guarda tu stesso.

    Luca si avvicina.

    Carina, la ragazza.

    Del resto, non lo erano tutte? Come le altre, completamente nuda, e completamente depilata. Il corpo giace come se stesse prendendo il sole, una gamba appena piegata di lato, l’altra distesa a terra. La postura rilassata contrasta con i segni di una violenza che appare risalire a qualche giorno prima. Il volto è ancora tumefatto, labbra e uno zigomo spaccati, lividi sulle costole in via di guarigione, il colore marrone tendente ormai al verdastro. Gli occhi, anche i suoi, innaturalmente azzurri, aperti e girati verso i due poliziotti, rimandano l’ultimo sguardo, di odio e disperazione insieme. Oppure lo sguardo vitreo di una bambola rotta? Dipende da come la si osserva.

    – Come l’ha uccisa? – chiede Luca con un filo di voce.

    – Soffocata. Con un sacchetto di plastica. Questo.

    La mano inguantata di lattice, Dottesio porge l’oggetto. Luca lo studia per un attimo, poi torna a fissare il collega.

    – E… – insiste schiarendosi la voce.

    – Sì, ha lavato anche lei – annuisce Dottesio.

    A dispetto della bassa statura, i lineamenti marcati e la faccia lunga lo fanno assomigliare assurdamente a un cavallo. Un pony, placido e paziente.

    – L’ha pulita con scrupolo, usando quasi di sicuro una pietra pomice. Secondo la scientifica ha strofinato ogni singolo lembo di pelle. Ha anche usato della crema per ammorbidire le croste delle vecchie ferite. L’ha truccata, vedi? Sono sicuro che sotto allo strato di fondotinta troveremo le petecchie da soffocamento. Eccole, guarda, sono lì, vedi? Visibili negli occhi, nonostante le lenti.

    – Anche lei, dunque? – chiede Luca. Guarda quelle lenti colorate.

    – Ormai è la sua firma – risponde Dottesio – ma la cosa più malata è che il bastardo l’ha completamente depilata. Ricorrendo a una ceretta, probabilmente. Il corpo è liscio come il sedere di un neonato.

    Sempre più simile a un cavallo costernato, Dottesio scuote la testa. Luca si gira. Il cadavere reclama ancora la sua attenzione. Quegli occhi, un muto rimprovero a chi non è riuscito a salvarle la vita. Si sorprende a sovrapporre a quel volto di morta un’altra faccia.

    Giulia… nonono.

    Cede alla sua schiavitù e comincia a contare, sulla punta delle dita delle mani e muovendo quelle dei piedi.

    Settesettesette. Sessantuno il numero magico. Sei più uno. Quali sono i multipli di sette? Sette volte sette, quarantanove, sìsìsì. Arrivo all’anulare della mano sinistra. Il dito dell’anello. E Giulia è salva.

    Luca sogghigna. Dunque l’ossessione segue fedele le origini etniche e sociali. Un meridionale malato di DOC non può evitare di infilarci dentro il matrimonio. O la sua è solo superstizione? Sempre terronate sono, si ripete. Torna a chiedersi come mai ancora gli interessi la sorte di Giulia. Dottesio interrompe il suo rimuginare.

    – Esposito! – nitrisce il pony – che cosa stai facendo?

    – Niente. Sgranchisco le mani. Fa freddo qui – risponde Luca diminuendo l’ampiezza dei movimenti delle dita.

    – Ma di che freddo parli? – il collega lo studia sospettoso – stai prendendo le tue medicine, vero?

    – Tutte e due.

    Luca sorride amaro e si fruga in tasca, sente al tatto il familiare profilo dei blister di Zoloft e Xanax. Sillaba sottovoce i nomi dei due prodotti, e ride tra sé del loro suono. È come invocare degli alieni. Già. Gli alieni che, con alterne fortune, si occupano del mostro che gli condiziona la vita.

    – Esposito: lo sai che al capo non piacciono i drogati – puntualizza sottovoce Dottesio, per non farsi sentire dai colleghi della Scientifica. Sono tutti presi dall’esame del cadavere, ma non per questo meno interessati ai pettegolezzi.

    – Quand’è che ti decidi a tornare al centro di igiene mentale? – insiste il pony, premuroso – e poi, è più venuto nessuno per aiutarti con le faccende di casa?

    Dottesio agita generico una mano. Per lui, felicemente sposato da trent’anni e con due figli grandi, l’unica ossessione è arrivare a fine mese con lo stipendio. Tuttavia, rispetto ai problemi di Luca, non manca di un assurdo tatto, anche se gli sono assolutamente incomprensibili. Forse è per questo che a volte gliene parla con cura, come fossero oggetti fragili. Altre volte, come in questo caso, Dottesio ha la delicatezza di un mastodonte.

    – Lo farò, Giorgio, dai. Non parliamone adesso.

    Luca si sforza di non gridare, ma la voce esce comunque strozzata e quasi tremante.

    – Va bene, ma tu sembri sempre più uno zombi! – si preoccupa Dottesio – e quei giochini con le mani, tipo prestigiatore? Cazzo, amico, sei proprio fuori.

    Improvvisamente dal gruppo degli agenti della scientifica si stacca una figura snella in abiti borghesi. Una donna piccola e bruna, che indossa un leggero giubbetto di pelle. La brevilinea sagoma risplende d’energia nel continuo succedersi di sole estivo e fitta ombra proiettata dalle nuvole temporalesche.

    – Chi è quella? Non l’ho mai vista prima – bofonchia Luca strizzando gli occhi.

    – Quella lì? Si chiama Raffaella Pastorino, è una nuova. – Dottesio sospira. – Ha lavorato col RIS. È arrivata quando tu eri ancora in malattia. Occhio, è una scassacazzi. Secondo lei siamo tutti un branco di incompetenti.

    – Vedremo – taglia corto Luca con un gesto della mano, sollevando l’altra a rispondere al saluto della Pastorino che si sta avvicinando a lunghi passi elastici.

    4

    Il vento comincia a spirare a libeccio e i capelli turbinano davanti al volto della donna. Luca sente odore di pioggia imminente e si stringe nelle spalle, rabbrividendo per l’umidità e la vicinanza fisica dell’estranea.

    – Tu sei Luca Esposito, vero? Non abbiamo ancora avuto modo di presentarci. Sono Raffaella Pastorino.

    Il donnino tende di scatto una mano piccola e asciutta. La stretta è sorprendentemente forte.

    – Parlavamo di te giusto adesso col viceispettore Dottesio – risponde Luca con un mezzo sorriso.

    Si immerge per qualche istante in iridi nere come l’inferno, poi si tuffa in una scollatura che tradisce rotondità rassicuranti, lattee e levigate. Il contrasto lo turba.

    – Posso immaginare! – esclama la donna con un filo d’ironia – sembra che io debba imparare ancora molto dalla polizia genovese, neh?

    Dottesio sbuffa apertamente.

    – Da come parli, direi che questa città non ti sia così estranea.

    Luca incrocia le braccia sul petto, studiando il gioco dei capelli sul volto della Pastorino, mentre lei lotta contro il vento per fissarsi un paio di ciocche dietro alle orecchie.

    – È vero, sono nata a Genova e ci ho vissuto fino a diciotto anni. Poi mi sono laureata a Bologna. Medicina. E nel frattempo mi sono arruolata in polizia. – si sfrega il naso, da sotto in su – Ho collaborato un paio d’anni coi carabinieri…

    – …il RIS, lo so – fa Luca portandosi due dita al viso.

    La Pastorino lo fissa. Lui si accorge subito che gli occhi della donna si spostano con interesse dall’uno all’altro dei piccoli cerotti che gli costellano il volto.

    – Stai bene, adesso? – chiede la donna inclinando la testa da un lato – quando sono tornata a Genova,

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