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Campus Comitia
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Campus Comitia

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In una zona disabitata, appena fuori dal Paese e male frequentata, c’è un’area dismessa che i locali chiamano ‘la fossa del diavolo’. In quel terreno nasce e si sviluppa un Centro Universitario molto speciale. Grazie ad un severo metodo didattico, i suoi studenti presto diventano ‘eccellenze’ nei loro campi d’azione.
Tutto appare sereno e tranquillo ma una cupa minaccia sembra incombere sull’intera la zona. Bambini rapiti e spariti nel nulla. Chi ha il coraggio di indagare, muore in un susseguirsi di misteriosi delitti.
Un intraprendente giornalista, con l’aiuto di una avvenente psicologa ed una altrettanto fascinosa psicoterapeuta giudiziaria, cercherà di alzare il sipario sull'intricata trama.
Nella complessa e macchinosa indagine, appaiono, in vesti enigmatiche, spietate spie industriali, Servizi Segreti e Agenti della NASA, l’ente spaziale americano, che sovente renderanno difficile il lavoro investigativo del coraggioso reporter.
Nello svolgimento dell’avvincente indagine, il lettore potrà trovare non pochi riscontri fra gli avvenimenti narrati ed i riferimenti a fatti riportati nella cronaca dei nostri giorni.
‘Campus comitia’ è un Romanzo di grande attualità che apre la speranza in un Mondo migliore. La Bellezza, Educazione e Amore ritorneranno per sconfiggere la sgraziata disarmonia che il Male ha tentato di imporre all’esistenza attuale.
LanguageItaliano
PublisherOivatto Dream
Release dateOct 23, 2017
ISBN9788827505038
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    Campus Comitia - Oivatto Dream

    CAPITOLO PRIMO

    La strada che dal Supermercato conduceva alle prime case del Paese, si presentava deserta. L’ora era assai prossima al momento in cui la gente si appresta a consumare la cena. Sebbene il sole fosse già tramontato, l’aria conservava ancora un tremore e un ricordo del tepore autunnale. Gli alberi di tiglio che fiancheggiavano la strada erano colmi di fiori. I petali di un giallo chiaro, spandevano tutto attorno un profumo dolce e penetrante.

    Una coppia anziana avanzava con lenta andatura. L’uomo, prossimo ai settant’anni, teneva nella mano destra un gonfio sacchetto di plastica giallo, la spesa appena fatta al vicino supermercato alimentare. Al suo fianco una signora, poco più giovane, lo accompagnava. Avanzavano lungo il marciapiede, in modo che la donna veniva a trovarsi con il fianco sinistro accostato al muro delle case che si alzavano lungo l’intero percorso.

    L’uomo e la donna si tenevano per mano in una stretta che appariva perfetta sintonia, quasi tenera frequenza fra trasmettitore e ricevente, un accordo, non con la sola andatura ma con la loro stessa esistenza. Il passo dell’uomo era lungo e di misurata lentezza mentre quello della donna, corto e veloce, quasi nervoso. Si capiva che il primo corrispondeva alla andatura di chi era abituato a lunghi percorsi, forse in montagna mentre il secondo più consono a chi è solito passeggiare in città con frequenti soste ed indugi.

    La diversa andatura comportava il fatto che sovente l’uomo sopravanzava, sebbene di poco, la donna. Accadeva allora che il primo si attardasse, in modo quasi inavvertito da parte di un superficiale osservatore. Il rallentamento consentiva alla donna di affiancare nuovamente il compagno. Tale sovrastare ed attendere rivelava un ritmo che dava, nella sua costanza e regolarità, una armonia che riguardava non solo quel loro andare ma lasciava supporre una consuetudine di vita e di pensiero lunga molti decenni e sigillata dalla loro stretta di mano.

    Quando pensi che arriverà Rodolfo? Chiese l’uomo.

    Spero presto! Ha promesso che avrebbe fatto il possibile per non far passare troppo tempo. Rispose la donna.

    La bambina è molto affezionata al padre…

    Però Nilde non le fa mancare il suo affetto di madre.

    Sono d’accordo con te, ma la piccola Gerbina, sebbene affezionata alla mamma, è assuefatta alla presenza del padre. Tutte le sere è abituata a vederlo rientrare a casa, sebbene nostro figlio abbia da poco cambiato lavoro.

    Dobbiamo però riconoscere che da quando Nilde e la piccola sono venute a trovarci, casa nostra è molto più distante dal luogo di lavoro di nostro figlio. Arrivare la sera e ripartire la mattina successiva è molto più impegnativo.

    Sono certa che arriverà a fine settimana, avrà così modo di trascorrere più tempo con la piccola e riposarsi un paio di giorni durante il Week-end.

    Il volto magro dell’uomo si distese in un soddisfatto sorriso mentre la stretta di mano che lo legava alla moglie ebbe un improvviso ed affettuoso vigore. Anche la donna non seppe contenere una interiore felicità al pensiero di rivedere il figlio e al contempo immaginando la rumorosa manifestazione di gioia dell’adorata nipotina nel rivedere il padre.

    All’improvviso, lo straziante urlare di una sirena. Dapprima lontano poi sempre più vicina. Infine l’auto dei carabinieri appare sul largo stradone. Veloce avanza, raggiunge i due anziani e subito li supera per scomparire dopo la grande curva che appena si intravvede in fondo alla strada.

    Idalberto ha sempre odiato quel suono sinistro. Un tempo lontano, una sirena ha segnato la vita dell’uomo. Quel ricordo lo perseguita senza lasciargli un attimo di tregua. La sindrome è sempre la stessa. Un leggero tremore accompagnato da un diffuso sudore e la vivida rivisitazione di un tragico evento che la mente rifiuta di cancellare e la polvere degli anni invece di annullare, ricopre di uno spaventoso velo che lo protegge e gli consente di riapparire ad ogni momento. Quasi un interruttore sempre pronto ad accendersi senza spegnersi mai definitivamente.

    <<<<<<<<<<<<<<<<<<<

    Un elegante quartiere della Grande Genova, è la notte del 23 febbraio 1944. Una sirena rompe il silenzio, è il segnale di una imminente incursione aerea. Con mani febbrili e precisi gesti consolidati da maligne frequenze, i genitori, più che vestirlo, cercano di coprirlo contro i rigori invernali. Come troppo spesso già verificatosi, escono di casa e il più sbrigativamente possibile, si uniscono alla fiumana umana che brulica in strada. Ogni condominio sembra eruttare uomini, donne e bambini, senza soluzione di continuità.

    La notte è buia e fredda. Il cielo è attraversato da potenti fasci di luce.

    La contraerea cerca di individuare i velivoli nemici. Un brontolio lontano e indistinto sovrasta qualsiasi altro rumore. Sono i bombardieri che, nonostante siano ancora lontano, fanno intuire la loro minacciosa presenza.

    Quasi un fiume in piena, la folla si avvia verso il rifugio: un lungo tunnel scavato nella montagna e fra le case. Il suo ingresso è nero, spaventoso e non si direbbe che possa contenere tutte le persone che, dopo aver attraversato piazza Massena, si dirigono verso Via Perone.

    Idalberto è insieme al padre ed alla madre, non prova paura, i suoi dieci anni non possono contenere l’intera tragedia che quelle persone stano vivendo. E’ spintonato in ogni direzione ma lui sembra non accorgersene. I suoi occhi e tutto il suo essere è rivolto alla ricerca di qualcosa o qualcuno. Un centinaio di metri lo separano da quello che a tutti sembra essere la salvezza: l’antro scuro, l’ingresso della galleria.

    Poi all’improvviso, fra un gruppo di persone provenienti da un palazzo vicino al suo, scorge Alfredina che insieme ai suoi vecchi genitori avanza a fatica fra tanti disperati. Il padre di Alfredina è un vecchio dirigente di una importante Azienda italiana. Ha i capelli bianchi e procede con fatica. E’ aiutato dalla moglie ma anche lei sembra non riuscire a far fronte alla violenza degli altri disperati che anelano di arrivare al sicuro prima che sia troppo tardi.

    Alfredina ha undici anni, uno più di Idalberto, è gentile e magra. Le sue gambe sono esili e le braccia e le mani sono delicate. Ha i capelli biondi e sottili, raccolti in due piccole trecce che le scendono ai lati del capo. Gli occhi grandi e malinconici sono di un morbido color nocciola: Idalberto pensa di esserne innamorato. Ora, guidando i passi dei suoi genitori cerca di avvicinarla. Tende la mano per stringere quella della bionda compagna.

    Alfredina e Idalberto si erano conosciuti la prima volta che avevano trovato rifugio nella galleria. Si erano parlati poco…forse non si erano scambiati neppure una parola ma ad ogni esplosione si erano trovati stretti l’uno all’altra. Lui ricordava ancora il profumo di lei. Era un odore dolce e strano, aveva sentore di viola e gelsomino. Aspettava la caduta delle bombe con vera trepidazione e allora se la trovava stretta fra le braccia. Sentiva le spalle di lei, fragili e delicate, aveva quasi timore a stringerla perché temeva di farle male e spezzarla.

    Quella prima volta si erano lasciati salutandosi con lo sguardo e solo dopo, a casa, lui si rese conto di non conoscerne neppure il nome. A quella prima volta ne seguirono molte altre e lui continuava a domandarsi perché i suoi genitori temessero il suono di quella sirena mentre lui non aspettava altro e nei suoi pensieri avrebbe voluto sentirla tutti i giorni!

    A dieci anni non si è ancora adulti ma non si è più bambini. E’ un’età difficile da vivere e da capire. I sentimenti sono gli stessi degli adulti e stesse le trepidazioni e le ansie. Ciò che fa la differenza è che nei giovani è tutto più puro e naturale. Non ci sono contaminazioni esterne. Purtroppo però e gli adulti sovente non lo capiscono, la struttura mentale e psicologica dei giovani non è preparata alla dura lotta della vita che comporta delusioni e contrarietà.

    Un adulto può anche vivere di illusioni se pure con una esperienza da deluso. Un giovane al contrario, difficilmente è in grado di superare il grave trauma di una delusione se non adeguatamente ed intelligentemente aiutato.

    Quella sera il rombo dei motori dei bombardieri era più forte del solito. Si capiva che sarebbero arrivati sul bersaglio prima delle volte precedenti. Forse un vento favorevole, di coda, aveva agevolato il loro viaggio.

    Il passo del padre di Alfredina si era fatto più lento e sebbene aiutato dalla moglie, era evidente che non avrebbe fatto in tempo ad arrivare al rifugio. Gente gagliarda o forse solo più disperata, li strattonava e sopravanzava. Alfredina stretta tra il padre e la madre, cominciava a mostrare i primi segni della paura. I suoi occhi erano sbarrati, le labbra serrate e la mano che prima stringeva quella di Idalberto, si era allontanata e rimaneva stretta a quella del padre che a quel punto, forse gli parve logico cercare riparo nella tozza casa-matta in pesante cemento armato che si trovava lungo il percorso e che la separava dall’ingresso ancora lontano della galleria

    Alfredina con i genitori e alcune persone per lo più anziane, furono inghiottite dalla feritoia che dava accesso al rudimentale blocco fortificato. Quasi contemporaneamente Idalberto, con il padre e la madre entrarono nella galleria mentre un fragoroso boato dava inizio al bombardamento.

    I potenti quadrimotori avevano cominciato a scaricare le loro micidiali bombe. Idalberto trovò posto a sedere vicino al muro del rifugio. La parete era ruvida e maleodorante, con le spalle avvertiva le vibrazioni che le esplosioni provocavano alla struttura della galleria. Pensò ad Alfredina e triste per la sua lontananza, cominciò a guardarsi attorno. Suo padre e sua madre cercavano di fargli scudo e proteggerlo dalle folate di vento che ad ogni esplosione si intrufolavano nella galleria.

    Le donne erano per lo più spettinate e con in dosso pesanti vestaglie che coprivano gli indumenti della notte. Gli uomini, taluni con lunghi cappotti dai voluminosi ‘revers’ e grosse ‘martingale’ sul retro.

    Quello che colpì Idalberto furono le gote maschili. Anche quelle senza barba, avevano la pelle scura come se fossero state sbarbate ma in malo modo e sommariamente. I lineamenti erano marcati nei volti magri e scavati. Ricordavano nei tratti, i lineamenti deli uomini raffigurati in un quadro che il padre aveva nel suo studio. Sembravano tutti ritratti di Migneco. Volti bruciati dal sole. Pescatori della Sicilia, rappresentati nell’ambito del movimento realista ma pur sempre in un acceso grafismo impegnato socialmente. Quei volti del ritratto, allora gli avevano messo paura, ora soltanto curiosità e pena. L’incursione aerea, quella notte durò molto più a lungo delle volte precedenti. Di tanto in tanto, la penombra del locale era attraversata da lamenti. Talora da imprecazioni. Non mancavano stizziti strilli e pianti di bambini che sollecite madri cercavano di tranquillizzare. Ad un certo punto, lo spazio antistante l’uscita della ‘galleria’, che era occupato da diverse persone in piedi, che non avevano avuto modo di trovare un posto all’interno, si divise, lasciando libero una specie di corridoio. Alla fioca luce delle poche candele accese, cominciò ad avanzare un uomo. Gli faceva da sfondo l’incero bagliore delle esplosioni che filtrava con polvere e lapilli dall’apertura del ‘rifugio’. L’uomo era alto e magro, procedeva barcollando, sulla testa aveva un cappello che a fatica copriva i capelli intrisi di sangue che in densi grumi scendeva lungo il lato destro del viso. Sulle spalle una logora coperta grigia che gli copriva parte del corpo, dopo pochi passi precipitò a terra mentre alcune donne cercavano di portargli soccorso.

    Si seppe poco dopo che il poveretto non aveva fatto in tempo a mettersi al riparo e il bombardamento lo aveva sorpreso nel mezzo di piazza Massena, poco prima che imboccasse Via Perone. Le sue ferite si rivelarono solo superficiali e quando si ebbe ripreso, raccontò ai suoi soccorritori che: ‘fuori è tutto un inferno…Le bombe sono cadute tutte intorno nel quartiere e pochi palazzi avevano resistito alle deflagrazioni’.

    Silenzio e disperazione si accompagnarono a quelle parole e Idalberto ebbe un triste presentimento pensando ad Alfredina…Poi nuovamente il suono della sirena. Questa volta però per annunciare la fine del pericolo: l’incursione aerea era terminata ma nessuno parve avesse voglia di uscire all’aperto.

    La luna era tramontata e le prime luci dell’alba inondarono uno spettacolo spaventoso. Ovunque rovine e desolazione mentre il puzzo dei calcinacci e l’acre odore del fumo che saliva da tizzoni non completamente combusti di legno, gomma e plastica appestava l’aria. Prostrazione ed angoscia guidavano i passi di persone ormai svuotate di ogni volontà e la speranza cedeva il posto al più terribile sconforto alla vista della loro casa ridotta in un cumulo di macerie. Non c’era edificio che fosse stato risparmiato dalla violenza del bombardamento. Poche finestre e portoni erano rimasti intatti o anche soltanto chiusi: nella migliore delle ipotesi lo spostamento d’aria li aveva divelti. Anche se nessuno aveva sperato di trovare i locali del proprio appartamento completamente integro ma la realtà che si presentava ora ai loro occhi era una catastrofe che si abbatteva anche sul loro morale al punto di compromettere la stessa voglia di vivere.

    La casa-matta era completamente distrutta e un miserevole cumulo di macerie ne ricordava la precedente esistenza.

    Vigili del fuoco, volontari ed improvvisati infermieri si prodigavano per cercare di soccorrere i molti feriti.

    Di quella notte buia Idalberto ricordava solo dolore e sopportazione che lente passavano tra una umanità dolente.

    Da quel lontano febbraio del 1944 erano ormai passati una quantità di anni, nel frattempo gli dei gli avevano elargito in giusta misura gioie e dolori. Con la serenità di chi è ormai consapevole di essere vicino a quella notte che non vedrà alcuna alba, Idalberto riprese il cammino verso la propria casa dove sapeva che lo stavano ad aspettare l’adorata nipotina e l’affettuosa nuora. Stringendo forte la mano della moglie, sorrise beato, come spesso capita alle persone anziane, con l’illusione che ormai non avrebbe più dovuto accadergli né temere altre dure prove dal Destino.

    Poco più avanti la Provinciale si interrompeva con una larga rotonda piena di fiori. C’erano cespugli di azalee, di rose riunite in infiorescenze a mazzo e tutte in diverse tonalità, dal rosa al rosso più cupo, varietà screziate e sfumate e nelle specie rifiorenti la cui fioritura continuava praticamente sino all’inizio del gelo. Al centro dell’aiuola c’era un elegante acero giapponese con le caratteristiche foglie di rosso tendente al bronzo. Ai piedi di un cespuglio un cartello recitava: Aiuola curata dal Supermercato alimentare.

    Poi la strada provinciale proseguiva per il successivo Paese mentre sulla sinistra della lussureggiante aiuola si dipartiva una strada più stretta, con un solo marciapiede su di un lato e che conduceva ad una piazzetta che distava circa duecento metri e circondata da diversi villini, fra i quali si distingueva quello di Idalberto, per una fitta siepe di laurus cerasus che lo circondava in un abbraccio protettivo.

    Nonostante la distanza, Idalberto e la moglie, non poterono fare a meno di notare che la loro abitazione era pressoché assediata da una moltitudine di persone. Si potevano distinguere i loro vicini di casa e la macchina dei carabinieri che poco prima li aveva superati a sirene spiegate.

    Raggiunto l’assembramento, i presenti si separarono creando uno stretto corridoio, quasi sospinti da una accorta regia. I vicini di casa, con sguardi sbarrati, senza il coraggio di parlare, si fecero da parte, lasciando che i nuovi arrivati entrassero in casa. A loro incontro si fece il maresciallo dei carabinieri, sorreggendo Nilde che aveva gli occhi gonfi di lacrime e faticava a reggersi in piedi.

    Prima di entrare in casa, a Idalberto parve di udire qualcuno sussurrare: Gerbina è scomparsa! Qualcuno poi aggiunse: Sembra che abbiano rapito la loro nipote... dicono si tratti di un rapimento!

    CAPITOLO SECONDO

    Nei giorni che seguirono, la stampa nazionale e locale si appropriarono della notizia. Anche i canali televisivi fecero a gara nel proporre la loro visione della tragedia. I nonni e i genitori della piccola Gerbina furono intervistati e seppure in modo superficiale, affettuosamente confortati da giornalisti più o meno professionali e poco partecipi del dolore interiore degli intervistati.

    Con il passare del tempo, come spesso accade, scemò l’interesse dell’opinione pubblica e i parenti della povera Gerbina rimasero soli con il loro dolore.

    Polizia e Carabinieri non facevano progressi e le loro indagini approdarono ad un ‘nulla di fatto’. Ci si dovette convincere che l’opinione pubblica aveva dimenticato la piccola Gerbina.

    Nella sede di un importante giornale di Provincia qualcuno cercava delle risposte ad un rapimento che dava, almeno per lui, l’impressione di essere anomalo.

    Era la terza volta quel giorno, che il giornalista leggeva l’articolo scritto da un suo collaboratore e nella sua mente continuava a persistere la convinzione che ci fosse qualcosa di poco chiaro. Si trattava forse del modo come si erano svolti i fatti oppure la descrizione dei particolari che avevano permesso la realizzazione dell’atto criminale? L’impressione era che la conclusione cui erano giunti gli investigatori non fosse adeguata alle circostanze. Era come se un incastro non si realizzasse sebbene i singoli pezzi fossero stati eseguiti ad arte. Come se vite e bullone non si avvitassero fra loro.

    Il giornalista era arrivato alla direzione del quotidiano, dopo una carriera vissuta a stretto contatto con numerosi ‘casi’ criminali, durante i quali aveva sovente preceduto nella loro soluzione gli investigatori ufficiali. In diverse circostanze aveva collaborato con la Polizia e i Carabinieri e la sua competenza, nonostante la giovane età, era sempre stata riconosciuta ed apprezzata. Il suo intuito ed intelligenza gli avevano consentito di stringere numerose amicizie con persone che finivano per riconoscergli oltre alle doti intellettuali anche qualità umane e morali che, unite ad una inesauribile curiosità, lo portarono sovente ad indagare su ‘casi’ difficili e pericolosi.

    Avvenne così che quando si verificò il rapimento della piccola Gerbina, il nostro direttore incaricò un suo collaboratore di interessarsi del ‘caso’ e scrivere un dettagliato articolo. Quell’articolo, ora, sebbene a distanza di parecchi giorni dalla sua pubblicazione, era posato sul tavolo del direttore e continuava a tormentarlo.

    Una breve indecisione poi il giornalista solleva il telefono e chiama l’autore dell’articolo che pochi minuti dopo sopraggiunge, rivelando un certo timore per l’improvvisa convocazione. E’ giovane, poco più che ventenne, Indossa una camicia sportiva chiara e blue-jeans eleganti forse di marca. Ha capelli corti e volto simpatico. Appare preoccupato, quasi temendo un rimprovero. Un’occhiata veloce gli ha permesso di notare sul tavolo del superiore il giornale. E’ aperto nella pagina con il suo articolo relativo alla scomparsa della bambina. L’articolo è sottolineato con un evidenziatore giallo.

    Il volto severo del direttore si distende in un sorriso pur conservando una espressione pensierosa:

    Non deve preoccuparsi! Si sieda e si rilassi. Il suo articolo è scritto bene. E’ conciso ed in un buon italiano, diciamo che è un esempio di corretto giornalismo ma…non è per questo che l’ho chiamata.

    Ora la tensione è sparita per cedere, sul volto del giovane, ad una evidente curiosità. E’ seduto di fronte al suo direttore ed aspetta di conoscere il motivo di quella convocazione

    Mi descriva il suo stato d’animo quando ha scritto questo articolo.

    Mi scusi ma non capisco il senso della sua domanda.

    Intendo sapere se i concetti espressi le sono venuti spontaneamente, con facilità oppure ha trovato difficoltà nell’esprimerli? Se lo stato d’animo degli intervistati l’abbiano particolarmente influenzato? Se si sia sentito condizionato dagli stati emotivi dei soggetti coinvolti?

    Nulla di tutto questo! Non posso negare di essermi trovato emotivamente coinvolto nello strazio di quei genitori. Certo si è trattato di una storia umana particolare. Credo che qualsiasi persona non possa non aver provato un senso di frustrazione e una irrefrenabile rabbia nei confronti del responsabile o dei responsabili di un simile atroce delitto.

    Ho letto attentamente il suo articolo e mi domando che idea possa essersi fatto su questo crimine."

    Mi scusi direttore ma torno a non capire il senso della sua domanda.

    Non le è parso strano? Non ha provato la sensazione che ci sia qualcosa di anormale? Capisco che, data la sua giovane età e poca esperienza, non le sia capitato di imbattersi in molti rapimenti…eppure per scrivere questo articolo avrà certamente cercato di capire lo ‘spirito del reato’, l’essenza stessa del crimine.

    Non poco sconcertato, il giovane faticava a capire il pensiero del direttore e cercando le parole giuste provò a rispondere:

    Come giustamente mi fa osservare, la mia esperienza è piuttosto limitata, per quanto poi riguarda i casi di rapimenti… devo ammettere che questo è assolutamente il primo.

    Devo confessarle che facevo proprio affidamento sulla sua inesperienza per trovare una risposta ad un problema che continuo a considerare semplice nella sua esistenza ma complicato nella sua giustificazione.

    Temo signore di non poterla seguire.

    Con pazienza ma senza parvenza di noiosa attitudine paternalistica, il direttore spiegò:

    L’anomalia dipende dal fatto che il rapimento della piccola Gerbina, almeno da quanto è possibile desumere dalla precisa descrizione riportata nel suo articolo, è avvenuto senza che ‘anima viva’ abbia visto alcunché. Non esistono testimoni, sebbene nella zona e a quell’ora ci fossero diverse persone. Non sono state avvistate auto sospette o persone sconosciute ai residenti, sia il giorno del rapimento sia i giorni precedenti.

    Tutto questo è confermato dai vicini di casa e testimoniato negli interrogatori eseguiti dalle forze dell’ordine. Aggiunse il giovane che cominciava ad intravvedere l’anomalia del ‘caso’.

    La mamma assicura che Gerbina è uscita in giardino alle ore 18,30 e alle ore 18,40 quando l’ha chiamata per farla rientrare per parlare con il padre che la chiamava con il proprio cellulare, la piccola era sparita. Giusto?

    E’ proprio quanto risulta dai verbali degli inquirenti.

    Dunque in dieci minuti la piccola è stata rapita e fatta sparire. E’ quasi impossibile pensare che si possa realizzare un crimine complesso come un rapimento, sia per quanto riguarda il tempo, sia il contesto territoriale, la zona in cui questo si è verificato. Capisce ora quale è il mio problema?

    Eppure signore la ‘cosa’ si è verificata!

    Questo è un fatto, è la realtà ma solo una realtà parziale. Il problema è capire la seconda parte di questa realtà. Ecco perché lo ritengo un crimine anomalo. Capisco le difficoltà delle autorità competenti e non mi riferisco alla possibilità di trovare la soluzione ma anche una semplice prova, un dettaglio che consenta l’avvio di una pista da seguire.

    Temo signore di non poterla aiutare.

    Non è detto. Sorrise il direttore all’allibito giornalista e disse:

    Prenda in mano quella penna dal mio tavolo, sulla sua sinistra. Coraggio non si faccia pregare. Ecco ora la sollevi sino all’altezza dei suoi occhi.

    Appena il giovane eseguì quanto richiesto, il direttore aggiunse:

    Se ora le chiedessi di lasciarla andare, cosa pensa che potrebbe accadere?

    Che la penna cadrebbe! Fu la pronta risposta.

    Ne è proprio sicuro

    Certamente!

    "Da dove deriverebbe questa sua sicurezza?

    Forte della propria preparazione scientifica, il giovane rispose:

    La scienza ha dimostrato che la forza di gravità…

    No mio caro, la scienza ha solo rilevato che tutte le volte che una penna è stata sollevata e poi rilasciata, questa è caduta! Nient’altro! Nella nostra attività di giornalisti dobbiamo renderci conto che la realtà o meglio quella che siamo indotti a chiamare realtà, a volte è simulata, nascosta da un qualche cosa che la fa apparire diversa dalla sua vera sostanza. Di conseguenza esiste una doppia realtà, quella vera, sovente celata e una visibile e ingannatrice. Noi dobbiamo cercare la realtà vera e non quella apparente.

    Una doppia realtà… Finì per domandarsi il giovane, quasi parlando a se stesso e proseguì:

    Come possiamo distinguere l’una dall’altra?

    La maggior parte delle persone non si preoccupa di cercarla, soprattutto perché non è un compito facile…che esiste ognun lo dice, dove sia nessun lo sa!

    Quando lei dice ‘noi’, intende riferirsi a noi giornalisti?

    Io credo che una persona di buon senso e che sia dotato di quel sano principio che si chiama ‘curiosità’ non dovrebbe mai accontentarsi di ogni cosa che pseudo intellettuali o superficiali scienziati vogliano farci credere. Ma senta il dovere di indagare, cercare al fine di formarsi sempre un’idea personale. Certo un giornalista ha in più il dovere di portare le proprie scoperte a conoscenza del pubblico.

    Dunque cosa si aspetta che io faccia a questo punto? Perché sono sicuro che lei abbia ben chiaro quale sia ora la prima necessità.

    Sarebbe opportuno ritornare sul ‘posto del delitto’, indagare più a fondo su ogni cosa, interrogare nuovamente tutte le persone del Paese… sono sicuro che là troveremo la risposta alla nostra domanda.

    Quale sarebbe questa domanda? Quale la risposta che lei si aspetta?

    E’ molto semplice! Cosa potrebbe rendere normale un delitto che a tutta prima parrebbe anormale? Un qualsiasi dettaglio, un errore, una svista o una dimenticanza che il responsabile o come giustamente ha osservato lei, i responsabili del rapimento abbiano commesso o a seconda dei casi, omesso.

    Fu così che il giorno successivo il giovane reporter ritornò a far visita al Paese, teatro del rapimento della piccola Gerbina. I residenti avevano metabolizzato il tragico evento, sebbene ciascuno a modo suo.

    Nella stanza della modesta pensione che Aristodemo, tale risultò essere il nome del giovane reporter, aveva scelto per trascorrere i giorni che avrebbe richiesto l’indagine, il giornalista cercava di riassumere i punti salienti della sua ricerca.

    Il volto dai lineamenti delicati, quasi infantili, era teso nello sforzo di trovare una risposta alle sue domande che erano state generate dal recente colloquio con il suo superiore. Non si poteva infatti negare che fattori o circostanze particolari siano in grado di indurre a grossolani errori di valutazione. Per esempio ad una verità apparente. Come escludere che qualcuna delle persone intervistate, possa aver mentito? Oppure anche soltanto, riferito qualcosa di inesatto? Le possibilità, seppure non infinite, rimanevano comunque molte. Per esempio avrebbe potuto esserci chi, influenzato da impressioni puramente soggettive, avrebbe potuto arrivare a conclusioni diverse dalla realtà. Aver visto o non aver visto, qualcosa che si era o non si era realmente manifestato. Qualche altro poteva magari aver rivelato una cosa non esatta, magari non un vero e proprio falso ma la deformazione di un fatto reale.

    Non c’erano alternative: quello che a tutti era parsa la realtà, non poteva che essere una realtà apparente, in qualunque modo si volesse affrontare la questione, esisteva un fatto incontestabile: il tempo e il luogo in cui il rapimento era avvenuto, non avrebbe potuto consentire il suo verificarsi senza che qualcuno potesse averne sentore. Un testimone più o meno consapevole non poteva essere escluso. Per non parlare di un qualche, anche se piccolo, errore o dimenticanza che avrebbe potuto accadere. Magari un profumo strano o un rumore lontano.

    Dunque l’indagine, almeno per quanto riguardava i giornalisti, doveva essere nuovamente aperta ed esaminata.

    Il giovane Aristodemo non si illudeva di risolvere il mistero, almeno non in quel momento. La sua ferma convinzione era però quella di individuare il suo errore e trovare una falla nella procedura criminale del rapimento.

    Era dunque la seconda volta che intervistava gli abitanti di quel Paese. Ora metteva a confronto le loro risposte con le sue conclusioni. Con caparbia volontà cominciò a mettere le une di fronte alle altre e senza accorgersene iniziò una vera procedura psicologica ben nota agli studiosi del settore: durante le sue interviste, il giornalista si era basato o meglio si era accontentato delle risposte dei suoi interlocutori senza ulteriori approfondimenti sul carattere e personalità degli stessi. Ora cominciò ad adottare un sistema diverso, basato sul principio della ‘ricerca longitudinale’. Cominciò così a prendere nota di come ogni intervistato prendeva conoscenza del fenomeno del rapimento, dei momenti che lo avevano preceduto e poi seguito. Esaminò le modalità e la descrizione di ogni particolare e questo per ogni individuo, nel corso dei due momenti diversi dei due interrogatori. Cominciò così a prendere nota ed a studiare i mutamenti delle rispettive risposte nelle due interviste. Poiché queste si erano verificate in tempi notevolmente diversi fu possibile utilizzare, nel campo della ricerca, i diversi piani.

    Concluso questo studio, il giovane cominciò ad analizzare i risultati attraverso una ‘ricerca trasversale’ mise cioè a confronto le risposte dei suoi interlocutori dopo averli divisi per età, per sesso e indicativamente per livelli di istruzione.

    L’accurata ricerca evidenziò alcune particolari situazioni che erano rimaste celate durante la prima analisi, per esempio riguardo la personalità degli intervistati e di conseguenza influenzando in maniera decisiva le loro risposte, le rendeva praticamente inutili ai fini delle indagini. La cosa si riferiva soprattutto ai coniugi Barattini e la signora Balbina ma sicuramente non solo loro, sebbene costoro si rivelassero subito soggetti ad un disturbo comportamentale che in psichiatria e sociologia viene definito ‘borderline di personalità’ (D B P). Le loro risposte dovevano dunque essere interpretate con molta cautela. Alle domanda del giornalista il loro comportamento si era mostrato eccitato, confuso, sovente contradditorio. Il signor Barattini era sostanzialmente un brav’uomo, semplice e di modesta cultura. La moglie interveniva sovente per tacitarlo, sviluppando comportamenti consoni a ‘situazioni di tipo fluido’ e manifestando poco più elevata eredità culturale. Lei era alta e di figura elegante quanto lui era basso e piuttosto tarchiato. Si capiva che nella coppia, lei doveva essere di tipo alfa mentre lui pacatamente dominato.

    La signora Balbina invece, era piuttosto anziana e magra, Di carnagione olivastra e terribilmente sorda. I coniugi Barattini e la signora Balbina abitavano in due villini poco distanti e fiancheggiati da un fitto bosco. Diversi per provenienza geografica con un accento rivelatore di una origine territoriale diversa anche se non definibile. Eppure il loro modo di argomentare, soprattutto delle due donne, il loro modo di reagire alle domande, mostrava un sentimento comune.

    Rivelavano un sottile rancore, una malevolenza che lasciava supporre una tendenza a negare, rifiutare, piuttosto che assecondare e giustificare.

    I Barattini e la Balbina lasciavano supporre l’esistenza di un sentimento propenso ad ostacolare il godimento di un bene, una naturale avversione all’altrui benevolenza e gentilezza. Pareva quasi che in ogni loro risposta scegliessero il male altrui e la cattiveria. Alle domande del giornalista, l’espressione del volto e il tono della voce manifestava il rammarico per l’altrui successo.

    I nonni di Gerbina risultarono, da parecchi riscontri, persone educate e sempre disponibili anche se gentilmente riservate. Erano giunti al Paese da circa dieci anni. Dopo

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