Sulle orme di Rocky Marciano
By Marco Marchi
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Sulle orme di Rocky Marciano - Marco Marchi
Libri
1
Bologna
Luglio 18 2012 ore 8
Ho messo un termine al mio futuro. 30 settembre. Settantadue giorni ancora e poi il nulla.
Ora, indifferente alle fatture non quietanzate, alle diffide delle banche, all’insolenza dei creditori, alla infingardaggine dei debitori, alla petulanza delle segretarie, agli amori in genere, alle gelosie, alle amicizie, ai ricatti, posso dedicarmi con puntigliosa applicazione solo alle cose che per me non hanno mai avuto importanza.
Comincio a mettere in ordine la casa.
Sgomenta e attonita, mia moglie, con tagliente ironia, commenta:
Dal momento che stai operando con metodo scientifico, stai, cioè, buttando via tra le altre cose anche gli abiti più belli, mi chiedo perché nel sacco degli sfollati non metti il migliore di tutti, quello da gangster... Ti starebbe ancora bene dal momento che non sei ingrassato…
Certo, quel completo di lana blu con camicia blu e cravatta bianca che avevo indossato, per l’ultima volta, quarant’anni prima a Bogotà in una notte favolosa.
E mentre mia moglie continua, accentuando i toni sarcastici, a criticare la mia improvvisa passione per la pulizia, con lo sguardo fisso su quell’abito, appeso a un attaccapanni di legno intarsiato, nella parte alta dell’armadio a muro, ritorno con la memoria a quel lontano periodo, unico e irripetibile... Li vedo ancora laggiù in Colombia, i miei compagni, giovani, nel pieno delle loro forze: Gelain. Gardin. Antonio, Rocco Petrucci e gli altri... Non mi volto, non mi è mai piaciuto farmi vedere con gli occhi lucidi.
Fine dicembre 1967
Genova, Cannes, Barcellona: in quell’inverno sgarbato, davvero non invitavano.
All’ormeggio, ci eravamo limitati a uno sguardo sui moli invasi di bagagli e passeggeri tra pianti ed abbracci.
Al largo, il Mediterraneo, flagellato dalla tramontana, si rifaceva sulla nave, scuotendola con violente mazzate.
Erminio estrasse una spilla d’oro dal taschino.È per Mercedes la regina del casino di Valencia- bisbigliò – ho cinquant’anni, sono un fallito e amo le troie.
Si riordinava i capelli scarruffati dal vento di coperta, ricomponeva le ondulazioni grigie, come un mare d’inverno, che si intonavano all’occhio chiaro, indifferente, da mentitore.
Nella mia prima traversata fui eletto Nettuno, alla festa del mare, vent’anni fa. Dalle facce che vedo in giro non nascondo che nutro qualche speranza.
Le facce erano quella orgogliosa di Gino, quella scontrosa di Piralli, alias il Marocchino, quella pacifica di Rocco Petrucci, quella magra giovanissima del Toscano Gugliesi che a Genova aveva pianto.
Ora Barcellona si confondeva con l’orizzonte velato di nubi. Io pensavo ai mari equatoriali, ma di più al mio stomaco sottosopra.
Erminio, di statura regolare, si poteva classificare un bell’uomo; difficile comunque immaginarselo un dio. Era tornato in Italia dopo vent’anni, per operarsi di emorroidi.
In Venezuela mi avrebbero dimezzato l’intestino. Per i denti invece bisogna lasciarli stare. - Là i dentisti sono dei veri competenti.
Com’è laggiù?
chiese Gino.
In Venezuela c’è il petrolio, e io, prima del tappezziere, facevo lo scopino, il lustrascarpe. Ho sofferto la fame. Sarei tornato definitivamente in Italia se non fosse stato per salvare la faccia di fronte ai quei quattro stronzi di amici del bar di Bologna. Questa è la verità.
Per dio, ci saranno pure quelli che hanno messo insieme un po’ di quattrini!
protestai.
Noi andiamo in Colombia
disse Rocco.
Laggiù conosco italiani che passano la vita nelle baracche. Clima duro e grande miseria: malattie, prostituzione…
Alt – disse Piralli – almeno con quella ci sfameremo un po’.
2
Gino e Rocco si erano accartocciati in un angolo del salone sottocoperta, vicino alla vetrata. Si stavano allontanando da casa per la prima volta davvero. Osservavano le onde, quanto tempo duravano, accarezzavano i rilievi confusi della costa spagnola ancora così familiare.
Mi piace la Spagna
disse Gino.
Mi dispiace di lasciare l’Europa
fece Rocco.
Oltre Gibilterra era comparso l’azzurro. Sul ponte avevano aperto degli sdrai. C’erano studenti che tornavano ai paesi d’origine, turisti, emigranti, avventurieri internazionali. Ora l’oceano ci circondava con i suoi spazi paurosi e su quella lamiera galleggiante che aveva nome Donizetti i rapporti diventarono più intensi.
Chi sarà in realtà tutta questa gente?
fece Gino.
Bah – rispose Rocco – e noi in verità chi siamo?
Emigranti fottuti!
esclamai.
Emigranti, che parola povera !
si lamentò Rocco.
Gino era mio conterraneo e le comuni inflessioni dialettali stabilivano tra noi una familiarità speciale.
Sai, io cerco lavoro – dissi – ma quello che voglio è l’avventura. Dovevo andare in Brasile con Franco, un amico di Roma, con il quale ce la spassammo in Svezia qualche anno fa. Poi andò tutto a monte perché non avevano bisogno di alimentaristi. La signora console di Colombia mi ha convinto a cambiare rotta. Guardi- mi disse – la Colombia è un paese di bellissime donne, ci sono molte feste. È un paese cattolico sa? Accettai subito.
Mi ha spinto a partire un amico spedito in Colombia da una ditta di telefoni – confidò Gino – starai bene, ti divertirai e farai quattrini se ci saprai fare- mi disse- ed eccomi qua.
Io, invece – disse Rocco - dovevo andare negli Stati Uniti, vicino a Boston, in una fabbrica alimentare, ma non mi hanno dato il visto...
Per forza sei un marocchino!
rise Erminio.
Solo mezzo. Sono abruzzese. Badate bene, di Ripa Teatina.
Riva che...
domandò Erminio.
Ripa non Riva. Ripa Teatina. Il paese di origine di Rocky Marciano.
Il grande Rocky! -ed Erminio s’illuminò. – Che vittoria quella del ‘52 con Walcott! Che cazzotto. Il destro più potente nella storia della boxe. E la gente impazzita, noi italiani, emigranti tutti abbiamo avuto una bella rivincita. I morti di fame che diventano campioni del mondo. La vittoria di Rocky a noi, in Venezuela, ci da dato coraggio, fiducia, figuriamoci negli Stati Uniti! Rocco, cominci a essermi simpatico… - e poi guardandolo bene aggiunse- sai che tu gli assomigli molto nel fisico e anche un po’ nella faccia. Ed hai anche lo stesso nome. Rocky Marciano si chiamava in realtà Rocco Marchegiano. Fu Al Weill, il suo manager, a fargli cambiar nome, si pronunciava meglio in inglese. Ragazzi, quello diventa un campione...
Ma va…
lo interruppe il Marocchino
Erminio lo esaminò da capo a piedi e poi in tono sprezzante sentenziò: Tu non combinerai mai un cazzo.
Piralli prontamente replicò: Io diventerò qualcuno.
Peccato che abbiamo passato Gibilterra dove potevate scendere, tornare a casa, ed evitare guai seri. Lasciate stare quei paesi da battaglia. Per affrontarli ci vogliono individui di armatura solida e pochi scrupoli, voi siete solo bravi ragazzi.
L’intervento di Erminio a me non stava bene. E nemmeno a Piralli che, imprecando, s’allontanò con un individuo d’una certa età, vestito di bianco e paglietta in testa.
3
Avevamo lasciato da molto Tenerife che la notte ci aveva impedito di apprezzare.
Canottiere e berrettini variopinti animavano le terrazze di poppa e di prua: si preparavano per l’elezione di Nettuno, dio del mare.
Già spiravano brezze tropicali e il mare languiva sotto un sole spietato.
Erminio aveva già la tintarella quando, riuniti in cabina, ci raggiunse il comunicato del capitano, mediante Gugliesi, il Toscano: I giovani aitanti, di gradevole aspetto, sono pregati di iscriversi alle liste di selezione.
Erminio si alzò presentandosi allo specchio. Si lisciò i capelli riattivati con mèches biondastre e porse il viso nella sua miglior angolatura.
Gino brontolò: Qui, anche se decidiamo di metterci in cooperativa, non caviamo un ragno da un buco!
Erminio suggerì: Componiamo un mosaico. A parte la fronte di Enrico e la muscolatura di Rocco, il resto dovrebbe essere tutto mio.
Il Marocchino si indispettì perché aveva puntato seriamente sui suoi begli occhi che avrebbero costituito l’anima del mosaico.
Il dio del mare fu un bellissimo ragazzo cileno. Erminio deluso si limitò a rilevare: I tempi sono cambiati… e in peggio.
Il dio, in slip e corona d’alloro, ricambiava con sorrisi le invocazioni del pubblico, formato soprattutto da donne. Le vecchie signore sugli sdrai gli battevano le mani come incantate e sembravano abbandonarsi ai sogni del passato.
Canti, inni, scongiuri, perché il sole tenesse lontane le burrasche.
Con l’Atlantico in tempesta è dura- disse Erminio mezzo assonnato su uno sdraio; e morso dalla sconfitta, - non ho mai sentito che Nettuno fosse moro e, per di più, di ascendenza indiana. Non c’è posto dove non arrivi la corruzione.
Piralli si era riaccompagnato all’ometto della paglietta. Gugliesi si cimentava in castigliano con un gruppo di ragazze innamorate del dio cileno che, la sera tardi, raccolse il frutto dei suoi trionfi. Al night club ebbe un bel daffare per resistere alle donne che, eccitate dallo iodio, sembravano in preda al delirio. Anche noi nella mischia. Si fece quel che c’era da fare e cioè poco. Le donne, tutte per il loro dio, preferirono il digiuno al rancio, nonostante ci fossimo presentati in cravatta. Erminio e Gino, eccezioni, passarono il tempo strisciando le sponde, parlando del più e del meno, per ingannare la sconfitta.
4
Guardavo le onde dell’oceano abbracciate in schiumosi slanci.
Assistevo alle acrobazie dei delfini che ricordavo prigionieri nell’Aquarium di Rimini, alle saettanti infilate dei pesci spada e al guizzare senza fine di altri branchi che parevano festeggiare il transito della nave con il suo carico di esseri viventi come loro.
Osserva questa bottiglia - disse l’uomo della paglietta. - Chi l’ha inventata? L’uomo bianco. Ti ho fatto solo un esempio. Macchine, motori, grattacieli, chi li ha progettati e costruiti? Il bianco. È giusto quindi che i negri stiano sotto. Capiscono poco. E ti dico che mi vogliono un gran bene: tutti i giorni li prendo a calci e a frustate. Mi chiamano padrone.
Ma quanti ne ha sotto?
domandò il Marocchino, incuriosito da quel tipo, piccolo di statura, di corporatura minuta e dai modi spicci.
Un migliaio a Caracas, nella costruzione dell’Hilton. Poi le negre come troie nei miei casini e i negri da buttafuori.
Don Arena tirava dal suo grosso Avana
con la noncuranza del boss. Lo sguardo sfocato, immerso nei suoi successi.
E quel piccoletto di Papillon che veniva a soffiarmi le ragazze per dar lustro alla sua topaia… e ha scritto un libro si dice…
Come è arrivato a tanta ricchezza? - domandò Piralli affascinato. - Lavorando duro all’inizio?
Lavorando? – imitò don Arena scrollandosi dal suo torpore. – È l’unica cosa che non ho mai fatto per fortuna. Se avessi lavorato non avrei avuto il tempo di pensare a come fare i quattrini. Con la mia testa ho messo sotto tutta quella plebaglia di meticci, creoli, indiani, negri. E sono miliardario.
Cerchi di fumo uscivano a intervalli fissi dalla bocca semiaperta, pronta a ulteriori chiarimenti: Sono calabrese come te, senza figli, uno stuolo di concubine… Se ti va male in Colombia, ecco qui il mio indirizzo.
Don Arena i suoi sessant’anni li portava magnificamente.
E – ci disse il Marocchino – quel bolognese che detesta i terroni, continua a essere un povero tappezziere. Ragazzi, per quello che andiamo a fare, abbiamo bisogno di modelli positivi.
Osservammo con maggiore attenzione l’ometto dai capelli bianchi, il cui sguardo d’aquila non ammetteva rovesci o cedimenti.
È un vero avventuriero.
A quell’età, così ben messo, ne deve aver fatta poca
rilevò Gino.
E ha un patrimonio
sottolineò Piralli.
Dice delle gran balle
osservò Rocco.
Dobbiamo diventare suoi amici
incalzò con un po’ d’ironia il Toscano rivolgendosi al Marocchino.
Don Arena, tranne che a Rocco, ci parve un vero colosso; i suoi esaltanti squarci di racconti ci preparavano al successo. E le speranze, tradite dai miserere
di Erminio, ripresero fiato in una aria di resurrezione.
5
La traversata ci pareva eterna: otto giorni sono lunghi senza