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Al di là di noi
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Al di là di noi

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Narrativa - romanzo (161 pagine) - “Cos’è che ci unisce? La pace, la felicità, a volte la rabbia. Altre volte è molto di più: è qualcosa che non si può fermare, che va oltre la ragione. Qualcosa che va al di là di noi.”


Bologna, 1996. Giulia è una studentessa fuori sede che si trova a condividere un appartamento in Via Fondazza con altri giovani universitari come lei. Tra questi ci sono anche Ernesto e Irvin: due ragazzi dal passato oscuro, tanto simili ma anche tanto diversi l’uno dall’altro. Dove si sono conosciuti? Cos’è che li unisce così profondamente? Cos’è che li tormenta? La verità che viene a galla alla fine è sconvolgente: Irvin è un sopravvissuto alla strage di Srebrenica. Mentre Giulia impara a conoscerli un pezzo alla volta, scoprendo allo stesso tempo tutti i retroscena della Guerra in Bosnia, i tre si affiatano in un legame che sembra indissolubile, in qualcosa che va al di là dell’amicizia. Giulia è il collante, è il terzo elemento che salda l’unione, la calce che unisce i mattoni friabili. E insieme ricostruiscono un microcosmo che sembra resistere a tutto, fino a quando non viene fuori un’altra realtà terribile alla quale è impossibile fare fronte. È la debolezza umana che si riaffaccia con violenti colpi di coda. Il romanzo si snoda agilmente tra un colpo di scena e l’altro, con uno stile fresco e asciutto che l’autrice indossa come una giacca comoda. L’effetto page turning è assicurato.


Serena Pochi nasce a Montegiorgio, a pochi passi dal Mare Adriatico e dal Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Dopo il diploma di Maturità Scientifica si trasferisce a Bologna e si laurea in Ingegneria Informatica. Oggi vive con la famiglia nel paese natale e insegna alla scuola secondaria. Nel 2016 debutta con Undici Anni. Questo Al di là di noi è il suo secondo romanzo.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 26, 2017
ISBN9788825403121
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    Al di là di noi - Serena Pochi

    romanzo.

    Capitolo I

    Bologna, 1999

    Sono in piedi, impietrita, con la mano sinistra appoggiata al lavandino, gli occhi fissi sulla ceramica bianca macchiata da gocce di sangue. La siringa nella destra, le dita appena socchiuse. Ci sono schizzi dappertutto: sul pavimento, sullo specchio, sulle pareti. Avverto un tremore alle ginocchia. Poi l’odore dolciastro e ammuffito mi penetra nelle narici fino alla testa, che comincia a girare vorticosamente. Sento le gambe diventare leggere e il respiro incrinarsi in un conato violento. Faccio due passi indietro, fino a sbattere con la schiena contro il muro. Chiudo gli occhi e mi accascio scivolando lungo la parete, seduta su un lago di urina. Il fischio nelle orecchie mi buca il cervello.

    Bologna, 1996

    Alla fine ho deciso di caricare l’aspirapolvere sul treno. Non ci vedo niente di strano. Solo che ora, mentre vado avanti e indietro lungo il corridoio con tutti questi bagagli, mi morderei le dita per non aver dato ascolto a mio padre.

    – Dai, ti accompagno in macchina! Come fai con tutta questa roba? – mi ha detto poco prima di partire da Reggio Emilia, salutandomi sul binario. Ma io, come al solito, ho fatto di testa mia cacciandomi in quest’impresa.

    Quando il treno si ferma sul binario nove della stazione Centrale, sono già pronta davanti la porta della carrozza con tutte le mie cose e cerco di scendere il più in fretta possibile. Alcuni viaggiatori mi osservano sbigottiti, con un’espressione a metà tra il divertito e lo sconvolto. Forse è l’aspirapolvere ad attirare la loro attenzione, oppure la valigia arancione; chi se ne importa. Passo loro accanto incurante degli sguardi impudichi.

    Scendo nel sottopassaggio e, mentre il flusso di gente scorre verso l’uscita principale, io, carica come un mulo, mi dirigo nel verso opposto: la fermata del mio autobus si trova dietro la stazione, in via de’ Carracci. Una strada angusta, costeggiata da alti pannelli di plastica e disseminata da centinaia di biciclette, molte arrugginite e a pezzi. Mi trascino su per le scale del sottopassaggio, con l’aspirapolvere che pesa sulla spalla, e attraverso la strada sulle strisce pedonali. Noto che l’undici sta svoltando proprio ora all’incrocio. Si avvicina lentamente. Meno male che non dovrò aspettare da sola sotto la pensilina: a quest’ora la via sembra una strada abbandonata. L’autobus si ferma con un cigolio di freni e le porte si aprono sbuffando aria compressa. Salgo a bordo, accatasto i bagagli su una coppia di sedili e sprofondo nella poltroncina, una di quelle riservate accanto all’uscita. Il cartello con le tre figure stilizzate, una con il bastone, una con un bambino in grembo e l’ultima raffigurante una donna incinta, mi ammonisce da sotto il finestrino. Io mi guardo intorno ma le linee periferiche, a quest’ora della sera, sono popolate solo dai senzatetto abbandonati sui sedili, addormentati dentro i loro cappucci, mentre gli autisti li traghettano da un capolinea a un altro, in attesa che si faccia giorno e il freddo diventi meno pungente per tornare in strada. Ce n’è uno seduto, che passa il tempo rollando uno spinello: cartina appoggiata sulle gambe e mani impegnate con un accendino e il pezzetto di hashish da squagliare. In questo autobus, con i miei bagagli, i miei libri, la mia aspirapolvere e lo spray al peperoncino in tasca, mi sento la persona più normale di tutte.

    All’incrocio con via Della Beverara mi assicuro che l’aspirapolvere non cada lungo il corridoio e prenoto la fermata schiacciando il pulsante rosso alle mie spalle. Due ore di viaggio e ancora non sono arrivata a casa. Il treno, l’autobus. Sali, scendi; carica, scarica. Non ne posso più! Sono assalita dalla vaga impressione di essere in un incubo, uno di quelli in cui ci si perde, si gira per ore lungo la stessa strada, cercando di raggiungere la destinazione senza riuscirci.

    Chiudo gli occhi e resto così per alcuni secondi. Quanto mi manca il mio vecchio studentato! Se abitassi ancora al Carducci a quest’ora sarei già rientrata a casa da un pezzo. Al quarto piano del palazzo con le serrande azzurre c’è il bilocale striminzito in cui ho vissuto l’anno scorso. Un appartamento piccolo e angusto. Una camera, un cucinino con la porta a soffietto e un bagno che si allagava sempre. Ciò nonostante, mi trovavo bene. L’edificio si trova in una zona di Bologna squallida ma comoda. Proprio di fronte, di là dai binari, c’è il Livello 57, in una serie di capannoni industriali lungo la ferrovia, sui quali campeggiano murales e graffiti. Il centro sociale va per la maggiore, tra i giovani appassionati di musica alternativa appartenenti a strutture come Radio K Centrale e Grafton 9. Il sabato sera incontravo flotte di ragazzi lungo la strada in direzione del locale e mi ripromettevo di andarci almeno una volta, per ascoltare musica diversa e incontrare gente nuova. Poteva essere interessante. La mattina li incrociavo di nuovo, mentre si trascinavano a casa rischiando, a ogni passo, di perdere i pantaloni. Io dal Carducci, una volta salite le scale che sbucavano sul ponte di Stalingrado, dopo duecento metri di smog ero già sui viali all’altezza di Porta Mascarella, praticamente in centro.

    Il Battiferro invece si trova sperduto in piena periferia, nei pressi del Navile. Tutta la zona prende il nome da un’officina per la lavorazione del ferro. Dopo secoli, tutto l’impianto è stato ceduto all’ENEL e ora, dismesso da oltre quarant’anni, giace in condizioni fatiscenti. Di tutti i macchinari sopravvive soltanto l’enorme turbina idraulica, sepolta da montagne di rifiuti, che svetta tra i caseggiati intorno.

    Riapro gli occhi e la noto da lontano attraverso il vetro del finestrino: un’ombra nera che si staglia contro il cielo, alla luce della luna. È il segnale che mi indica che sono vicina alla mia fermata. L’autobus comincia a rallentare e, solo quando è immobile, mi metto la borsa in spalla, prendo il bagaglio con la sinistra e l’aspirapolvere con la destra e scendo cercando di passare inosservata agli occhi degli altri passeggeri. Per fortuna, a differenza di quelli che ho visto ridacchiare in treno, nessuno si accorge di me e dell’inevitabile trambusto che faccio per trascinarmi dietro tutta questa roba.

    Mentre cammino sull’asfalto fratturato, lungo la via secondaria che conduce al complesso di casette a schiera, vedo già le sagome dei ragazzi affacciati ai balconi. La strada è deserta e l’unico lampione che c’è emette una luce a intermittenza irregolare e un crepitio sinistro. Le piccole ruote della valigia strepitano sul selciato e si bloccano di continuo.

    All’improvviso mi assale la sensazione di essere seguita. Il dubbio diventa certezza quando l’eco del suono di passi si diffonde dal vicolo, a pochi metri da me. Mi fermo e aguzzo l’udito sperando di essermi sbagliata ma i miei dubbi diventano certezze. Il rumore dei passi diventa più veloce. Sembra che ci sia qualcuno che corre verso di me.

    – Aiuto! – grido sperando che gli amici mi sentano. – Aiuto! – urlo forte, presa dal panico. L’ansia mi blocca: freneticamente mi guardo intorno in cerca di idee. Mi arresto, aspettando che qualcuno sbuchi dalla strada. Appoggio la valigia a terra, cerco nella borsa, ci rovisto convulsamente dentro con le dita. Maledetta borsa! Straripa di roba da buttare. Finalmente trovo la bomboletta dello spray urticante, l’afferro e la punto dritta davanti a me. Con la mano sinistra brandisco insicura l’aspirapolvere, pronta per scagliarla. Mi giro su me stessa, ripetutamente. Le ginocchia sembrano cedere.

    Prima ancora che riesca a scorgere una figura o un movimento, qualcuno mi raggiunge: mi travolge con una spallata facendomi cadere a terra. È una montagna d’uomo con un berretto calato sopra gli occhi. Rallenta la corsa solo per raccogliere la mia borsa che, cadendo, è finita a qualche metro da me.

    – Fermo! Al ladro! – urlo, mentre l’uomo scappa via come un centometrista nonostante la stazza.

    – Fermo! Fermati! – mi fanno eco gli amici che, sentite le mia urla, stanno arrivando di corsa.

    L’uomo si dilegua in pochi secondi. Sento un bruciore forte a un ginocchio ma, più di tutto, sento le fiamme della rabbia nel petto. Penso alla borsa, al portafogli, ai documenti: tutto perduto. Faccio leva sui palmi per sollevarmi tirando su con il naso e ricacciando le lacrime nel dotto. Quando sono in piedi mi trovo faccia a faccia con Giuseppe.

    – Ma che è successo? – mi chiede con voce trafelata.

    Dietro, da lontano, ci raggiungono anche Sonia e Mauro.

    – Mi hanno scippata – rispondo scrollandomi la polvere dai pantaloni. Una polvere che non c’è. – Era un gigante: non sono riuscita a difendermi.

    Rimetto in piedi la valigia mordendomi le labbra. Mi accorgo che ho i jeans strappati all’altezza del ginocchio e un’abrasione profonda sulla pelle.

    – Oh, no – farfuglio.

    – Dai, ti aiuto io – mi dice Sonia afferrando la maniglia della valigia. Giuseppe si carica in spalla l’aspirapolvere.

    – Ci mancava solo questa! – esclamo, soffiando fuori dai polmoni tutta l’aria che mi gonfia di tensione. Mi stringo le braccia attorno al corpo, insultando me stessa, la mia ottusità. Ripenso alle parole di papà: Sei testarda come un mulo. Ha davvero ragione.

    Quando saliamo la prima rampa di scale esterne che portano al nostro appartamento, gli altri amici ci vengono incontro. Ci prendono i bagagli e ci aiutano a portarli dentro. L’appartamento è ampio e la cucina molto spaziosa. Mi aiutano a mettermi seduta su una sedia. Sonia va a prendere qualcosa per medicare la ferita.

    – Ma che è successo? – chiedono incuriositi.

    – Uno stronzo l’ha scippata e l’ha fatta cadere a terra. Per fortuna è solo un’abrasione – risponde Giuseppe.

    – Domani mi toccherà andare dai carabinieri. Devo fare la denuncia – dico emettendo un sospiro.

    – Quanto avevi nel portafogli? – mi chiede Mauro.

    – Centomila lire e qualche spicciolo. Ma non è questo che mi preoccupa. Il problema è che qua non mi sento sicura per niente.

    – Nemmeno io… – dice Sonia mentre mi disinfetta il ginocchio. L’acqua ossigenata che acutizza il dolore mi fa saltare sulla sedia.

    – Ahi, che male.

    – Io l’ho sempre detto che questo quartiere fa schifo – ribatte Giuseppe.

    In pochi minuti tutti s’immergono di nuovo nei propri interessi: c’è chi guarda la tv, chi legge un libro, chi chiacchiera. Giuseppe ha da fare con lo stereo portatile: fa scorrere avanti e indietro il nastro di una cassetta come fosse un passatempo.

    Mi alzo in piedi e provo a fare qualche passo. Distendo la gamba, poi la piego. La ferita al ginocchio non è grave: quello che mi preoccupa è la lacerazione che mi si sta aprendo dentro. La paura che possa accadere di nuovo, la preoccupazione dei soldi rubati, dei documenti persi. Ho bisogno di qualcosa di caldo che mi calmi.

    – Volete una tazza di camomilla? – chiedo loro.

    – Una camomilla? Tu sei pazza! – Giuseppe ferma lo stereo e mi guarda con un sorriso di scherno. – Sonia, vedi cosa c’è di meglio in frigo!

    Sonia prende alcune bottiglie di birra e condisce le friselle. Sono talmente buone come le fa lei, con la salsa di pomodoro e l’erba cipollina, che le mangiamo volentieri a tutte le ore.

    Ci sediamo intorno al tavolo a chiacchierare. Osservo la bocca degli altri che si apre emettendo suoni che non arrivano alle mie orecchie. Le mani che mi toccano un braccio, una spalla, in segno di solidarietà. Abbasso lo sguardo su quelle dita che mi sfiorano ma non le percepisco addosso. Sono assente: il mio corpo è qui ma la mia mente è rimasta fuori, lungo la via, distesa sull’asfalto.

    – Non stai bene? – mi chiede all’improvviso Sonia. La domanda mi riporta qui, in questo momento, e mi rendo conto che, quasi inconsciamente, ho preso una decisione.

    – Ragazzi, io me ne vado…

    Magicamente il silenzio cala nella stanza come un velo invisibile. Osservo il volto di Giuseppe e Mauro che mi stanno scrutando immobili. Abbasso lo sguardo imbarazzata e, tra le labbra socchiuse, escono le ultime parole della frase che avevo iniziato: – Torno in centro, in un quartiere più sicuro.

    Capitolo II

    Le colonne dei portici dirimpetto alle università sono tappezzate di annunci d’affitto. Giro in via Zamboni strappando dozzine di volantini. Li seleziono, leggo attentamente le condizioni. Trascrivo i numeri e, con le tasche piene di foglietti, comincio a chiamare dalla prima cabina telefonica che trovo in Piazza Aldrovandi. Alcuni li straccio, altri li evidenzio aggiungendo appunti a penna. Prendo qualche appuntamento: saluti e strette di mano. L’unico posto che riesco a trovare in centro e a un costo abbordabile è un appartamento in via Fondazza.

    Prima di trasferirmi saluto Sonia, Giuseppe e tutti gli altri amici dello studentato, con l’intenzione di rimanere in contatto e di sentirci spesso; ci scambiamo i numeri di telefono, gli indirizzi email. Organizzo una cena d’addio, anche se le cene d’addio non mi piacciono per niente. Allora la chiamo l’ultima cena, perché siamo in tredici, proprio come Gesù con gli apostoli e ci ridiamo su, chiedendoci chi sia il Giuda della situazione. Giuda non viene fuori e allora facciamo il gioco della bottiglia sull’argomento Tradimenti, ma ridiamo troppo per prenderlo sul serio. Bevo un po’ con l’intenzione di scacciare la malinconia che aleggia nell’aria.

    La mattina dopo raccolgo tutta la mia roba e chiamo un taxi: – Uno con il portabagagli capiente – dico alla signora che mi risponde al centralino. – Ci devo caricare l’aspirapolvere.

    – Che cosa? – mi risponde lei.

    – L’aspirapolvere, signora – ribadisco; questa volta sembra aver capito. Non è da me spendere soldi per un taxi ma decido di farlo per due motivi: un po’ perché non ne avrò più bisogno, un po’ per sbeffeggiare l’undici. Non mi vedrai mai più, bastardo penso mentre, allontanandomi a bordo del monovolume bianco, lo osservo mentre riparte dalla fermata.

    Ora sono in questa nuova casa da appena due settimane e ho già capito che laurearmi in corso, in queste condizioni, sarà un’impresa impossibile. A una prima occhiata non ho intuito quanto sarebbe stato difficile vivere, e soprattutto studiare, in un appartamento con due camere triple. Eppure mi è piaciuto a tal punto che me ne sono innamorata fin da subito: è stato un colpo di fulmine. L’arredamento è semplice ma raffinato. Nella mia stanza c’è un tavolo rotondo di legno molto spazioso e in cucina ci sono un frigorifero grande e il forno a microonde: privilegio molto raro in un appartamento di studenti universitari. Ma il vero dettaglio che ha fatto scattare la scintilla è il cortile privato cui si accede dal corridoio. Appena ci si mette piede è come approdare in una dimensione lontana: non si sta più nel 1996 a Bologna, ma in un luogo senza tempo. Sulla destra del cortile c’è l’ingresso di un trilocale con una camera singola e una doppia. Tutto è moltiplicato per ognuno di noi: sei rotoli di carta igienica in bagno, sei tubetti di dentifricio, sei barattoli di zucchero, sei bottiglie d’olio, sei scomparti nella dispensa, una quantità indefinita di pentole, posate e piatti tutti diversi tra loro. Molti crepati, scheggiati, superstiti di vecchi servizi.

    È un continuo viavai. Spesso ci ritroviamo in cucina, seduti intorno al tavolo, a parlare. Ogni argomento è buono. L’ultimo album degli U2, l’incendio della Fenice a Venezia, il prezzo dello Star Tac che scende, i nuovi giochi della Nintendo 64, la vittoria della Germania ai campionati europei, la Repubblica Ceca che entra a far parte dell’UE. Durante le giornate assolate, invece, quando i raggi tiepidi scaldano il selciato, ci ritroviamo nel cortile a fumare, bevendo una bottiglia di birra e ascoltando la musica che proviene dalle finestre aperte degli appartamenti dei piani superiori. Ci sediamo sulle panchine di ferro battuto e, a volte, non parliamo per niente.

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