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Visti dalla meta siamo tutti ultimi
Azioni libro
Inizia a leggere- Editore:
- Lettere Animate Editore
- Pubblicato:
- Sep 25, 2017
- ISBN:
- 9788871121901
- Formato:
- Libro
Descrizione
Informazioni sul libro
Visti dalla meta siamo tutti ultimi
Descrizione
- Editore:
- Lettere Animate Editore
- Pubblicato:
- Sep 25, 2017
- ISBN:
- 9788871121901
- Formato:
- Libro
Informazioni sull'autore
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Anteprima del libro
Visti dalla meta siamo tutti ultimi - Francesca Picone
www.lettereanimate.com
La cura
Stamm’ sotto ‘o cielo
, si dice così al Paradisiello, dopo uno scippo. Cammini a passetti piccoli e per bene lungo via Foria, la strada principale del ritorno a casa in una sera di Carnevale e pensi che sei a posto perché hai una vita onesta, una mesata quasi assicurata, un lavoro insomma, quell’affare che affida a ogni passo un tappetino di arroccati diritti, alla faccia uno specchio di sguardi soddisfatti, alla vita un tempo scandito e feriale. Cammini, con la borsa nuova di zecca in pelle bianca e pochi passi prima di raggiungere il semaforo ti domandi se tutto questo sia tutto, quando senti uno strattone da dietro, un calcio di fianco e un grido strozzato. Il cielo diventa un compressore. La mia borsa
, riavuta la voce, dirai.
Nella mia c’era l’agenda, non quella che datava i giorni di ferie, quella non l’ho mai avuta, questa era l’agenda che portava le firme della mia avanguardistica fanciullezza, vecchia dieci anni senza nemmeno la copertina e con i fogli giallognoli dorati al bordo; il tempo del primo disincanto ancora troppo incantato per essere detto. La vedo volare invisibile nell’aria tetra e l’unica certezza che invece mi sta davanti mentre do l’addio alla mia agenda è una faccia spigolata, guance concave sotto a orbite convesse, che non ammettono repliche.
Stamm’ sotto ‘o cielo
, mi dice la barista cui domando, per favore, se posso usare il telefono. Per cosa?
Domanda.
Mi hanno appena scippato la poesia della mia fanciullezza
, le rispondo.
Stamm’ sotto ‘o cielo e lei non ha gettoni per il telefono inoltre la mia faccia ha una guancia che butta sangue sporco di terra e i miei vestiti pure sono sporchi e non sono ammessi clienti così impresentabili al suo bar; lei deve lavorare.
Oltre la soglia del buttafuori che è questo mondo un signore gentile mi dice che il numero della polizia non abbisogna di gettoni e comunque mi dà uno spicciolo, così rientro al bar, col signore stupito di vedermi gettare lo spicciolo dentro al telefono per un numero gratis, ma il signore tranquillizzato tranquillizza anche la barista che mi lascia fare e la polizia al decimo squillo risponde e dice il numero del pronto soccorso lo vuole? è ferita?
Sì, cioè, no, non mi serve l’ambulanza, è che sto chiamando solo perché il fatto è fresco di pochi minuti fa.
I miei passi retrostanti allo scippo mi dicono che posso, ne ho diritto, quindi lo dico, sì, e se loro cortesemente vengono con una di quelle macchine a sirene spiegate magari lo acciuffano, il ladro, e io ritrovo la mia agenda, perché c’erano le mie poesie dentro, e un mucchio di racconti, pure scottanti
. Ho le dita zeppe di lacrime calde, la polizia invece è bella asciutta e dice che vuole fare, stamm’ sotto ‘o cielo, e non c’è molto da fare, se proprio vuole domani può recarsi in questura o dentro un ufficio per sporgere denuncia, contro ignoti.
Dice che me ne danno una copia da portare a casa, sempre che la stampante funzioni.
Mi resta solo da percorrere tutta via Cirillo, la perpendicolare di fuga degli scippatori, larga quanto una provinciale e vuota quanto la notte, in cerca di bidoni della spazzatura, e chiamare il mio amico Rosario Mario per farmi dare una mano a cercare. Ci sovrastano casermoni grigi. Li facciamo tutti, i cassonetti, ma la mia agenda proprio non c’è.
Rosario Mario dice che vuoi fare, stamm’ sotto ‘o cielo e sai che faccia fanno i ladri a leggere le tue poesie? Magari erano poveri tossici.
Sì, vorrei essere una di loro, leggere la mia patetica poesia col faro illuminante di una sostanza benevola nei confronti delle illusioni, ma poi penso no, che io non sono loro, che invece magari si sganasciano dalle risate innanzi alla mia scrittura tonda. Se fossi in loro però io sì che me la godrei, la nebbia drogata con qualcosa da guardare in tutta una sera, magari anche due.
Meno male che hai le chiavi di casa in tasca
, dice Rosario Mario, il quale non porta fanciullezze dorate nella sua borsa e al quale al massimo hanno rubato un racconto per farci un film, il quale ha imparato la lezione del mondo editoriale, vivi e scrivi, che lui traduce, stramazzati e scrivi, siccome agli editori per giovani piacciono le vite stramazzate, allora davanti al fatto della mia disgrazia dice, bello, scrivilo! E comunque la colpa è tua
, mi fa, non si cammina lungo via Foria la sera di Carnevale quando tutte le maschere sono impegnate alle feste e la strada è vuota, e debbo imparare a convivere con la mia città
, dice, come se la mia città fosse una malattia, incurabile.
Nel ritorno a casa c’è il ricordo ancora vivo dei bordi oro, della scrittura a penna, delle vocali tonde, il tutto volatilizzato nella compressione celeste.
A parte una salita ripida a sinistra, non mi è rimasto niente. Ferma al semaforo come fossi una macchina guardo il cielo.
Che ci fai ferma là?
dice il cielo, sei rimasta tu, che è tutto.
Abbandono le braccia, è la prima volta che non ho un quaderno da scriverci sopra, neanche una penna, non ho minifoto e fogliettini, non ho borsa e portafoglio, e non ho bisogno di nulla.
Dicono tutti che stiamo sotto al cielo, invece ci stiamo proprio dentro, ma nessuno lo sa.
È una giornata meravigliosa, tanto da far venire la voglia di aspettarsi un domani. Il cielo di un azzurro limpido e lontano, incolpevole. E le nuvole, bianche, sopra le mura di tufo dell’orto botanico, si sono abbassate per darsi decine di mani asciutte.
Tutto l’universo in attesa di me. Il cielo è sceso di un gradino, come il vice del capotreno prima che porta il fischietto di chiusura porte in bocca, quando guarda su una banchina deserta l’ultimo passeggero salire in carrozza. Le nuvole sono vagoni di un treno in partenza e il muro dell’orto botanico ripara da tanto di quel sole che ti senti a un passo dal resto del mondo con la magica illusione che basti un niente per attraversarlo, il muro.
La distanza fra me e il mondo si è assottigliata di colpo, qui, con i piedi volanti e il fianco alla macelleria.
In lista, due fette di carne per scaloppina - ancora non so i diversi nomi per la carne così ogni volta devo confidare cosa cucino. E se non cucino?
Il macellaio non mi risparmia mai la vista del sangue sulla carne macilenta e quell’odore di acido mentre il retro della bottega si apre perché ne escano interiora chissà da quanto sepolte nel gelo.
Tra il cielo e la macelleria c’è come un bivio, il lancinante piacere che precede una scelta. Ma non sono a un bivio. Un sorriso alla porta di vetro della macelleria perché è una, fetente e sola nel raggio di ottocento metri almeno. Sarà per via di questo sorriso imperturbato o impenitente in bocca, ma il macellaio, che al solito prima di servirmi schiaccia una o due chiacchiere con le signore più clienti di me, non degna di uno sguardo con questi vestiti penzolanti su spalle esili, oggi va oltre, con lo sguardo, scavalca la testa della cliente, frontale di ora. Così inspiegato il suo repentino lassismo, che voglio sapere di chi si tratta, chi è la sorpassata. Capigliatura bionda, lunga, liscia, un colore naturale che non ho mai visto giù dal macellaio e nemmeno in salumeria, tanto meno lungo le scale del vicolo che abito, o che mi abita. La nuca bionda si sposta, si gira, sollevata, sorride. Ci conosciamo? Tutta questa natura curiosa di me. Non è la curiosità avvizzita e scura delle signore compaesane di vicolo che non tengono altro da fare che indagare sulle mie entrate e le mie uscite. La sua è come una stima, che mi riconosce.
Due pezzi di fegato e al diavolo le fettine di pollo da imburrare o il fianco del maiale da abbrustolire.
Insieme a fare ritorno, io e la cascata bionda, con le nostre buste di interiora in mano. Questa luce che mi scompiglia il giorno, come il cielo incolpevole che era venuto a prendermi, fa i suoi passi al mio fianco, si prende il tempo per un consiglio, non mangiare la carne di qui, io la do al cane.
E oltrepassiamo lo stesso imbocco, per salire gli stessi scalini. Un venticello ben incanalato lungo la schiena, mi fermo a prenderlo. Lei si gira verso di me ed è già la seconda volta. Non vieni?
Il vicolo senza uscita, impossibile possa superarlo, andare oltre. Il tono e le sillabe aperte di una settentrionale. Straniera come me. Ma io sono straniera in casa. Non serve giungere dal Nord, perché a Napoli basta essere nativi di un quartiere diverso per definirsi emigranti.
Possibile?
le faccio, anche tu abiti qui?
Sul riso bianco appaiono lentiggini a flotte come nocelle.
Sì, ma io non mi devo fare tutte le scale che sali tu
dice, io abito qua, vedi?
Un grosso portone ad arco, di legno, la fontanella di pietra al suo fianco, in disuso, in disparte.
E come fai a sapere sopra quale scalino abito?
Ti ho vista spesso, io, ma tu chissà dove guardi.
La fontanella non ha gettito e nemmeno un rubinetto per aprirlo, alla sua base una coppa di pietra raccoglie foglie, chissà da quanto ingiallite.
Possibile che non ti ho mai vista prima?
Eh eh, io invece ti so, vieni domani, mi fa piacere se ci facciamo due chiacchiere, abito sola, sono straniera, qui.
Proprietaria. Ho capito cosa vuol dire quando ho visto la bottiglia di champagne che l’agente immobiliare aveva conservato sotto il ripiano della sua scrivania. Mi è sembrata riapparsa da un lungo letargo, non appena ho firmato; erano almeno due anni di invenduto a voler esplodere dal tappo. Firmata la proposta, la mia decisione ha assunto il tono dell’irrevocabilità. Ma va bene così, una vera casa al posto di una catapecchia in affitto, in cambio di novantamila euro.
La signora Vera con le due figlie gemelle, dal suo piano di sopra è scesa a vedere che facevo coi fili della luce appesi e con i tubi dell’acqua arrugginiti. Contente che finalmente si cambiavano gli impianti, rendevo a norma la corrente, hanno chiuso un occhio sul soppalchino. Tanto un amministratore vero non c’è
dicono, qui siamo tutta una famiglia, ce la vediamo fra noi.
Prima di scendere dal soppalchino e andare via le due gemelle mi hanno pure fatto un sorriso di intesa, guardando i soffitti. Si sente tutto. Ma proprio tutto.
Ho scelto questa casa proprio per i soffitti alti. Ridevano davanti al pollo che non aveva capito niente. Non c’è il controsoffitto.
E cos’è un controsoffitto?
La signora Vera guardava le pareti spoglie che stavo per dipingere.
Dietro lo stucco alle pareti ho scoperto il colore antico di Napoli, un rosso pompeiano.
E brava, lo sai chi c’era a vivere qui prima di te?
No, chi c’era?
Una puttana.
Ah, doveva essere una puttana nobile. Bello, mi affascina.
Quanto ridevano.
E che prezzo ti ha fatto?
Solo novantamila.
Potevi pagarla settanta.
E visto che ho tanti soldi da spendere posso comprare i vestiti dalla signora Concetta, che vive dietro la serranda chiusa qui di fronte ed è loro zia. Tutta una famiglia anche il vicolo.
Ho dipinto le stanze, blu e verde. Primo piano: blu con la finestra e gli ospiti; piano ammezzato: verde con il salone e un soppalco, largo poco più del mio letto. Non ha due piani la mia casa, ma le stanze, visto che poggiano in due punti diversi del vicolo che sale, hanno piani diversi. Dietro, la cucina, è per metà sotto terra, anche il bagno, ma va bene così.
La signora Rosa, che è la madre della signora Vera e di tutti e vive sul piano alto, un piano alto a tutti gli effetti, ha la terra sopra la mia cucina, è gentile con me, fa la voce di una vera signora, solo con tutti gli altri ha quella voce cupa del potere napoletano quando entra nel corpo femminile incastrato dal tono maschile. La signora Rosa mi ha permesso di entrare da lei per mettere i piedi fuori al giardino che mi benedice casa, per inchiodare una rete sulla finestra della cucina, una rete di sbarramento ai topi, e nell’occasione dipingere i bordi esterni arrugginiti, e, trovandomi così vicina alla sua richiesta da non avere il tempo di pensarci, le ho dipinto anche la facciata del muro che separa il suo giardino dall’anfratto della mia cucina. Quando mi ha portato i crocché a casa ancora non sapevo se nel simbolismo napoletano un regalo del vicino fosse un gesto atto a rappresentare la generosa vicinanza o a costringere l’appartenenza alla famiglia. Non sapevo quindi se cucinargliene anche io, o solo tenermi un regalo, da ripagare ogni giorno.
L’altra figlia, la signora Maria, mia vicina di pianerottolo, ha il tono pacato e gentile con tutti, la voce sicura di chi ha studiato. Geometra del Comune, è lei a tenere i conti del condominio, a radunare le collette. L’amministratore c’è
, dice ma non c’è un vero condominio. Siamo tutti una famiglia.
La prima riunione ha avuto come primo punto l’eventualità di farmi causa e ipotecarmi la casa. Lavori mai terminati e pagati a nero per metà, ora, a distanza di più di dieci anni, pretendono il doppio della metà pagata più gli interessi, l’azienda edile non demorde e mi tocca pagare sebbene questa grande ditta non abbia mai stretto la mia mano. E per quanto mi infuriai il benvenuto mi è stato schiaffato in faccia. È la legge, questo è.
Intanto che non pagavo, vermetti pelosi e incolonnati insudiciavano il muro della mia cucina.
Così ben presto ho cominciato a pagare. A non avere potere nelle riunioni di condominio. Tangenti che non ho mai pattuito minacciavano la mia permanenza sin dal mio ingresso, dicevano, fammi vedere il contratto, il contratto dice che ti spetta pagare tutto, anche quello che era del signore andato via prima che diventassi tu la proprietaria, ti spetta tutto.
Non pago, ho detto.
Per tutto il tempo che mi sono opposta questi vermetti in colonie scendevano dal giardino della signora Rosa attraverso la finestra della cucina e tappezzavano il muro del loro marrone sudicio. O io, o loro
, dissi a Rosario Mario, che era con tutta la sua pazienza dentro la controfaccia del mio telefono e mi cantonò non sai convivere, neanche con dei vermetti.
I vermetti pelosi e zampettari non cedevano, anche se ne uccisi a flotte. Così ho ceduto alla pace finta, la prima rata l’ho pagata, anche la seconda, sono alla terza. I vermetti li ho debellati, la mia eredità pure si va disfacendo.
Domani è arrivato e mi ha messo in mano al mio appuntamento. È così che mi trovo qui, scesa a metà del vicolo, davanti a un portone di legno socchiuso da un arco. Sbircio su quest’aia antica, uno spiraglio sul verde, case basse intorno, in fila si tendono a mezzo cerchio. Dal pavimento di pietre sorgono alberi e le case, affacciate dove il sole ha deciso di stendersi e dove i gatti fanno gomitolo, si danno la mano per fare una corda.
La fontanella di pietra senza acqua e senza sfogo che ieri mi ha soggiogato, oggi non ne ha il potere; sono invitata e ci vedo la mano della straniera in questa dolce apertura. Tutta l’aia ha lasciato entrare questo vento filtrato solo perché la straniera aspetta me.
Quando ti metti a spiare uno spiraglio prima di entrare c’è sempre un dubbio che ti avverte di non fare un passo avanti. La catena delle conseguenze si infila ovunque. Almeno il primo passo, lo si dovrebbe fare in una notte senza luna e senza luci, perché ne venga una falcata libera senza incanti e senza arresti. Ora entro, diritta al centro dell’aia, ma come farò a capire di queste minuscole case quale è quella che ospita la straniera, in quale porta entrare? Mi appoggio al portone per sorreggere la testa che si fa pesante in questa domanda. Il portone si spalanca, con un cigolio che sembra uno sbadiglio. Subito dopo un cane mi annusa i piedi e non so se era lui a sbadigliare ad alta voce o il portone a cigolare. La voce della straniera chiama Janez e come prima cosa mi chiede scusa, ho lasciato il cancelletto aperto perché così capivi dove abitavo
, dice, non ho pensato che poi Janez ti veniva addosso.
Non mi è venuto addosso, ma incontro
le faccio, e poi che male c’è a dire al tuo cane di compiere tutte quelle formalità che a te non va di fare come venire ad aprirmi la porta, anzi il portone?
Ho le mani in quelle del cane che sta in piedi su due zampe. Qui la zampa
gli dico, tutto ciò che ti verrà di fare per me da oggi andrà bene.
La casa della straniera vicina di casa venuta da chissà dove, sta nell’angolo che dà la sinistra all’entrata di questo minuscolo cortile. Un terrazzino di mattonelle bianche a pianterreno, dopo un cancelletto di ferro verde con un lucchetto che anche un bimbo sa aprire. Un’amaca, dietro a un tavolo, nell’angolo del terrazzino giardino. La casa è una coppia di pareti a elle. La finestra della sua camera da letto non si affaccia al cortile spicchio di aia giardino perché non vuole; è chiusa. Una porta a vetro tutta aperta dà in cucina, la sua stanza per gli ospiti. Qui c’è lei: bianco di luce sulla maglietta, coscienza bianca.
Uau, che bel cortiletto! e che portone!
È il portone di un convento ma non vuole dirmi che fa l’eremita, è che tutto qui intorno, l’aia, era tutta un convento. Ogni casetta una cella. Lei vive nella cella più piccola.
Lei è Alessandra, ha capelli di un oro felice e si aggira pensierosa sui suoi calzini, le sue ginocchia vanno a rimboccarsi la coperta di flanella a quadri rossi, si stende seduta sul divano coperto da un telo di lino e di tre posti al massimo, contenta di dover reggere tutto il mondo solo con una canna. La guarda bene prima di aspirarla. Poi soffia come stesse espellendo il mondo intero. Contenta che per un momento è solo una canna il peso che regge. Che deve reggere. Che vuole reggere. Rimane un bagliore di passaggio nelle retine degli occhi, un lampo che ferma il tempo e si allarga, una visione che ci metterà una vita per riabituarsi al buio.
E tu che fai
, la voracità che domanda chi sei non sa chiedere altro che un mestiere, lei mi dà subito il suo, psicologa, io le dovrei dare il mio, è la prima formalità da sciogliere negli incontri dei nostri tempi, che fai nella vita, come ti guadagni da vivere, come se poi vivere non fosse altro che la conseguenza di un guadagno. Adesso non so che dire perché tutto quello che mi è rimasto, a parte i rimasugli di lavoro precario, è un’eredità. Così della mia vita guadagnata posso raccontare solo un passato. Un provenire. Una fonte sbagliata. Tu invece? Hai il tono di una che viene dal Veneto.
Se non c’è il mestiere c’è la mia postazione a ridarmi cittadinanza perché il tono smorfioso con cui ho detto Veneto è fiero della sua scortesia.
Solo per l’università sono stata a Padova
dice, e fa una smorfia anche lei. Dice che Padova è un posto di bigotti e secchioni. Io però sentivo Guccini
dice, e non studiavo mai. Davvero senti l’accento veneto?
Chiede. No
si giustifica, è che ho girato tanto che alla fine non si capisce più da dove vengo. Però sono nata a Milano. Sempre meglio che Padova.
Psicologa! e pure milanese! Due motivi buoni per filarmela viaaaa! Aiutooo!
Sorride, di vergogna, si è fatta rossa, le guance si sono arrotondate, tutti i suoi spigoli mascellari così bianchi un attimo fa, il suo sguardo così fiero del suo spaesamento straniero, sono scomparsi. Di colpo non è più una straniera, ma una di Milano. È Milano che le ha disegnato quel rosso in faccia. Che diritto ho di levarle dal cuore il suo diritto natìo?
Scusa
faccio, è solo che qui a Napoli gli pisicologi li mettono su un piedistallo, e i milanesi pure.
Lo so. A volte mi chiamano la milanese e altre volte la pisicologa.
Non ti preoccupare, qui di lavoro ne trovi; sono tutti depressi.
Il suo viso arrossato ora se la ride senza vergogna. Siamo amiche. Solo perché non le ho detto che sono depressa anch’io. O solo perché sto fumando con lei.
L’università a Padova. Il Veneto è un paese di fanatici bigotti e pure secchioni. La sua difesa sta nel porsi in basso, a un passo da me. Nessuna pretesa di altezza.
Il macellaio è amico tuo?
Le chiedo. Dalla confidenza che c’avevi.
Alludo.
No, è solo che, non è difficile come a Milano, la confidenza. E delle volte Janez fa le corse al negozio per pigliarsi la carne. Lui, il macellaio, lo lascia fare e non dice niente.
Ti rispetta, allora non sei straniera.
Conosco tutti. So anche di te. Qui ti chiamano, la scrittrice. So che scrivi.
Come?
Lo so perché, poi ti dico. Scrivi, ma non vedi tutto di quello che ti gira intorno?
Tutto cosa.
Eh, per esempio, lo sai da dove arriva la carne?
No. Non lo so. Neanche ti so dire che bestia è.
Maiali, ma non è questo, è dove sono allevati, e come! Non l’hai mai vista la casa dello studente, ex?
Non l’ho vista. Non vedo niente, qui. Ma ora c’è Ale che mi racconta quello che in quattro anni non ho avuto l’ardire di sentire, chiedere, guardare, la confidenza cui non ho mai pensato di stringere la mano, la sapienza antica abitante del vicolo da quando io manco ero nata.
Tutti gli affacci da questa parte la vedono, l’ex casa dello studente è un enorme fabbricato in abbandono perenne, e siccome alcuni soffitti mancano dalle finestre si vede il cielo. Sotto al cielo, dentro certe stanze che sono più macerie che altro, ci stanno questi maiali, a vivere dentro a un buco di ex stanza di un ex edificio adibito ad ex casa dello studente. ‘Sti maiali affacciati su una grande finestra senza stipite vedono un corridoio deserto, il tunnel di mezzo a plurime stanze ripiene di feci.
Insomma, come l’albergo dei poveri ma coi maiali dentro.
Non lo sai?
No.
Sai che si dice di te? Sei una che non si vede e non si sente.
Ah, tranquilla, come i pazzi.
Eh. Infatti solo i pazzi scappano dagli psicologi.
Un sorriso mi guarda ad occhi spalancati e domanda di non offendermi, chiede ancora amicizia.
Mmmm. Solo i pazzi studiano psicologia
, abbozzo.
Eh eh. Vero. Lo sanno tutti che scrivi, hanno paura che parli del vicolo, ma poi dicono che non è possibile; che non sai guardarti intorno. Questo è anche il vicolo degli artisti, lo sai? Ci è passato uno scultore, prima di te, e dove abiti adesso, c’era una che faceva quadri.
Ah, non era una puttana?
Ho due amici scrittori
, continua Ale, io penso alla puttana ma lei pensa ai suoi amici così non so i nomi e potrebbe finirla lì, ma proprio debbo conoscerli, dice.
Uno è Filiberto, il suo maestro filosofo, il motivo del suo volontariato, il suo capo al centro per matti psicotici e drogati.
Forse mi interessa di più conoscere questi drogati che lui, ma no, dice, proprio devo conoscerlo, Filiberto, mi piacerebbe.
E che ha scritto?
Un libro sul gruppo.
Brutta storia, sono allergica ai gruppi.
Allora Ale smette di chiamarlo gruppo e lo chiama il cerchio.
Peggio ancora.
Filiberto ti legge dentro
, dice.
Ah.
Non ha il punto di vista di uno psicologo, ma quello di un vero essere umano. La sua idea è coniugare la fenomenologia con la psichiatria.
Cioè?
Un centro a doppia diagnosi.
Ah, perché, una sola non basta?
Eh
, fa, poi ti spiego
, e mentre se la mena con la comorbidità e altre parole che non ho mai sentito, mi si svela l’intima curiosità che provo per i matti, e vada, anche per i drogati.
E come si chiama il cerchio?
Giano si chiama. Il mostro a due facce.
Gli ho parlato di te, lo sai?
Ha parlato di me al mostro, davanti a quale delle due facce?
Gli ho detto che sei scrittrice.
Aglia.
Persa l’agenda non so cosa è rimasto della me scrittrice.
No, perché? Lui è entusiasta, vuole conoscerti. Abbiamo provato a fare un laboratorio di scrittura al Giano, è venuto uno studente, un ragazzino per la verità. Ha fallito. I ragazzi non si coinvolgevano perché lui, l’intellettuale, non si è coinvolto. Ma tu non sei così, lo so. Mi sembra di conoscerti da sempre.
E come fai?
Sorpresa.
Cosa?
Ho trovato questo, è tuo?
Questo è il penultimo foglio dell’agenda. Il bordo indorato manco si nota su una pagina sola ma la riconosco, la mia agenda, dalla calligrafia piccola e incacchiata. È una cosa sul Paradisiello.
Come hai fatto?
Non importa, l’ho trovato. È tuo.
Era, mio. La guardo di sott’occhio e non c’è bisogno che parlo, capisce. Sì, l’ho letto
, dice.
Non rispondo perché sono troppe le cose che vorrei dire e non dico. Non domando.
È che anche io ero come te.
Questo è il motivo per cui riesce a guardarmi con quella comprensione che nutre simpatia senza scadere in pietà. Era come me. E cosa faceva Ale quando era come me? Andava a fare la spesa dal salumiere e tutta imbarazzata diceva, eh, eh, ha detto mamma, fa.
Io non ce l’ho una mamma.
Lo so
, dice.
Non parla il suo sguardo diretto, appena un sorriso di amore che le fa dire più di quel che so, di me.
E l’altro? L’altro scrittore?
Abita qua, sopra a tutto.
Sopra a tutto ci abito io.
No, prima della curva che sale da te, nel parco.
Non l’ho mai visto il parco, io quando arrivo lì mi giro e guardo il panorama.
Ale dice che lo sa. Proprio nei dettagli è andata a sbirciarmi. Dice, "perciò non conosci nessuno.
Si chiama Romualdo. Neanche di lui ho sentito parlare.
È un filosofo."
Uà, tutta quest’esistenza al Paradisiello e non me n’ero accorta.
Ah ah ah. Vedi che appena esci da qua ti guardano in maniera diversa. Ora tutti sanno che sei amica mia. La vuoi una birra? Mi è finita ma scendo a comprarla.
No, è che devo andare. Appuntamento con un amico. A proposito, ma che ora è?
Il tempo mi ha fatto il regalo di fermarsi, mi credevo già in ritardo invece manca ancora mezz’ora.
Il tempo di guardare le foto su come era prima, le sue guance paffute e un po’ timide a Milano, vedi? Anche io ero come te
, dice.
Come te come?
Io non so quando sono mai stata paffuta.
Come te occhi grandi, ingenui
, dice. Come te viso smunto e un naso ch’è un affronto alla bellezza, capelli intricati e un portamento sciatto, traballante, traduco. Come te fino all’Università
, conclude.
E poi?
Il tempo di svelarmi il segreto del passaggio, dalle foto di lei al suo corpo che si sente a casa, grazie a una canna, un plaid e un divano.
Le prime vere amiche. Nascoste nel bagno a fumare uno spinello. Le prime confidenze su una tazza del cesso, chiusa, capovolta. Non è che facevano le loro cose lì. Si confidavano.
Il tempo di tornare alla solita me.
Come te con tanti pensieri che non osano parlare con nessuno, con tanti sogni che non osano uscire allo scoperto, con tanti sguardi che non fanno conoscenza.
Aspetta, esco fuori, sulla soglia dell’aia mi affaccio e fisso una casupola bassa, senza intonaco, ha una porticina di ferro arrugginito, ammezzata, sgangherata quanto basta per fare che un telo di cotone ritagliato a rettangolo svolazzi sopra di lei, come le ante di una finestra al vento.
Guardo l’ora e non riesco a credere che il tempo non fa un passo mentre io ne faccio mille. Allora rientro, tempo di vedere tutto un film, anzi due, tre, forse più.
Ale mi chiede, l’hai vista?
Sì, che bel cortile.
Non l’aia, e grazie che l’hai vista, no, quella casupola.
Quel basso, sì.
Un basso, però libero dai piani superiori, un basso e basta.
Hai visto come sta mal ridotto? Prima era peggio. Un giorno chiedo al proprietario e ci entriamo, ci abitava una matta, ma una matta vera, io l’ho vista, stava qua fuori al portone a chiamare la signora che vive di sopra, chiamava, chiamava, la signora non rispondeva e le finestre erano chiuse ma lei continuava a chiamare, proprio una matta, ma una matta vera.
Devo stare attenta. Basta una speranza ingenua davanti a una porta chiusa a
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