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Le ali del serpente
Le ali del serpente
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Le ali del serpente

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Narrativa - romanzo (260 pagine) - Durante il conflitto tra civiltà rinascimentale e oscurantismo, un complotto ordito da misteriosi individui vuole prendere il potere nel mondo e instaurare un nuovo ordine.


In un 1500 alternativo, la Serenissima Unione delle Repubbliche d'Italia e i suoi alleati, Francia e Impero, si trovano ad affrontare la minaccia di una congrega che adora una divinità simile a un serpente alato. Una lotta senza quartiere in tre continenti tra navi volanti a vapore e armi sconosciute e micidiali e, dietro le quinte, intrighi, attentati e spionaggio orditi da Spagna e Inghilterra, acerrime nemiche della civiltà rinascimentale, anche loro ignari bersagli degli adoratori del Serpente Alato.


Paolo Ninzatti è nato a Milano nel 1950. Oggi vive a Tommerup, nell'isola di Fionia in Danimarca. Pedagogista in pensione, suona in diverse band, o come solista. Presente in diverse antologie edite da Delos Books, Edizioni Scudo, Alcheringa, Reverie, Montecovello, ha scritto la sceneggiatura dei fumetti Oltre il Cielo e Il Megalito di Giorgio Sangiorgi, tradotti anche in danese. Da un'idea di Sangiorgi ha pubblicato il romanzo La nuova stella. Con Delos Digital ha pubblicato i romanzi Il volo del leone, Missione Medea e La grande rapina a Trainville, scritto a quattro mani con Alain Voudì, oltre a un racconto fantascientifico per la collana Futuro Presente.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateSep 19, 2017
ISBN9788825403107
Le ali del serpente

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    Le ali del serpente - Paolo Ninzatti

    9788825402773

    Parte prima: Dall'Ombra alla Luce

    1

    A.D. 1509, maggio

    La pioggia infieriva violenta sferzando il ponte, le fiancate e lo scafo. Le forze della natura si erano scatenate lanciando migliaia di dardi bagnati che non risparmiavano niente. Oasi di asciutta sicurezza, la cabina del quartier generale gemeva squassata dalla tempesta che infuriava. La finestra sembrava un quadro animato raffigurante un paesaggio plumbeo e terrificante. Un fulmine squarciò il tetro panorama.

    Angelo Santus vide il riflesso del lampo baluginare sulla barba e la chioma argentea di Ferruccio Alberti. Il comandante sembrò per un attimo un profeta baciato da luce divina; la stessa luce colpì anche la testa calva di Vittorio Fiamma, il secondo, il candido onor di mento e l'occhio di vetro di Murano, conferendogli un aspetto da dio norreno. Al lampo seguì il fragore di un tuono che parve squassare il mondo intero.

    Niente sembrò scomporre la calma del comandante né la grinta del secondo, ma ciò che infuse ancora più coraggio ad Angelo fu l'espressione quasi divertita di Placido e Guerrino, identica, sincronizzata, perenne sensazione di veder doppio.

    Chiuso lì dentro, lontano dagli spazi aperti, Angelo si sentiva spaesato. Un tempo aveva temuto i luoghi angusti ma era riuscito a mitigare quella fobia. Di più non poteva combattere la propria natura. Continuò a pensare che fuori di lì, da qualche parte, esisteva il cielo.

    Una serie di tuoni lontani e ovattati interruppe i suoi pensieri e la calma di Ferruccio Alberti. La sicumera di Guerrino sembrò vacillare. Placido parve invece eccitarsi al rombo dei cannoni francesi. La grinta di Fiamma si fece ancora più aggressiva ostentando voglia di menar le mani. Nel volto del comandante si poteva invece leggere il rammarico per essere costretto a combattere; esso si tradusse in parole scandite e quasi urlate per coprire il frastuono della pioggia, delle nuove salve delle artiglierie di Luigi XII, degli sbuffi di vapore e del ticchettio degli ingranaggi appena udibile in tutto quel caos.

    – È inevitabile, oramai! Siamo costretti a intervenire, a inserirci nella Storia, a uscire dal nostro nascondiglio. Avrei voluto aspettare ancora, ma se vogliamo salvare Venezia dobbiamo agire. Ve lo aspettavate del resto, no?

    Un'altra salva di cannoni fece da sottofondo. Ai tuoni di Francia si aggiunsero quelli di Giove Pluvio. Sembrava che anche Madre Natura si fosse alleata coi nemici della Serenissima Repubblica di Venezia.

    Con sarcasmo nella voce, Ferruccio declamò, condividendo quella sensazione: – Dio sta dalla parte dei nostri nemici. Sua Santità deve aver recitato qualche preghiera in più. Non gli bastavano Francia, Impero, Spagna e gli altri lacché italiani! Siamo soli contro il mondo!

    Le ultime parole vennero pronunciate con furia. Sembrava che il comandante parlasse sia a loro che a se stesso, esprimendo la rabbia di dover essere costretto a gettarsi in un conflitto armato. Anche Angelo odiava guerre e violenza, ma, maledizione, quando si avevano tutti contro e la propria terra era in pericolo, bisognava combattere!

    Il comandante si alzò, risoluto, afferrò un tubo metallico e vi urlò dentro: – Virate a babordo e scendete di un miglio e mezzo, quota iperscopio. Issate a bordo la vedetta e mandatemela subito!

    Passarono minuti.

    Bussarono alla porta. Alberti urlò di entrare con tono spazientito. Un uomo con la mantella bagnata fradicia si affrettò all'interno e all'asciutto.

    Dopo averlo invitato a sedersi, il comandante gli presentò un foglio di carta e una penna. Quello si asciugò le mani e tracciò uno schizzo. Il disegno prese forma, mostrando un lungo serpente e un paio di frecce indicative.

    La vedetta prese parola: – Comandante, ecco il nostro esercito in ritirata. Come potete vedere, i francesi stanno attaccando le retroguardie di D'Alviano. Ora vi mostro gli ultimi sviluppi prima che fossi issato a bordo.

    Un paio di frecce e linee mostravano ora il serpente spezzarsi in due. Un nuovo schizzo mostrò metà di esso proseguire verso il villaggio di Pandino, mentre la coda si frammentava in un contrattacco.

    Alberti fu risoluto a interpretare gli schizzi della vedetta.

    – Sotto di noi si stanno svolgendo atti sia di coraggio che di codardia. Il conte Orsini, ligio agli ordini del Senato, sta proseguendo imperterrito la sua ritirata col fior fiore delle truppe. D'Alviano, invece, sta lanciando le retroguardie al contrattacco contro gli invasori, in barba agli ordini assurdi di quella masnada di inetti!

    Si rivolse ad Angelo: – Caposquadriglia Santus e aeronauti Placido e Guerrino Cesani, sosterrete il contrattacco di D'Alviano. Concentrate il fuoco degli organi a mitraglia sulla cavalleria pesante e sugli svizzeri; e fate saltare in aria quegli stramaledetti cannoni!

    Gli occhi di Placido si infiammarono. Spontaneamente, si alzò prima ancora che il comandante desse l'ordine: – Andate, per San Marco!

    Angelo si costrinse a correre più forte di Placido. Scesero la scala che conduceva al ponte sottostante, passarono tra le truppe da sbarco già schierate. Metà si mise sull'attenti, mostrando rispetto. L'altra metà restò immobile; erano gli automini, la cui anima di molle e ingranaggi non provava alcun sentimento, paura, coraggio, amor di patria che fosse. Ferraglia da cannoni.

    Scesero ulteriormente arrivando al ponte inferiore. Tre ornitotteri, marchingegni con ali da pipistrello di tela e legno, erano sospesi al soffitto. I tre aeronauti si arrampicarono a bordo emulando le scimmie dell'Africa o dell'Asia lontane.

    Angelo si mise l'elmo con la visiera di vetro di Murano. Lanciò a turno uno sguardo a ciascuno dei suoi compagni; Guerrino sembrava condividere il suo dilemma: niente paura del volo né del nemico, soltanto rammarico di dover uccidere. Placido, al contrario, guardava con avidità gli archibugi a ripetizione appesi a ciascuna ala e le micidiali bombe volanti a ogiva. A lui l'onore di far strage di francesi e svizzeri prima che questi annientassero i veneziani.

    Un argano fece aprire il pavimento sotto di loro. Per Angelo fu come si fosse spalancata una porta orizzontale su un nuovo universo. Pur seminascosto dalle nuvole, il panorama della Pianura Padana, un paio di miglia sotto di loro, sembrava un dipinto. Niente di nuovo, pensandoci bene. Per anni aveva volato con sole, pioggia o vento. Dal lontano 1503 aveva compiuto esercitazioni a volte rischiose e rompicollo nell'elemento in cui lui si trovava perfettamente a suo agio: il cielo. Tante volte era stato sganciato da un'aeronave in volo, un'operazione che lui sapeva ormai compiere a occhi chiusi.

    Soltanto pochi attimi prima di immergersi nel vuoto, Angelo si rese conto che di lì a poco lui e i due gemelli avrebbero contribuito alle sorti di qualcosa di molto più grande dell'ebbrezza del volo.

    La gioventù stava finendo. La maturità, con le sue responsabilità, era sotto di lui. In quel breve attimo gli vennero in mente gli eventi che l'avevano portato fin lì, a far parte del disegno impescrutabile del comandante Ferruccio Alberti.

    Angelo amava gli spazi liberi. La sorte gli aveva donato il privilegio di nascere in un borgo montano, a due passi da cime impervie che lui amava scalare senza timore del vuoto; una passione, quasi una vocazione, che egli aveva avuto fin da quando era un fanciullo. Il sogno di volare esisteva fin d'allora, prima ancora che le macchine di Leonardo da Vinci entrassero a far parte della sua realtà quotidiana. Un segreto ancora negato al mondo.

    Destino.

    Ferruccio Alberti, regista nell'ombra di piani oscuri, aveva allestito una fabbrica nel cuore di una grotta nelle viscere di una montagna, proprio dove quel Leonardo aveva diretto la costruzione di macchine di ogni tipo. A quei tempi Angelo esercitava il mestiere di falegname, nel borgo alle falde di quel monte. Ferruccio Alberti, meglio conosciuto come Ferruccio da Padova, era stato il fondatore di una delle tante accademie che pullulavano per l'Italia. Arte e letteratura per il mondo. Fumo negli occhi per preparare invece armi segrete che secondo lui dovevano soltanto avere il fine di difendere la civiltà e l'Italia dallo straniero quand'ora egli si fosse affacciato al di qua delle Alpi.

    Lo spirito di Ferruccio aleggiava nelle contrade della Serenissima Repubblica di Venezia. Il suo grande disegno era sempre stato davanti ad Angelo prima ancora di conoscerlo di persona. La scuola dell'obbligo che l'aveva elevato dall'analfabetismo era stata una sua proposta al Senato di Venezia. Fin dalla giovane età aveva divorato i romanzi d'avventure delle Edizioni Aldine, grazie ai quali era stato come convertito a sua insaputa alla causa del progresso. Il romanzo Magnus il Cavalcatore di Draghi era in realtà un libro che introduceva la tecnica di come manovrare un ornitottero. Da dietro le quinte, Ferruccio aveva orchestrato per arruolare tra le sue fila oltre a Leonardo da Vinci, l'editore Aldo Manuzio. L'altro libro più letto, specie tra i giovani, La Spada d'Oriente, era invece un'allegoria. Kasim, il giovane protagonista che combatteva per la riunificazione del Califfato, ossia di tutti i popoli di lingua e cultura araba. La propaganda alla necessità di unificare l'Italia per proteggerne la civiltà dal pericolo di probabili invasioni straniere era nascosta tra le righe.

    Gli vennero i brividi nel dubbio che Ferruccio avesse poteri vaticinanti. Là sotto, tutti i timori del vecchio comandante si stavano avverando. Lo stesso re di Francia comandava le truppe che avevano varcato il confine. Il suo alleato Massimiliano d'Asburgo aveva sguinzagliato i lanzichenecchi tedeschi che, novelli barbari, stavano calando dal nord. Gli spagnoli, dal canto loro, stavano andando in soccorso alla preponderanza nemica mirando a strappare i porti pugliesi in mano alla Serenissima per consolidare il possesso del Regno di Napoli. Tutti istigati da Sua Santità Giulio II Della Rovere che aveva lanciato la scomunica contro la Repubblica. Angelo non aveva molta simpatia per preti e papi. Quella furia umana che amava farsi ritrarre con la spada in pugno in nome di Dio poteva ingannare anche i re del mondo, ma Angelo, grazie alla cultura che si era fatto leggendo, vedeva chiaramente che il papa mirava alla conquista dell'Italia, Venezia compresa. Anche il suo predecessore, Alessandro VI, Rodrigo Borgia, aveva tentato di estendere il proprio potere sulla penisola mediante intrighi e la complicità della sua longa manus, il figlio illegittimo Cesare, da lui designato signore della Romagna.

    L'ambizioso piano di Rodrigo e Cesare Borgia era caduto come un castello di carte alla morte del papa. Il nuovo pontefice Giulio II aveva tolto la Romagna a Cesare, l'aveva fatto arrestare e deportare in Spagna. Eliminato il rivale, stava ora andando lui stesso alla riscossa per riprendersi, affermava, ciò che era della Chiesa. Molte città della Romagna, all'indomani della caduta del dominio di Cesare Borgia, si erano volontariamente messe sotto la protezione di Venezia. Al rifiuto della Serenissima di restituirle al papa, costui aveva sfoderato minacce più degne di un despota secolare che di un rappresentante di Dio; dopo aver scoccato la freccia della scomunica aveva affermato apertamente che avrebbe ridotto i veneziani a pescatori come essi erano stati un tempo. La sua valle era divenuta parte integrante della Repubblica più di un secolo prima grazie a un patto stipulato volontariamente; una specie di matrimonio tra due comunità. No, Angelo non avrebbe permesso che un prete con la spada la conquistasse con la forza delle armi.

    Chiuse gli occhi; si immedesimò in Magnus a cavallo del suo drago e in Kasim che combatteva per un'Arabia unita. Forse era giunto il momento profetizzato da Ferruccio. L'alternativa era che nel borgo natio si sarebbe parlato francese e sarebbero stati tutti obbligati ad andare in chiesa ogni giorno a pregare la versione di Dio vista dagli umori del papa di turno. L'Inquisizione sarebbe stata reintrodotta col beneplacito degli alleati di Spagna e la coercizione di mercenari svizzeri. Pensò ai fratelli nel Regno di Napoli, già sotto il giogo spagnolo. Immaginò con terrore che la censura avrebbe fermato la produzione dei libri. Temette per il piccolo sapore di libertà dato al popolo che rischiava di venir schiacciato nuovamente dall'arroganza di re e papi. Non doveva accadere!

    – Pronti? – chiese ai due gemelli.

    – Che stiamo aspettando, luogotenente? – fu la risposta di Placido.

    – Soltanto un ordine che spero tanto non arrivi.

    Com'era facile sentirsi Dio a quell'altezza! Invisibile, onnipresente, irraggiungibile, pronto a colpire.

    Dalla sala di manovra dell'aeronave, Ferruccio Alberti teneva gli occhi fissi nell'iperscopio seguendo le fasi della battaglia che si svolgeva sotto di lui in una pianura solitamente verde resa ora grigia e sfocata dalle nuvole. Da quell'altezza, i soldati dei due eserciti apparivano come formiche guerriere in procinto di affrontarsi, ignari che qualcuno li stesse osservando, spiandoli dall'alto di una nave sospesa un paio di miglia sopra le loro teste. Il mostro volante incombeva sui mortali morituri, nascosto ai loro occhi da una coltre di fumo artificiale oltre alle nuvole che Madre Natura aveva concentrato in quella parte della Pianura Padana tra Pandino e Agnadello.

    Lontana dal mare ma non dall'acqua, la nave volante era sostenuta in cielo dall'enorme mulino che girava su se stesso grazie a ingranaggi, e spinta da getti di vapore. Al di sopra del mondo, del Fato, degli uomini e del passato che di lì a poco sarebbe stato travolto dal futuro.

    L'iperscopio era un tubo metallico che, grazie a un gioco di specchi, permetteva di vedere sopra o sotto; era l'occhio di Dio che spuntava dalla coltre fumogena. Ferruccio scrutò ogni fase della battaglia. Al momento tutto lasciava credere che l'entrata in trionfo della sua Armata Fantasma, preceduta dall'attacco dei tre ornitotteri, sarebbe stata perfettamente inutile. Da quanto poteva vedere, D'Alviano le stava suonando di santa ragione ai francesi. La pioggia a catinelle, che Giove Pluvio riversava sui contendenti, stava al momento avvantaggiando il Leone di San Marco. I francesi faticavano a risalire un argine reso fangoso dall'acqua, mentre la cavalleria leggera del mercenario friulano sostenuta dalle fanterie romagnole stava calando, quasi scivolando nella sua carica, travolgendo la furia gallica.

    Se soltanto quell'imbecille di Orsini avesse mandato all'attacco anche il resto dell'armata, i francesi sarebbero stati ricacciati al di là del confine che avevano osato varcare.

    Batté un pugno sul tavolo. Il nostromo lo guardò incuriosito ma non osò chiedere nulla; Fiamma ghignò, quasi stesse immaginando i pensieri del superiore.

    Se soltanto lui fosse stato Orsini! Avrebbe subito messo in campo la cavalleria pesante e i terribili brisighelli, micidiali soldati scelti la cui furia sarebbe arrivata fino a Milano!

    Cercò di calmarsi. Si chiese cosa facesse là. Da quanti anni non combatteva? Ricordi di gioventù si fecero avanti.

    Si rivide, decenni addietro, sul ponte di una galea pronto a gettarsi all'arrembaggio di vascelli turchi.

    A quei tempi la bramosia di sangue era grande. Voglia di uccidere e distruggere, di vendicare suo padre caduto sotto i colpi dei giannizzeri del sultano alla presa di Costantinopoli allorché lui aveva dodici anni. Sarebbe anch'egli morto se non fosse stato per l'eroismo di un soldato di Genova, l'eterna rivale di Venezia, ma in quel frangente alleata della Serenissima contro la preponderanza del Turco.

    L'eroico milite, facendo scudo col suo corpo e immolando la sua vita, aveva salvato quella di Ferruccio. Forse era stato quell'episodio che aveva infuso in lui l'ideale di contribuire a un progetto a quei tempi impensabile: l'unione delle genti d'Italia in un unico Stato. Un sogno sentito da pochi grandi tra cui Lorenzo de Medici, l'illustre signore di Firenze, scomparso ormai quasi due decenni addietro. Una cerchia di persone colte. Ma non dal popolo, non ancora. Perché il popolo non aveva il diritto di pensare. Per esso lo facevano re, principi e papi.

    Ricordò di avere sprecato qualche anno come soldato allo scopo di uccidere turchi e vendicare suo padre, e di averne buttati via altri come spia in seno all'Impero Ottomano per danneggiarne gli interessi.

    Un giorno una voce gli aveva parlato. Una vaga apparizione. Forse un angelo. Non aveva le ali, ma sembianze muliebri: non una donna leggiadra e fragile, bensì una specie di amazzone con lancia e scudo: Minerva, la dea della guerra per gli antichi, ma in realtà l'arcangelo della nazione italiana. Non si era fatto domande. Minerva l'aveva ispirato per una missione: Ferruccio aveva il talento giusto, l'ideale giusto, e i tempi erano maturi per unire l'Italia. Non era un progetto di giorni o mesi e neppure di anni, bensì di decenni! Minerva gli aveva detto che il libro e la spada avrebbero fatto l'Italia. Il libro per dare cultura al popolo e la spada per difenderlo da ogni minaccia. Una spada superiore alle altre. Soprattutto lui avrebbe dovuto avere una grande pazienza; ogni impulso irrequieto avrebbe dovuto essere sedato. Doveva guardarsi intorno e attendere l'occasione giusta.

    Grazie al suo passato di spia sotto la facciata da mercante, che pure l'aveva fatto arricchire, era diventato senatore a Venezia. Le stamperie di Aldo Manuzio producevano a quei tempi libri grazie ai caratteri mobili inventati dal tedesco Gutenberg. Manuzio e le sue edizioni erano stati i primi soldati arruolati per il suo progetto. L'Accademia Patavina aveva iniziato la sua attività culturale stampando libri, ma come si poteva dare il dono della magia delle parole scritte a un popolo che non sapeva leggere?

    Pensò che se la Repubblica di Venezia avesse promulgato una legge che obbligava i bambini ad andare a scuola, sarebbe stata la pietra miliare per l'inizio del suo progetto. Come convincere il Senato a un passo simile?

    L'occasione si era presentata allorché nel 1482 una giovane spia gli aveva mandato una lettera nella quale informava che un certo Leonardo da Vinci progettava di costruire macchine capaci di volare e altre armi segrete per Ludovico il Moro, allora duca di Milano.

    Ferruccio aveva trovato finalmente il, per così dire, casus belli, o meglio, casus pacis. Non poco aveva pagato per ingaggiare il Vinciano nella sua Accademia, soffiandolo sotto il naso del Moro.

    Poi aveva convinto il Senato dell'utilità di tali macchine per l'apparato militare della Repubblica. Aveva perorato la causa della necessità della leva anziché dell'uso dei mercenari. Sarebbe stato necessario insegnare ai giovani futuri volatori il modo di usare le macchine destinate a solcare i cieli. Occorreva che tutta una generazione fosse in grado di leggere le complicate tecniche per manovrare quei draghi meccanici.

    Così, nel 1490, era stata emanata la legge che obbligava i giovani a imparare a leggere e scrivere.

    Il fante Francesco Tagliaferri insisteva a scacciare dai pensieri il fatto di essere a bordo di una nave volante. Fantasticò invece di trovarsi su uno dei carri corazzati con le ruote a contatto con la terra. Era la tecnica per combattere la sua fobia per gli spazi aperti. Funzionava sempre. Quello che gli occhi non vedevano poteva essere soltanto frutto della fantasia della mente. Paradossalmente, era stato l'amico d'infanzia Angelo, che soffriva della fobia opposta, a insegnargli quello stratagemma. L'illusione poteva essere reale. La realtà poteva essere un'illusione. Citato tratto da uno dei libri d'avventure delle Edizioni Aldine.

    Quei libri erano pura filosofia pratica digeribile per la gente semplice. Dono di Ferruccio Alberti da Padova al popolo della Serenissima Repubblica di Venezia. Ora, in tenuta da battaglia, Francesco stava ripagando quel dono prendendosi le proprie responsabilità. I francesi là sotto erano una minaccia al popolo della Repubblica. Non si illudeva certo che, una volta vinto, il loro re avrebbe accettato un volgo in grado di leggere e pensare. Le conquiste sociali degli ultimi decenni sarebbero state cancellate d'un soffio. Senza il dono della lettura e l'apprendimento di episodi di storia passata contrabbandati tra le righe dei romanzi d'avventura delle Aldine, non avrebbe mai saputo determinate verità che manipolazioni e menzogne propagandate da re e principi avevano tenuto nascoste. Faceva loro comodo far credere che il popolo dovesse essere al servizio di gente privilegiata dalla nascita. Ma i libri stampati affermavano invece tutt'altra cosa: il popolo aveva avuto un peso significativo in passato. Già dai tempi di Roma Antica la plebe aveva un tribuno al Senato con potere di vietare ogni iniziativa dei Patrizi che fosse risultata a essa svantaggiosa. Ma anche più tardi, quattro secoli addietro, nei liberi Comuni, i borghesi, ossia i non nobili, avevano ottenuto il potere e la libertà di decisione attraverso il Parlamento. Inizialmente vittoriosi addirittura contro l'Imperatore Barbarossa, avevano purtroppo, man mano, perso il potere davanti alla rivincita imperiale e nobiliare. La loro debolezza era stata la mancanza di unione politica e la costante rivalità tra le varie città.

    Ferruccio aveva di nuovo accelerato un processo inarrestabile. L'unico ostacolo era là sotto, nelle armi di Francia e degli altri alleati, aizzati contro Venezia da un papa che, contravvenendo ai principi di Gesù del quale si considerava vicario in terra, agitava la spada con intenzione di ferire e far perire.

    Al pensiero della spada, Francesco accarezzò la propria, carpendone quasi lo spirito rinchiuso nel metallo. Nella vita civile era fabbro. Veniva da quel di Gromo, nella Valle del Serio, dove lavoravano i migliori fabbri d'Europa.

    Guardò i suoi compagni: tutti giovani. Sotto il ponte della nave volante erano pronti i nuovi soldati di Venezia, la Milizia Popolare nei quadri dell'Armata Fantasma. L'embrione di un nuovo modo di vedere la difesa della Patria Veneziana. Pochi, sì e no una cinquantina. Gli umani. Altrettanti automini li affiancavano. Forse erano loro i soldati del futuro: armature manovrate da congegni metallici a molle. Auto homini. Auto uomini. Invulnerabili, armati di scure bipenne e spada, usciti dalla mente geniale di quel Leonardo da Vinci, come le navi volanti, gli ornitotteri e i carri corazzati. Ferruccio da Padova aveva saputo scegliere bene le teste per costruire le armi per la difesa del popolo dalla tracotanza dei Grandi.

    Ferruccio aveva messo assieme una bella congrega di altri ingegneri, artigiani, fabbri. Leonardo da Vinci era stato un grande ispiratore e fonte di idee. Aveva riscoperto il progetto di un cannone a vapore inventato da un antico siracusano, il cosiddetto architronito di Archimede. Urania, Musa della scienza, quasi evocata dal toscano, aveva illuminato uno sconosciuto collega, un fabbro che veniva da chissà dove. Costui aveva avuto l'idea era stata di usare quell'antico cannone come propulsore. I getti di vapore erano in grado di azionare gli ingranaggi delle straordinarie macchine prodotte. Quel genio sarebbe sicuramente rimasto per sempre nell'ombra a fare il maniscalco in qualche villaggio nei pressi di Venezia se Ferruccio non l'avesse ingaggiato nella fabbrica segreta. Con orgoglio di categoria pensò che soltanto un collega fabbro poteva avere avuto un'idea così geniale. Se le navi potevano ora volare e i carri semoventi avanzare veloci su terreno impervio, era merito di costui, Aroldo Manesi. Fortunato mortale! Nella Città Ideale adiacente alla fabbrica segreta, Manesi aveva conosciuto la figlia di Ferruccio. Si erano sposati, e dal loro matrimonio era nata Loretta, ora sposa del suo migliore amico, Angelo, e madre della loro figlia, Fulvia, di un anno, come la sua Anna. A volte il destino! A un'azione seguiva un'altra, e ora il solcatore dei cieli e quella furia combattiva, quell'amazzone dai capelli castani ondulati, erano uniti, nel bene e nel male.

    Si ritrovò a pensare alla propria sposa, Silvana, a casa, tra i monti e i boschi, lei stessa anima pura e selvaggia. Per lei e per Anna avrebbe combattuto; bisognava con tutte le forze impedire che papi e re mandassero le loro soldataglie a calpestare l'erba da loro sfiorata.

    – Ma cosa aspetta quel pappamolla di Orsini a gettarsi nella mischia? – brontolò il comandante in seconda Vittorio Fiamma a dispetto del frastuono. – Se non fossi così vecchio arruolerei d'Alviano! Ora invece mi tocca comandare quel manipolo di poppanti e i loro ausiliari facciaditolla!

    Si grattò la testa calva.

    – Ma mi sa che le retroguardie di d'Alviano strapperanno la vittoria a quel condottiero da tavolino dell'Orsini e pure

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