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Il leone e la mezzaluna
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Il leone e la mezzaluna

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Storico - romanzo (226 pagine) - 1581: un pugno di veneziani sfida l’Impero Ottomano in un’impresa che sembra impossibile


Sono trascorsi più di dieci anni dalla caduta di Famagosta, nel 1571.

L’ultimo caposaldo veneziano a Cipro aveva ceduto al lungo assedio degli ottomani. Il comandante Bragadin era stato torturato e scuoiato vivo, e i suoi resti portati nella capitale dell’Impero.

Forse ora la sconfitta veneziana può essere in parte cancellata.

Per farlo, un pugno di uomini dovrà sfidare i turchi nella loro capitale: Costantinopoli.

Un’impresa straordinaria, con una promessa da mantenere e un grande condottiero da onorare. L’occasione per tentare il riscatto della decadente Repubblica, di fronte al potente Impero Turco che si espande.


Luciano Bacchin, nato a Milano nel 1965, è un perito industriale conquistato in seguito dalla filosofia, che ha studiato presso l’Università degli Studi di Milano. Con Delos Books, nella collana Sherlockiana, ha pubblicato Sherlock Holmes: la sfida degli Spettri e Vacillare, quasi cadere.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateOct 17, 2017
ISBN9788825403664
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    Il leone e la mezzaluna - Luciano Bacchin

    9788825402971

    Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti moriremo,

    ma tutti saremo trasformati, in un istante,

    in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba;

    suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno

    incorrotti e noi saremo trasformati.

    È necessario infatti che questo corpo corruttibile

    si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale

    si vesta di immortalità.

    Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, capitolo XV, 51-53

    Prologo

    Agosto 1571: circa due mesi prima della battaglia di Lepanto la città di Famagosta a Cipro, ultimo caposaldo veneziano sull’isola, cade dopo l’assedio ottomano durato quasi un anno.

    Protetta da mura e bastioni, la città ha resistito con meno di 7000 uomini contro una forza sproporzionata, che ha raggiunto nella fase finale più di 200.000 soldati e almeno 150 imbarcazioni impegnate nel blocco navale.

    I pesantissimi bombardamenti, la scarsità delle derrate alimentari e la decimazione dei combattenti hanno finalmente indotto i veneziani alla resa. Il valore e l’eroismo degli assediati è racchiuso nei numeri delle perdite che si contano alla fine di tutto: i caduti di parte veneziana sono circa 6000, contro gli oltre 80.000 turchi.

    Nonostante l’inevitabile vittoria finale, il capo degli ottomani è irritato e incollerito per lo spaventoso prezzo pagato in vite umane, di fronte alla resistenza e all’ostinazione del comandante veneziano di Famagosta: Marcantonio Bragadin.

    Senza rispettare le promesse e gli accordi per la resa, fa decapitare tutti gli ufficiali veneziani che si sono consegnati e lascia la città e i civili in balia delle milizie ottomane, che ne fanno strage. Bragadin viene invece crudelmente torturato nel fisico e nella mente per due settimane; infine, condotto nella piazza principale della città, viene scuoiato vivo e muore nel corso del selvaggio castigo.

    La sua pelle viene issata sulla nave ammiraglia turca per essere mostrata come un trofeo durante il viaggio di ritorno che la riporta infine nella capitale dell’Impero Ottomano: Costantinopoli.

    Questo racconto si svolge nelle campagne venete e tra le calli veneziane, attraverso il Mediterraneo e dentro le vie più o meno strette di Costantinopoli, in parte di qua e in parte oltre l’insenatura del Corno d’Oro.

    Ove ve ne fosse bisogno, per mettere ordine tra le vicende narrate, ricordiamo i personaggi peculiari.

    Girolamo Polidoro: per tanti anni servitore di Marcantonio Bragadin, era con lui anche a Famagosta, ma è sopravvissuto al massacro.

    Edoardo (cognome non menzionato): compagno di Polidoro nella prigionia e nella schiavitù a Costantinopoli.

    Nicolò Longo: ufficiale della Marina veneziana agli ordini di Marcantonio Bragadin; le loro strade si sono poi separate, ma sono rimasti grandi amici.

    Paolo Trevisan: ricco e potente commerciante veneziano, è divenuto amico di Bragadin per una tragica vicissitudine.

    Antonio Bragadin: fratello di Marcantonio e capofamiglia della sua casata dopo la sua tragica morte.

    Simone Celegato: contadino della profonda campagna veneta, vuole fare un’esperienza marinara per migliorare la sua vita.

    Prospero Scotton: imbroglione, millantatore o realmente un grande alchimista dotato di conoscenze e poteri straordinari?

    Valier (nome non citato): armatore e comandante di un convoglio di galee in viaggio tra Venezia e Costantinopoli.

    Antonio Tiepolo: Bailo di Costantinopoli, un rappresentante diplomatico speciale che Venezia ebbe per secoli nella capitale ottomana.

    Domenico Ziani: segretario del Bailo.

    Camozzi (nome non citato): fedele assistente di Ziani, lo aiuta in molte occasioni, in quanto persona di grande esperienza, senso pratico e utili conoscenze a Costantinopoli.

    Maria (cognome non citato): veneziana rapita da giovane a Cipro dai Turchi, durante la guerra, e portata a Costantinopoli; in seguito viene sposata da un facoltoso ottomano.

    Alessio Moroni: dragomanno nella capitale turca, cioè un funzionario della Repubblica addetto alle relazioni con le autorità ottomane; per questo deve necessariamente conoscere bene la lingua, gli usi e i costumi turchi.

    Molti anni dopo

    L’orto era stato negli ultimi anni la sua occupazione principale e ora lo stava abbracciando in uno sguardo d’assieme, con una sorta di compiacimento interiore per la verde rigogliosità.

    Se ne era preso cura con un impegno e una passione costanti. Insieme agli altri confratelli, certo. Però per loro era un compito da svolgere solo per determinati periodi; lui, invece, aveva chiesto e ottenuto di essere un incaricato fisso per questa attività della confraternita.

    Il Mediterraneo era in apparenza distante, ma il suo clima benefico e favorevole si spingeva nell’entroterra, espandendo la sua influenza sino al territorio dove sorgeva il monastero. Il terreno naturalmente fertile, con l’aiuto della regolare concimazione, permetteva di ottenere ormai da tempo buoni raccolti, che rendevano autonoma da questo punto di vista la piccola comunità monacale.

    Nicolas fece scorrere lo sguardo lungo il confine dell’orto alla sua destra, dove dopo alcuni cespugli di rosmarino si susseguivano verdure e ortaggi di diverse varietà. Erano tutti ai rispettivi gradi di maturazione in quella stagione dell’anno, ma il bello e florido aspetto erano le loro caratteristiche comuni.

    Il frate si incamminò piano tra le carote, le cui foglie ingiallite avvisavano del momento propizio per la raccolta, e i piccoli cavoli appena trapiantati. Stava pensando che negli ultimi tempi l’età ormai avanzata, la sua schiena sempre più rigida e le giunture doloranti, gli avevano reso l’impegno dell’orto davvero oneroso. Spesso era costretto solo a dirigere certi tipi di lavoro e altre volte, invece, si limitava a mostrare specie ai novizi cosa si doveva concretamente fare.

    Intristendosi a quei pensieri, scorse alla sua sinistra le coltivazioni di piante medicinali e curative. Quella parte dell’orto, seppur di dimensioni ridotte, era altrettanto preziosa per gli anziani della comunità come lui. Molte di quelle erbe entravano ormai nella sua dieta con la stessa regolarità delle verdure e degli ortaggi che semplicemente lo nutrivano. La prova delle loro virtù curative si era dimostrata nel corso degli anni, alleviando i disturbi e i malanni che l’età recava con sé senza troppa parsimonia.

    Alcune piante di melanzana gli impedirono il cammino, obbligandolo a sostare. Quando aveva deciso di coltivarle anche nell’orto del monastero, si era destata una certa curiosità generale. Non era, infatti, un ortaggio diffuso e molti dei suoi confratelli erano stati un po’ diffidenti all’inizio.

    Quella, in particolare, era una varietà che proveniva dal lontano Oriente. Si trattava di una delle sorprese incontrate durante un viaggio fatto tanti anni prima e lui era riuscito con pazienza a riprodurne il seme fino ad allora.

    Riprese a camminare mentre alcuni fuggevoli ricordi, in parte ormai sbiaditi, vennero a galla nella sua mente confusa e non più lucida come un tempo.

    Fece ancora un passo e poi si paralizzò. Un dolore lancinante sembrò aprirgli il petto, un pugnale pareva trapassargli il cuore, come se lo trafiggesse da dentro a fuori.

    Un urlo che si soffocò quasi subito ruppe il silenzio dell’orto e lui cadde in ginocchio, portandosi le mani al torace, quasi a voler raggiungere il cuore per alleviargli quel terribile dolore.

    – Fratello Nicolas!

    Un giovane frate che stava lavorando nell’orto in quel momento, poco lontano da lui, abbandonò a terra la zappa e corse in suo aiuto, sollevandosi il saio per non incespicare. Gli si inginocchiò di fronte e lo resse prendendolo per le spalle. Lo fissava negli occhi con grande spavento e agitazione.

    La smorfia di dolore che aveva sfigurato il viso del vecchio si distese lentamente e a fatica.

    – Come vi sentite? Vi sta passando?

    L’anziano frate rispose solo con un cenno d’assenso del capo, mentre chiudeva gli occhi.

    Il novizio guardò le sue mani ancora sovrapposte e premute sul centro del petto, che si sollevava e abbassava al suo ansimare.

    – Il vostro cuore, vero?

    – Stavolta… credo di sì – rispose piano.

    Si fece forza e appoggiandosi al giovane inginocchiato tentò di rialzarsi in piedi, ma non vi riuscì.

    – Aspettate! Riposatevi ancora un po’… appena vi sentirete meglio andrò a chiamare aiuto e vi porteremo dentro. Volete stendervi qui a terra, intanto? – propose il novizio.

    Nicolas fece segno di no, agitando la mano aperta davanti a sé e indicando poi l’albero lì vicino.

    – Non avvisare nessuno, per ora – disse lentamente e a bassa voce. – Mi rimane poco da vivere, lo sento… Non c’è più molto da fare, aiutami solo ad arrivare sotto quel platano… Voglio sedermi là.

    Dopo essersi riposato un po’, ritentò la mossa di prima, questa volta riuscendovi. A piccoli passi e sorretto dal giovane confratello arrivò alla base dell’albero. Poi, sempre trattenuto, si sedette pesantemente a terra e appoggiò la schiena al grosso fusto. Il platano, dopo una lunga vita, era maestoso nella sua imponenza; per abbracciare il suo tronco non bastavano due adulti.

    Le fronde stormirono, per un colpo di vento, quasi a salutare l’ospite giunto ai loro piedi.

    L’albero si trovava a nord rispetto all’orto e quindi la sua ombra, nonostante l’altezza ormai notevole, non aveva mai ostacolato la crescita delle verdure e degli ortaggi. Questo aveva contribuito a far sì che nessuno ne avesse proposto l’abbattimento. Anzi, col tempo, era diventato un punto di ristoro con la sua fresca chioma, sotto la quale i frati si riparavano dal sole intenso dell’estate per riposare e bere dell’acqua.

    Ora Nicolas si rese conto che diverse volte l’aveva pensato: se la morte fosse arrivata lì nell’orto, avrebbe voluto che avvenisse sotto quel platano protettivo e rassicurante, con la schiena appoggiata al suo solido tronco.

    – Davvero non volete che chiami qualcuno in aiuto? Farei presto e torneremmo subito per trasportarvi dentro – chiese il novizio accovacciato accanto a lui.

    – Ti prego di no. Resta qui vicino, non lasciarmi solo. Forse per me è davvero finita… Ma non credere che non abbia paura, ne ho e molta – rispose Nicolas parlando lentamente e con fatica.

    Nonostante lo usasse ormai da molti anni lì nel monastero, aveva trovato sempre difficoltoso esprimersi in francese. Adesso, poi, nelle sue condizioni, risultava ancora più impegnativo. I pensieri e le parole si affollavano nella sua mente agitata nel suo dialetto natale: il veneto.

    – Tu sei Aedo, il greco, se non ricordo male.

    – Sì, sono io.

    – Sei un amanuense… – replicò Nicolas.

    – Cerco di esserlo, con modestia e umiltà, e spero che questo sia il disegno di Dio per me perché lo faccio con grande passione – rispose il giovane frate.

    – Allora conosci anche i grandi poeti della tua terra natale e i latini, oltre alla Bibbia e i testi sacri della nostra religione – proseguì Nicolas, che si sentiva meglio e poteva parlare con voce più chiara.

    Aedo si guardò alle spalle con circospezione, prima di rispondere con un sussurro.

    – Sì, ne conosco i testi fondamentali.

    – Non temere, non te ne faccio una colpa, anzi. Vorrei avere più tempo perché tu mi narrassi o leggessi qualcuna delle loro storie. Mi hanno sempre incuriosito questi racconti che hanno attraversato i secoli per arrivare fino a noi.

    – Quando starete meglio e vi sarete rimesso, sarò lieto di trovare occasioni per farlo – disse il giovane distendendosi in un sorriso.

    – Purtroppo, come ti ho detto, non credo mi rimanga ancora molto tempo da vivere, è una cosa che avrei dovuto fare prima. Ma, dimmi, hai anche una buona memoria?

    – Per grazia di Dio, sì. Inoltre, conosco vari insegnamenti per migliorarla, iniziando da quelli dei miei avi greci: Simonide, Platone e Aristotele – rispose il novizio.

    – Allora ascoltami attentamente. Se le mie forze me lo permetteranno, ti narrerò una storia che spero vorrai scrivere e tramandare, specie agli uomini della mia terra – disse Nicolas alzando gli occhi verso le fronde del platano.

    I prigionieri

    Si svegliò all’improvviso, nel mezzo del brutto sogno, con una specie di urlo che gli si spense in gola, man mano che la coscienza tornava in sé. Ancora una volta quella terribile situazione, nella quale assisteva impotente all’atroce svolgersi delle cose.

    Girolamo Polidoro si trovò in un bagno di sudore e anche il suo misero giaciglio, fatto di stracci cuciti e contenenti della paglia, era umido e caldo.

    Quel luogo era un forno. Per lui era sempre difficile dormire nella stagione estiva e risvegliarsi almeno un po’ riposato, per affrontare la lunga giornata di lavoro tra i vicoli della città. Quando faceva quei sogni, però, la reazione del suo corpo era di accalorarsi ancor di più. L’agitazione che rimaneva, quando l’immagine nella sua orribile chiarezza si era dileguata, gli impediva poi di riprendere il sonno, talvolta fino all’alba.

    – Giro’, che c’è? – chiese vicino a lui una voce dal buio. – Hai sognato ancora? Hai quasi gridato, stavolta.

    Non rispose subito, perché stava ancora ansimando e… sentiva il cuore spaventato. Quella strana espressione gli era rimasta per averla udita spesso dalla voce del padre. Forse lui aveva una malattia perché, senza motivo apparente, gli capitava di avere il cuore spaventato, che cominciava cioè a battere in modo veloce e disordinato. Sì, doveva essere stata una malattia, perché proprio durante uno di questi episodi suo padre era prima rimasto quasi senza fiato e poi era spirato in breve tempo.

    Scosse un poco il capo frastornato e farfugliò qualcosa d’incomprensibile.

    – Giro’, stai bene?

    Sentì più vicina la voce nel buio e percepì la presenza di un corpo che si protendeva verso di lui. Ora gli occhi si abituavano all’oscurità e le pupille, dilatandosi, mostrarono una figura sdraiata più in là; sorreggendosi su un gomito, lo cercava nella penombra.

    – Sì, Edoardo, sto bene. È stato un brutto sogno… non volevo svegliarti – rispose infine.

    – Ancora quel giorno maledetto, vero? Com’è possibile che dopo tutti questi anni continui a tormentare il tuo sonno?

    – Me lo chiedo anch’io…

    – Questa cosa ti sta consumando. Non puoi vivere così, non è solo il tuo sonno a essere disturbato. Anche la tua vita quotidiana ne risente. Stai sempre più spesso con il pensiero altrove, forse ancora laggiù a Cipro. Mangi poco e di malavoglia. Spero che tu riesca almeno a continuare a lavorare, altrimenti per noi saranno guai.

    Si erano entrambi messi a sedere sui propri pagliericci, di poco rialzati dall’impiantito, e Girolamo ascoltava silenzioso, finalmente distratto dai suoi pensieri ricorrenti grazie alle parole del compagno di sventura.

    Ormai abituato alla buia penombra e conoscendo l’ambiente in cui si muoveva, andò verso la piccola finestra, chiusa dall’esterno con pesanti imposte in legno. Cercava qualche spiffero della frescura notturna che filtrasse nella piccola e afosa stanza attraverso le assi vecchie e sconnesse.

    Ne fu deluso, perché l’intera grande città giaceva nella notte avara di brezze rinfrescanti. Era raro che accadesse sul Bosforo, ma a volte lo stretto non veniva percorso dai consueti venti da nord-est e Costantinopoli restava molto calda anche nella notte.

    – Lo sai che mi sono impegnato con me stesso a fare qualcosa. Non so proprio come potrò mantenervi fede, ma mi arrovello in questi pensieri e in un continuo senso di colpa, anche se forse non è giusto – disse Polidoro andando alla porta e spingendola senza convinzione per aprirla.

    Era, come sempre per la notte, bloccata dall’esterno.

    – Meno male che almeno di questo ti sei convinto. Non potevi far niente allora a Famagosta ed è già un miracolo che tu sia rimasto vivo. Ancora meno puoi fare oggi qui, proprio nella loro capitale.

    Quell’impegno di cui parli da tempo è stato preso in un momento di grande amarezza e dolore, e non ti devi sentire legato a questa promessa vana. Nessuno potrà mai, né vorrà, rinfacciarti di non averla mantenuta – commentò Edoardo.

    Polidoro andò in un angolo e dopo aver strizzato uno straccio immerso in un secchio, trovato a tentoni sul pavimento, si deterse il torso nudo per provare un minimo refrigerio.

    – Non te la prendere, ho ascoltato molte volte le tue parole, ma non mi calmano. Qualcosa dovrò pur provare a fare. Glielo devo… Dopo averlo abbandonato là, solo – proseguì Girolamo immergendo di nuovo lo straccio nell’acqua.

    – Ma tu non eri un suo soldato! E poi non lo hai abbandonato. Sei stato fatto prigioniero e, te lo ripeto, è una fortuna non essere finito in quel massacro. Non avresti potuto far niente, non sei un militare! – Anche Edoardo si era alzato dal pagliericcio nella foga del discorso.

    Lentamente, Polidoro strizzò ancora lo straccio dopo averlo estratto dal secchio. L’acqua era quasi tiepida nella calura della notte; si tamponò le gambe e le braccia nude.

    – Sono stato al suo servizio per tanti anni, a Venezia e poi anche in quella maledetta isola. Hai ragione, non avrei potuto far niente per lui allora, ma se sono rimasto in vita forse è un segno. Mi sono ripromesso di farlo e, in qualche modo, un giorno vorrei riuscirci: riportare a casa almeno i suoi resti, riportare il governatore Bragadin a Venezia.

    Dopo quella morte orribile, gli devo se non altro questo, la sua città glielo deve… Perlomeno, io credo così – disse Polidoro tornando al suo pagliericcio.

    – Non penso che lo vogliano i Veneziani di oggi, specie chi comanda ora. Ti sei scordato ciò che ti hanno riferito? – obiettò Edoardo.

    Erano seduti uno di fronte all’altro, nel buio che sembrava lentamente ritirarsi per l’arrivo dell’alba.

    – Forse, se riuscissi nel mio intento, anche queste cose cambierebbero. Qualcuno troverebbe il coraggio per portare alla luce molte responsabilità nascoste e si potrebbe rendere giustizia ai tanti morti di Famagosta e al suo governatore Marcantonio Bragadin – replicò Polidoro.

    – Giro’, mi pare che tu sogni anche a occhi aperti. Secondo te, siamo in grado di cambiare certe cose nella testa dei governanti veneziani?

    Edoardo si era alzato per andare a urinare in un vaso che tenevano nella stanza per i loro eventuali bisogni notturni. Al mattino, appena liberati, lo svuotavano e lo lavavano.

    – Non ho nessuna intenzione di coinvolgerti in qualsiasi cosa potrò tentare un giorno. Ti parlo dei miei pensieri perché sei l’unico amico che ho e purtroppo il mio compagno in questa sventura – disse Girolamo sdraiandosi di nuovo.

    L’acqua sulla sua pelle stava velocemente evaporando e gli donava un senso di momentaneo sollievo dal caldo; forse sarebbe riuscito a riprendere il sonno.

    – Sai che ci tengo a vivere il più a lungo possibile, anche se in questa condizione misera e umiliante. La mia speranza è che un giorno questi barbari si stanchino e ci ridiano la libertà, così da poter tornare nella mia terra, altro non chiedo – disse Edoardo stendendosi a sua volta sul proprio giaciglio. – Però, se tu dovessi aver bisogno d’aiuto, non potrei che essere io a dartelo. Qui, per ora, non c’è nessuno su cui puoi contare.

    – Rischieresti la testa, lo sai – obiettò Polidoro.

    – Certo che lo so! Ma tu credi davvero che, in ogni caso, non mi giudicherebbero tuo complice? Stessa razza, stessa lingua e viviamo fianco a fianco da anni: la prima cosa che penserebbero sarebbe che conoscessi le tue idee e i tuoi piani.

    Girolamo corrugò la fronte e strinse le labbra preoccupato. Pur nell’oscurità, l’amico avvertì la sua tensione, ma proseguì sincero col suo discorso.

    – Che tu lo voglia o no, sarei tirato dentro in tutto ciò che ti riguarda. Forse non è giusto, ma sappi che dovrei comunque seguirti nei tuoi intenti, non potrei restarne fuori – concluse Edoardo con un’ombra di preoccupazione nella voce.

    I due uomini rimasero a lungo in silenzio, ognuno coi propri pensieri.

    – Sì, hai ragione. Nella mia ansia e ossessione non mi ero reso conto di queste conseguenze. La cosa migliore sarebbe di separarci, se e quando riusciremo. Solo allora potrò agire senza paura di procurarti sofferenze o addirittura la morte – disse d’un tratto Polidoro.

    – Va bene, dai, Giro’! Non è che questa cosa la devi far domani. Non pensarci, per ora; cerca di dormire e riposare un poco. Ti devi rimettere in buona salute, qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare. Devi mangiare di più, cacciare via un po’ dei tuoi brutti pensieri e tranquillizzarti. Insomma, devi essere più calmo e pronto per agire quando verrà il momento buono. Promettimi che lo farai nelle prossime settimane.

    – Sono consigli utili, Edoardo. Meno male che ci sei tu a strigliarmi ogni tanto, altrimenti diventerei matto. Il fatto è che la fame a volte ce l’avrei: è il cibo che ci danno qui che non sopporto. Non riesco ad abituarmi a quello che mangiano questi dannati Turchi – rispose quasi sorridendo Girolamo.

    – Ah, a chi lo dici! A differenza dei tuoi, i miei sogni sono pieni di tavole imbandite con le pietanze che preparavano le mie sorelle – replicò Edoardo in una risata rauca e sommessa. – Adesso dormiamo ancora un po’, finché non ci svegliano quelle bestie – concluse girandosi sul fianco e dando le spalle all’amico.

    Polidoro chiuse gli occhi e ricominciò, suo malgrado, a pensare a quei sogni, che da tanto tempo ormai tornavano a disturbare le

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