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AMOREVOLI ASIMMETRIE - L’arte di fuggire ancor prima di essere inseguiti
AMOREVOLI ASIMMETRIE - L’arte di fuggire ancor prima di essere inseguiti
AMOREVOLI ASIMMETRIE - L’arte di fuggire ancor prima di essere inseguiti
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AMOREVOLI ASIMMETRIE - L’arte di fuggire ancor prima di essere inseguiti

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About this ebook


L’ambizioso Lio si imbatte per caso nel problematico Sam, in preda a una crisi di nervi davanti a un cartellone pubblicitario raffigurante una donna col collo tagliato. Nasce così una conoscenza che catturerà Lio al punto da portarlo a disegnare gli incubi, le allucinazioni e tutti gli strani disturbi psichici del suo nuovo amico e a credere di poterne addirittura ricavare un fumetto. Allo scopo però di realizzare il suo sogno Lio dovrà prima riuscire a svelare i segreti che l’amico ha custodito per quasi trent’anni, per appropriarsi del suo vasto mondo immaginifico. Lio si imbatterà così nel personaggio di Luna, fanciulla amata e mai dimenticata dal suo bizzarro amico e sarà catturato dalla storia di Nemo Gareffi, padre di Sam, venuto a mancare prematuramente. Lio dovrà fare i conti anche con i propri fantasmi: il compromesso mal digerito di trasferirsi dalla sua rampante Milano in una sperduta località del sud per obblighi morali verso suo padre; una relazione ancora non dichiaratamente naufragata con la propria compagna; un’identità di genere mai pienamente accettata; la propria onestà intellettuale vanificata dall’entrata in scena del subdolo direttore editoriale di una nota testata fumettistica. In un epilogo imprevisto, le parti finiranno per capovolgersi: l’approfittatore si ridurrà a tramite inevitabile per la rinascita dell’ignara vittima; il mentecatto da usare asservirà sempre più il proprio aguzzino, trovando nel suo aiuto interessato la via per la verità.
LanguageItaliano
Release dateSep 3, 2017
ISBN9788822818119
AMOREVOLI ASIMMETRIE - L’arte di fuggire ancor prima di essere inseguiti

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    AMOREVOLI ASIMMETRIE - L’arte di fuggire ancor prima di essere inseguiti - Vanessa Sacco

    altri.

    SAM

    Capitolo 1

    Dai panni stesi ad asciugare si possono capire tante cose.

    Basta alzare la testa e puntarne uno a caso per indovinare a chi appartiene quella mutanda bianca a vita alta, chi potrebbe indossare quel vezzoso reggiseno a balconcino, che tipo è il proprietario dei calzini con l’elastico allentato.

    A Castelli, invece, gli indizi depistano. In pieno centro storico, per esempio, è raro avvistare perizoma e tanga appesi ai fili. Mi ci sono arrovellato il cervello per anni, e alla fine sono stati gli stessi abitanti di questa Brigadoon sfigata a rivelarmi il perché di tanto riserbo: quei triangolini di stoffa soffocati dalle chiappe così in voga oggigiorno vengono ritenuti dagli integralisti castellardi delle vere e proprie oscenità degne di inequivocabile malcostume e, solo in seconda istanza, di indubbia scarsezza di buongusto; chi le ostenta con tanta indifferente baldanza, non solo non deve avere gran rispetto del proprio corpo, ma neanche di plausibili occhi indiscreti o di ingenui pargoli di passaggio. Ed ecco perché, nonostante la sana gioventù autoctona ne faccia un uso abituale, essa si guarda bene dall’esporli al vento e al pubblico biasimo.

    Su piazzale Prudentia, dove alloggia la sede storica della Pro Loco, mi è capitato sovente di veder fluttuare nell’aria ventosa pesanti calzamaglie verde muschio, giallo ocra, marrone scuro; culottes bordate di pizzo; sottogonne di mussola; corpetti in velluto damascato e decine di altri anacronistici indumenti i cui nomi sono stati dimenticati secoli e secoli fa. E così ho scoperto anche questo: l’attaccamento dei cittadini di Castelli alle ricostruzioni storiche, alle commemorazioni regali e a un generale culto pagano degli antenati è tale dall’aver ritenuto necessario, nel corso dei decenni, un sovraccarico di inchiostro rosso sul calendario municipale.

    In Corso Gilberto I, laddove se si fosse trattato di un’altra città sarebbe stato semplicemente impensabile stendere il bucato fuori dalle balaustre, fino a pochi anni prima che iniziasse questa storia si potevano ammirare tutte in fila, ben allineate, decine di polo di ogni foggia e colore. Quel che più divertiva chi incappava nella pittoresca esposizione era, però, più il modo in cui queste erano disposte che la monotonia dell’articolo in sé: non già piegate in due e fissate con comuni mollette di plastica o legno, bensì impilate nel filo dalle maniche, come tanti busti di fantasma senza testa. La responsabile di una così singolare stenditura era una certa Ada Raimondo, e il proprietario di quelle magliette col collo da camicia, suo figlio: Samuele Gareffi.

    Lo conobbi tra i corridoi della sede di una nota rivista di enigmistica per la quale lavoravo a tempo pieno da diversi anni, concedendo ormai solo rattrappiti ritagli di tempo al mio posto di precario presso la cattedra di storia e filosofia di uno sfollato liceo di provincia cui per primo ero approdato dopo il mio trasferimento a Castelli.

    Mi erano stati affidati i Cruciverba per i Più Abili e, per dare un senso più profondo a quell’incarico così lontano dalle mie competenze ufficiali, mi ero messo in testa di evitare con cura ogni definizione che escludesse sfacciatamente una pur minima nozione di cultura generale del giocatore e ne favorisse, per contro, la più elementare capacità analitico-morfologica (niente al centro della piazza quindi, o ai confini della Senna, o la mamma ne ha due).

    Il sardonico Samuele, quando entrammo tanto in confidenza da permettermi di svelargli i trucchi di un mestiere cui nessuno mi aveva iniziato, commentò il mio metodo con queste poche, profetiche parole: «È una sfortuna che la tua vita sia così poco complicata, ma che fortuna che ci sia tu a correrle in aiuto!»

    Una tale scrupolosità, in effetti, mi imponeva dei continui aggiustamenti tattici sulla griglia programmata del computer al quale lo staff affidava la propria sonnolenta creatività, e ciò significava maggiore lavoro, quindi più fatica per rispettare i tempi di uscita; se non altro, però, mi ritenevo soddisfatto del modo in cui svolgevo un incarico che agli occhi dei non addetti ai lavori doveva apparire fin troppo ludico (easy, avrebbe detto Melania), quindi indegno della giusta stima.

    «E così fai i cruciverba?» mi sono sentito chiedere non molto tempo fa da un’ochetta bionda della televisione conosciuta a un cocktail.

    «No, ideo cruciverba.»

    Non che me ne importasse poi molto, sia chiaro, di quel che ne potesse pensare una svampita valletta del meteo (da quando in qua il meteo ha bisogno di vallette?) di un’anonima rete televisiva lombarda. Ma questa è un’altra storia…

    La famosa mattina dell’incontro con Sam, invece, mi ritrovai davanti un bel giovane sulla trentina, alto, esile, piedi grandi, moro ma sbiancato in volto, che gridava come un ossesso puntando l’indice tremante, nodoso, contro la locandina gigante di una mostra di scultura appiccicata al muro, giusto sopra il distributore automatico degli snack.

    Un tempestivo capannello di curiosi mi rese assai complicato scendere gli ultimi gradini della scala che conduceva al pianterreno, dove si trovava, appunto, l’area break (tre metri quadrati di PVC nero su cui erano state installate due macchinette di prodotti da forno confezionati, una panca in similpelle bordeaux e parecchie sedie imbottite color caffellatte in stile sala d’attesa), cionondimeno riuscii a farmi spazio tra moli ben compatte di impiegati, editor, disegnatori e studenti dell’Istituto d’Arte che avevano scelto proprio il giorno meno adatto per far visita ai nostri uffici, e finalmente raggiunsi l’ultimo cerchio d’aria non occupato da nessuno se non da quel bizzarro individuo che in meno di un minuto aveva catalizzato l’attenzione di così tanti estranei meglio di quanto avrei mai potuto fare io, che là dentro ero conosciuto e sorvegliato da almeno tre quarti dei suoi stessi spettatori.

    Seguii fino in fondo quello sguardo agghiacciato e supplice, quel dito nervoso, tremante, ma non riuscii a trovare niente di così allarmante nella raffigurazione già sbiadita che il ragazzo insisteva a indicare come un brutto presagio. Il poster incriminato, di fatti, mostrava il cadavere di una fanciulla con un profondo taglio alla gola, il capo riverso all’indietro, la lunga chioma bionda, gli occhi chiusi, poi il titolo dell’evento, gli sponsor, i patrocini, la location e la data (si sarebbe tenuta in estate a Pianora dei Goti, in provincia di Castelli). Cosa ci trovava di tanto terribile?

    «Si sente bene? Cosa le è successo?» gli chiesi adagio, quasi parlandogli nell’orecchio, per essere sicuro che capisse e che fra il mio tentativo di rassicurarlo e la sua disposizione ad accettare il mio aiuto non interferissero le voci pettegole degli astanti o i provvedimenti più risoluti di qualche poliziotto che già mi aspettavo di veder sbucare da un momento all’altro. «Venga con me», cercai di persuaderlo tirandolo per quello stesso braccio rigido, pesante, che ancora misurava imperterrito la distanza fra sé e la donna di carta. «Venga con me», gli ripetei. «Non abbia paura.»

    Il giovane si prestò ad assecondare la mia richiesta quasi a malincuore, mi concesse appena una leggera torsione del busto, mentre il suo sguardo rimaneva di pietra, incapace di staccarsi da quell’immagine, e la bocca restava aperta, paralizzata, senza più saliva. Dovetti usare un po’ più di energia per scollarlo definitivamente da quell’idolatria distruttiva che lo avrebbe reso folle se lo avessi lasciato lì ancora un po’, e nell’allontanarci lo protessi come fa la guardia del corpo di una star contro i fan avvoltoi.

    Mentre uscivamo a tentoni da quella calca invadente, facevo in tempo ad afferrare lembi di commenti: «Forse lo conosce»; «Poverino, ha dato di matto»; «È il caldo: la gente sclera»; «È già arrivata la Croce Verde?»

    «Dove andiamo?» mi domandò confuso.

    «Fuori, lei ha bisogno di prendere aria. Vuole bere qualcosa?»

    «Un po’ d’acqua.»

    «C’è un bar qui vicino.»

    Una volta usciti dall’edificio, lo liberai dal mio abbraccio. Ora camminavamo uno accanto all’altro. Lui trascinava un po’ i piedi, guardava davanti a sé strizzando gli occhi per non farsi abbagliare dal sole metallico di quell’autunno mite e corrugava la fronte alta, spaziosa, non so se per effetto dell’accecamento o per lo stato d’animo ancora in subbuglio.

    Lo spiavo di sottecchi, controllando la sua ombra stesa lungo il cammino che man mano ci lasciavamo alle spalle, come per cogliere qualcosa che il suo corpo non sapeva dirmi.

    «È qui, siamo arrivati», gli feci cenno poco prima di svoltare l’angolo.

    «Lo conosco. Ci venivo sempre quand’ero ragazzo. All’epoca facevano solo frullati.»

    «Ora è anche un bar, e dei più esclusivi.»

    «Il nome è più o meno lo stesso: Elmo Rosso Coffee & Food.»

    Entrammo e ci sedemmo al bancone.

    «Cosa prende?» gli chiesi con un certo timore.

    Avevo la sensazione che volesse scappare, che ne avesse abbastanza delle premure di uno sconosciuto, che cominciasse a stare stretto dentro i panni di una brava persona che siede composta, non poggia i gomiti sulla tavola, ordina una bevanda innocua, ringrazia e saluta.

    «Un’acqua tonica.»

    «Per me un Brachetto e un po’ di salatini», feci al cameriere alzando la voce, tornando al mio solito fare gaio e disinvolto, intuendo che ormai il mio ospite non avrebbe più cercato di scappare, perché io non ero né un poliziotto né un medico, e in me non c’era niente che lo potesse minimamente allarmare.

    Il cameriere si allontanò, il giovane lo seguì con gli occhi e, dopo qualche altro secondo di spaesamento, mi parlò: «Mi dispiace, le chiedo scusa. Sono mortificato, non mi era mai successo prima d’ora. Non so che mi è preso.»

    «Stia tranquillo, non deve scusarsi di niente.»

    «È stato gentile; se non ci fosse stato lei, mi avrebbero fatto a pezzi.»

    «Non è vero, avrebbero solo avuto qualche dettaglio in più sul nuovo pettegolezzo del giorno.»

    Il cameriere tornò con le nostre ordinazioni e sparì nuovamente. Sollevato, mi misi a sorseggiare il mio Brachetto, mentre lo sconosciuto distendeva il viso e si rimetteva al mondo con quell’acqua fresca e dissetante, di cui fece una lunga e soddisfatta sorsata.

    «Prenda pure», mi affrettai a dirgli indicando le ciotoline di riso soffiato speziato e anacardi, e, senza dargli il tempo di accettare o rifiutare, aggiunsi: «non ci siamo ancora presentati. Mi chiamo Leonida, ma gli amici mi chiamano Lio.»

    «Samuele, ma tutti mi chiamano Lele», e mi strinse la mano.

    «Lele? Un po’ infantile per la tua età, non credi? Ti chiamerò Sam, se non ti dispiace.»

    «Non mi dispiace, Lio.»

    Da lì iniziò la nostra grande amicizia.

    Il mio nuovo amico abitava in periferia, nei pressi della cittadella universitaria, in un monolocale in affitto che voleva assolutamente farmi vedere; aveva da poco abbandonato la casa materna, in centro, in Corso Gilberto I, e c’erano in lui tutta l’eccitazione e l’orgoglio della pittura appena stesa sui muri e dell’indipendenza dell’adulto appena ottenuta. Doveva possedere qualche stramberia al pari del mio wc en plain air se gli occhi gli erano brillati a quel modo mentre me lo proponeva eccitato, e io non avevo alcuna intenzione di disattendere ai suoi entusiasmi, anzi, quella confidenza avrebbe potuto aprirmi le porte di un mistero che ero curiosissimo di svelare, ma sul quale non avevo ancora il coraggio di interrogarlo a bruciapelo: perché tanto sgomento davanti al manifesto di una mostra di scultura? Che significato aveva, per lui, quella donna? Volevo sapere tutto su quel suo incubo a occhi aperti, e lo avrei scoperto prima o poi, senza minacce. Me lo avrebbe detto lui stesso, spontaneamente, come al proprio psicanalista sotto ipnosi.

    Quella mattina Sam era entrato al Grillo Enigmistico su convocazione del direttore editoriale, che da lì a un quarto d’ora, poco prima dell’episodio della locandina, lo avrebbe licenziato.

    Anche Sam, dunque, lavorava per quello stupido e vendutissimo giornaletto, solo che era un collaboratore esterno, un umorista molto istruito e particolarmente preparato sulla storia di Castelli, di cui forniva notizie storiografiche e di tradizioni popolari che quei pigroni dei miei colleghi non avrebbero proprio saputo come scovare se non le avessero semplicemente avvistate dietro la prima finestra telematica apertasi su ordine di questa o quella parola chiave.

    Sam era un’enciclopedia castellarda vivente, ed era anche un barzellettiere, un comico dalle mille risorse, un pagliaccio con in serbo una battuta diversa per ogni situazione.

    Ce ne aveva messo di tempo per arrivare là! All’inizio aveva fatto come tutti i moderni individui in cerca di prima occupazione galvanizzati da qualche recente successo formativo o, come nel suo caso, da un’innocente fede nell’improbabilità: aveva mandato la propria autocandidatura all’indirizzo mail del link lavora con noi del nostro sito. Com’era il detto? Uno su mille ce la fa. Sam non ce l’aveva fatta. Sospetto perché le posizioni aperte all’epoca erano solo quelle di digital content specialist-ebook e web editor, ma preferii non dirglielo per non interrompere il suo racconto.

    Dopo un paio di mesi di attese vane e solleciti perturbatori, Sam tentò un approccio più personale scrivendo alla nostra rubrica La posta del Grillo. Di solito i nostri ammiratori più affezionati si offrono spontaneamente di incrementare le nostre già catatoniche giornate facendoci dono delle loro perle di saggezza, al pari delle ricette culinarie inviate da altrettanti lettori alle tante allegre riviste di settore. Le missive di Sam si rivelarono immediatamente di ben altra pasta: erano più che altro segnalazioni bizzarre di una topografia inverosimile, che grazie a lui, avrei ben presto conosciuto e ammirato anch’io. Tutte le missive – un centinaio, più o meno, nell’arco di un paio d’anni – le aveva siglate con le iniziali S. G.

    «Mi ricordo di quelle lettere. Credevo fosse uno dei nostri a scriverle.»

    «E invece no. Hai visto? Vi ho fatto guadagnare punti e in cambio cosa ho ricevuto?»

    E bravo il nostro capo redattore! Comodo così. Ma il giocattolo dopo un po’ si ruppe. Non ricevendo null’altro se non pubblicazioni gratuite e taciti assensi a perpetuarle illimitatamente, Sam adottò il silenzio stampa. La vera occasione arrivò non molto tempo dopo. Il Grillo Enigmistico indisse un concorso per umoristi: Che ti grilla per la testa? Un racconto umoristico da cinquanta cartelle che contenesse almeno cinque figure dell’enigmistica. Primo premio, assunzione a tempo determinato presso la nostra prestigiosa testata; secondo premio, pubblicazione del racconto vincitore sulla nostra prestigiosa testata; terzo premio, abbonamento a vita alla nostra prestigiosa testata.

    Sam non vinse nessuno dei tre premi, ma fu notato, non foss’altro che per quella sigla cifrata con cui misteriosamente ancora continuava a firmarsi. Un altro, al posto suo, avrebbe mollato, o almeno si sarebbe fatto due domande, il che, se da una parte avrebbe non poco minato la sua autostima, dall’altra gli avrebbe risparmiato un tale inconcludente dispendio di energie. E invece il nostro eroe che fece? Si camuffò tra gli studenti di un liceo venuti a far visita alla nostra redazione (sebbene avesse passato l’età da liceo già da un pezzo), sgusciò fino a quello che dovette sembrargli il direttore editoriale e gli sussurrò in un soffio: «Signore, vorrei tanto fare l’umorista!» solo per sentirsi liquidare con: «Chi non lo vorrebbe, ragazzo mio! Chi non lo vorrebbe!»

    «Quello era il capo redattore, non il direttore editoriale.»

    «Come lo sai?»

    «È un uomo senza fantasia, tant’è che si ripete come un pappagallo.»

    Spiazzato ma non disarcionato da quella banale risposta, Sam fece appena in tempo a infilargli sotto il braccio il proprio curriculum protetto da una camicia di plastica trasparente e, prima che quello potesse replicare, se la svignò con poche falcate da giraffa.

    «Cosa hai scritto sul curriculum per farti finalmente prendere in considerazione?»

    «Tutto quello che ho fatto per il giornale. In pratica ho firmato per esteso.»

    Poco dopo fu assunto dal Grillo Enigmistico s. r. l. come collaboratore esterno per le seguenti pagine: Quattro chiacchiere al parco (citazione dotta di una sconosciuta – se non agli addetti ai lavori – commedia teatrale di Alan Ayckbourn scelta testardamente dal capo redattore come titolo di una rubrichetta di curiosità d’altri tempi su questa città); Quattro risate al parco (variante poco fantasiosa del primo titolo, imposta dallo stesso poco fantasioso capo redattore per indicare la sezione umoristica del giornale); Improprietà da ridere (aneddoti, giochi di parole e altre anomalie linguistiche che non avrebbero fatto crepare dal ridere nessuno, ma che, se non altro, avrebbero aumentato il numero di pagine del noto blocco in bianco e nero).

    Sam lavorò come collaboratore esterno del Grillo Enigmistico per circa sei mesi, percependo dei compensi cento volte più comici di tutti i suoi interventi professionali sulle rubriche Quattro risate al parco e Improprietà da ridere.

    Conoscevo quel giornale come le mie tasche, era il mio breviario di Don Abbondio, non me ne separavo mai; ogni settimana lo esaminavo con cura dalla prima all’ultima pagina. Sapevo cosa si celava dietro a ogni rebus, ogni anagramma, ogni antipodo palindromo. Le curiosità storiche e geografiche, i record, le statistiche – come ho già detto – non destavano in me alcuna stima verso gli pseudo professori che si erano occupati di fornirceli. Quanto alle vignette, avevo un’idea di illustrazione molto diversa da quei calchi fai da te che trovi sui primi libri per bambini, e poi lo humour, checché ne dicesse il direttore, era decisamente troppo britannico per i miei gusti. Un giorno, però, cominciai a trovare qua e là certe battute gustose, certe notizie strampalate, certi indovinelli buffi, originali, grazie ai quali quella lettura così noiosamente conosciuta mi si rinnovò con inaspettata piacevolezza. Non poteva essere farina di nessun sacco che si trovasse, alla mia stessa stregua, stipato in quella intorpidita fucina di geni dormienti. L’originalità, là dentro, era la fiammella di una stagione, la luce dei pochi mesi di sole in Norvegia: fatalmente non ci metteva molto ad affievolirsi e, una volta esauritasi, a essere sostituita con una lampadina replicante e fredda come tutti gli artifici sanno essere.

    Anch’io, appena assunto, avevo dato il meglio di me: curavo personalmente almeno dieci griglie di cruciverba con sette pseudonimi diversi; anche quando finivo la mia giornata di lavoro, a casa, davanti alla TV, qualsiasi cosa stessero mandando in onda, con la testa ero sulla mia griglia, sui miei rebus, sulle mie caselle, sui miei incroci; con le mie lettere, le mie soluzioni, le definizioni studiate per essere comprensibili ed enigmatiche al tempo stesso, precise, secche, eppure mai anonime, ma con una nota, una costruzione della frase, un’ironia celata che mi facesse contraddistinguere dagli altri, in cui la mia impronta potesse affiorare riconoscibile anche a me soltanto, per il mio autocompiacimento, per la mia personale soddisfazione, come una firma autenticata seppur criptata.

    Si può stare sempre su come una molla? Girare all’infinito come una trottola? Morfeo venne a bussare anche alla mia porta: anch’io, a modo mio, allentai la corsa, e così fece anche Il Grillo Enigmistico, che ora organizzava di continuo colloqui d’assunzione e visite guidate per le scuole a indirizzo artistico.

    Noi tutti sapevamo che i nostri posti di lavoro non correvano alcun rischio, era solo la marea che passava e lavava, e poi il sole faceva ritorno e la terra si seccava nuovamente.

    Quando il nostro estro cominciò un po’ a vacillare, furono assunti dei collaboratori esterni: delle voci bianche che portassero nuove armonie alla nostra silenziosa cappella. Andavano e venivano come uccelli migratori, ma le loro giornate di sole duravano assai meno.

    Negli ultimi sei mesi c’erano state delle voci in particolare (o forse era stata una sola) che avevano fatto vibrare i nostri spazi umoristici di una musica nuova. Certo, quelle pagine non costituivano neanche il dieci per cento di tutto il giornale, dopotutto non si trattava di una testata satirica o di una di quelle agende scolastiche firmate da noti comici e autori televisivi che oggi vanno tanto di moda, eppure quegli sprazzi di ironia avevano lasciato un segno positivo (destinato, tuttavia, anch’esso a consumarsi).

    In redazione si vociferava che l’autore di quelle battute fosse un grande comico in incognito, e che il giornale pagasse i suoi esigui e preziosi interventi una vera fortuna. A lungo andare, probabilmente col benestare dei vertici artistici, il Grande Umorista – come tutti noi ormai lo chiamavamo – era diventato sempre più impudente, non proprio sferzante come i comici d’assalto che prendono di mira i nostri politici ma decisamente sboccato (il che è inammissibile per lo humour britannico dei classici giornali enigmistici) e offensivo nei confronti di certe categorie umane (professioni, provenienze regionali, eccetera).

    Consigli Pratici

    Editore – In ognuno di noi c’è un pensatore nato, ma non per questo finiamo tutti con l’essere pubblicati.

    Scrittore – Cosa sta cercando di dirmi?

    Editore – Che dovrebbe tenere le sue stronzate per sé!

    Prescrizioni Scadute

    – La sai la novità? A Montecitorio due si sono presi a schiaffi.

    – …

    – Hai sentito quello che ho detto?

    – Sì!

    – E allora perché continui a fissarmi senza dire niente?

    – Sto aspettando di sentire la novità.

    Indagine al Parco

    – Scommettiamo che riesco a indovinare che lavoro fanno le persone che stanno in questo parco?

    – Ok.

    – Quella ragazza laggiù che tiene i piedi all’infuori è sicuramente una ballerina.

    – Hai ragione: ha tirato fuori dal borsone un paio di scarpette da danza.

    – E quello che aspetta l’autobus, invece, a giudicare dalle gambe ad arco, dev’essere un calciatore.

    – Mi sa che hai indovinato un’altra volta: mi sembra di averlo sentito parlare al cellulare di prenotare un campetto. Ora provo io. Vediamo… Ecco! Quello lì dietro al cespuglio secondo me fa il fantino.

    – Perché?

    – È ormai da un pezzo che si dimena sopra quell’altro urlando: «Sì! Così! Vai così, bello!»

    Dichiarazioni come queste, seppur gravate di un adeguato quantitativo di punti esclamativi, non poterono passare troppo a lungo inosservate da parte di quei giudici instancabili, detentori del buon costume e della tipica morale bigotta castellarda, dei vertici di redazione. Avrebbero potuto soprassedere persino sui tanga e i perizoma appesi fuori ad asciugare, ma mai e poi mai avrebbero riso di se stessi e della variegata sessualità che pur accomuna gli esseri umani.

    A questo punto, se il Grande Umorista fosse stato davvero un personaggio importante, avrei giurato che la sua scelta di lavorare come guest star anonima per una semplice rivista come la nostra fosse stata proprio il tentativo mal riuscito di eludere la censura di altri canali ben più pesanti, nei quali non avrebbe potuto agire tanto spavaldamente e per giunta in incognito. Se invece il nostro eroe fosse stato un promettente esordiente, così facendo avrebbe perlomeno ottenuto un po’ di pubblicità scandalistica: comodo lasciapassare per qualche testata più incline del Grillo Enigmistico a pubblicare spiritosaggini tanto spinte.

    In un modo o nell’altro, la verità sarebbe venuta a galla, e non mancava molto all’ora x: gli animi erano tutti in subbuglio, le facce dei capi più tirate del solito, le chiacchiere nell’aria break più improbabili che mai.

    Anch’io ero curioso di scoprire chi diavolo fosse il Grande Umorista, se non altro per stringergli la mano: grazie a lui, da circa sei mesi a quella parte, per addormentarmi non leggevo più Il Grillo Enigmistico.

    «Perché sei stato licenziato?» chiesi a quel singolare sconosciuto.

    «Divergenze artistiche.»

    «Andiamo, non fare il misterioso con me. Ormai siamo amici», lo presi in giro.

    Eravamo ancora seduti in quel bar. Dopo l’acqua tonica Sam aveva preso una birra, la lingua gli si era sciolta e non sembrava più allucinato come mezz’ora prima. Era simpatico, cordiale. Beveva come un ragazzo, ricurvo sul bancone. Sembrava una giraffa; forse il suo sgabello era regolato troppo in alto per la sua altezza, tanto che ora si sporgeva comicamente in avanti, ignorando la semplice possibilità di abbassare la seduta per starsene più comodo.

    «Hai presente quello che voi tutti chiamate il Grande Umorista?» mi domandò dopo un’ultima sorsata. «Sono io.»

    «Non ci credo.»

    «Vuoi che te lo dimostri? Vieni con me.»

    «Dove?»

    «A casa mia.»

    La periferia di Castelli dista dal centro soltanto quattro chilometri. In quel tragitto così breve avrei cercato di scoprire il più possibile sull’intera faccenda. Ero curioso come una scimmia, ancora un po’ scettico, ma in fondo troppo eccitato per aspettare docile che arrivassimo a casa sua, mi offrisse qualcosa, si soffermasse su una foto di gruppo appesa alla parete, mi facesse visitare l’intero appartamento e prolungasse ancora di molto il momento fatidico delle prove con quel genere di convenevoli senza i quali contavo benissimo di poter sopravvivere. E invece non ci fu bisogno di nessuna forzatura: fu lui stesso a dirmi tutto.

    «Credevano davvero di tenermi a bada con quattro barzellette al sonnifero destinate ai reparti geriatrici? Le prime uscite sono state di una freddezza sconcertante. Non che me lo abbiano mai chiesto esplicitamente, ma qualche volta l’ho comprato anch’io, Il Grillo Enigmistico, le ho lette anch’io le pagine umoristiche: ho pensato che almeno per i primi tempi fosse meglio andarci piano, per uniformarmi quanto bastava da farmi accettare in un ambiente nuovo, non certo per sempre. Senti questa! Titolo: Il miglior amico dell’uomo / Moglie – E poi dicono che i cani non sono come le persone. Guarda come mi sorride la mia Lilli. / Marito – Cara, hai per caso visto la mia dentiera?»

    «Carina. L’ho già sentita…»

    «Vomitevole. E non l’hai già sentita, l’hai già letta: nel numero 7 di febbraio.»

    «Forse è un po’ ingenua, d’accordo, ma credo che il Grande Umorista sia passato troppo in fretta dalle barzellette al sonnifero a quelle al vetriolo.»

    «Stronzate! Quello non ero io, non ho fatto altro che ricalcare lo stile degli altri, saprebbe farlo chiunque. Tergiversavo, non mi sentivo ancora sicuro, e intanto le settimane passavano. Poi ho cominciato a rincarare la dose, dall’ovvio sono passato all’assurdo. Titolo: Amnesia / – Ti ricordi la finale di calcio che guardammo l’anno scorso a casa mia? Quel giocatore bravo, nero… Segnò all’ottantesimo minuto rompendosi il menisco e non giocò più. Che fine ha fatto? / – Pare che non giochi più!»

    «Sottile. Anche questa l’ho già sentita.»

    «Glaciale. Stesso motivo di prima. Numero 14 di aprile.»

    «Forse è un po’ astrusa per il lettore nostrano, d’accordo, ma tre mesi fa nessuno si lamentava delle trovate del Grande Umorista.»

    «Ancora stronzate! E smettila di chiamarmi Grande Umorista, non si era deciso per Sam?»

    «Vuoi convincermi a ogni costo che è stata tutta opera tua, non è così?»

    «Il mio vero rimpianto è di non averli mollati prima che loro mollassero me, ma stavo per farlo, giuro. Otto giorni fa ho ricevuto l’accettazione della mia domanda di assunzione a Komikenda.»

    «L’agenda scolastica?»

    «Proprio quella.»

    «Bel colpo!»

    «Già. Ora non ho più scuse per tentennare. Ancora una volta qualcuno ha deciso al posto mio.»

    Superammo la cittadella universitaria e all’altezza dell’Ospedale Sant’Omobono svoltammo a destra. Sorgeva qui un ampio quartiere residenziale di nuova costruzione, palazzi a tre piani mansardati con giardino, palestra, l’ufficio postale, il supermercato e vari negozi di servizi che avrebbero reso i condomini talmente autosufficienti dall’evitare loro continui spostamenti verso il centro. Non c’ero abituato, preferivo di gran lunga la parte vecchia della città, era l’unica che avevo imparato a conoscere da quando vivevo a Castelli; mi piaceva abitarci, si poteva andare a piedi dappertutto, raramente prendevo la macchina (giusto quel giorno perché ero in ritardo).

    «Io sto all’ultimo piano. Preferisci prendere l’ascensore?»

    «Direi.»

    «Okay, io vado a piedi.»

    Che personaggio! Simpatico – questo non posso negarlo – ma anche matto come un cavallo. Mentre sostavo incredulo e solitario nella cabina dell’ascensore, conclusi che quel tipo non mi aveva affatto convinto. Che ci voleva a imparare a memoria le storielle pubblicate sul Grillo Enigmistico e spacciarle per proprie? Forse non era da tutti, certamente non era da me, che non possedevo proprio quella che si dice una memoria da elefante, ma forse Sam aveva in serbo qualche altra dote, oltre alla claustrofobia e alla paranoia.

    Non riuscivo a capire cosa diavolo mi intrigasse tanto di quell’uomo. Era carino – questo sì – ma non molto più di qualche suo coetaneo con cui avevo nottetempo consumato un’intensa e fulminea avventura senza per questo sbattermi da una parte all’altra della città e giocare a fare prima l’infermiere e poi l’investigatore.

    Quando aprii la porta dell’ascensore lo trovai già lì, con la chiave nella toppa e un sorriso affannato sui denti.

    «Salgo sempre i gradini a due a due», si giustificò. «Meglio della palestra, no?»

    Anche maniaco del fitness! E se fosse stato pericoloso?

    Era una bella mansarda soleggiata, arredata con gusto tipicamente da scapolo, senza la minima ombra di una compresenza femminile, ma – ahimè! – neanche maschile. Il pavimento era interamente rivestito da listoni di pregiato – nonché ormai introvabile – pitch-pine, le tende anonimamente bianche ma eleganti, una ricca collezione di dischi in vinile, le immancabili foto di famiglia in bella mostra.

    «Cosa ti offro?»

    «Una sigaretta.»

    «Mi spiace, sto cercando di smettere.»

    Sette a zero per me (era proprio un pivello).

    «Però ho del whisky…»

    Dieci a zero per lui (questa non me l’aspettavo).

    «Vuoi una galatina?» aggiunse tirando fuori dalla tasca quella caramella dell’infanzia che credevo fosse ormai fuori produzione.

    «Solo il whisky, grazie», risposi sconcertato.

    Sam si allontanò per prendere la mia ordinazione e io ne approfittai per guardarmi un po’ intorno. Scostai le tende e mi affacciai alla finestra. Si vedeva il mare.

    «Che cosa vedi?» mi domandò, di ritorno con due bicchieri.

    «Quella lì è Castelli Sud, giusto? Il lungomare, il porto… Si vede anche l’isola.»

    «Nient’altro?»

    «Non saprei… Che altro c’è?»

    «Dai qua.»

    Mi tolse il whisky dalla mano destra e me lo mise nella sinistra, mi portò l’indice della mano che ora avevo libera davanti all’occhio corrispondente e mi fece chiudere l’altro. Mi spostò la testa in un punto esatto che solo lui poteva calcolare e mi guidò a quella scoperta come un astronomo dal proprio osservatorio guida tra le stelle.

    «La striscia di mare che vedi da quassù è grossa poco più di un dito. Se elimini il mare, cos’altro vedi?»

    «La terra.»

    «Le colline, esatto. Ti dicono niente queste colline? Riescono a restituirti un’immagine diversa da quella di bassi promontori arati?»

    «Sembrano dei tornanti.»

    «Ci sei quasi. Ti aiuto io: ricordano le curve di una donna nuda, un Gulliver in gonnella disteso sensualmente su tutta Castelli Sud, diciamo da Lido fino al porto di S. Secondo. Sulla sinistra ci sono il colle Artemisia e l’isola vulcanica di Dragonella, li vedi? Ecco! Quelli sono i seni, mentre più in là il golfo di San Saturnino dischiude l’ansa dell’ascella che la ninfa gigante lascia scoperta, adagiandosi mollemente. Fratta del Gobbo – dove la leggenda narra che, mentre era a caccia, un faggio secco cadde di colpo sulle spalle di Gilberto il Reuccio, risparmiandogli miracolosamente la vita ma causandogli l’orrendo rigonfiamento – potrebbe indicarne il pube (anche se da dove stiamo noi non si riesce a vederlo). Infine proprio lì, all’estrema destra, c’è Rocca Bertolda: lo spuntone di roccia granitica dove ebbe luogo l’investitura regale del figlio di Gilberto. Non sembra anche a te un ginocchio? E la parete sinistra del monte è la relativa gamba.»

    Una cosa era certa: era etero fin nel midollo. E che immaginazione, che fantasia! Altro che continuare a fissare una parete di vetrocemento per cercare macchinosamente di alimentare il proprio spirito creativo!

    Non feci in tempo a riprendermi dallo smacco che, appena accomodatomi sul sofà, mi lanciò sullo stomaco un fascicolo di fogli stampati al computer.

    «Che roba è?»

    «Il motivo del mio licenziamento. Non mi resta che proporli a Komikenda.»

    La Legge È Uguale Per Tutti

    Alunna – Professore, non capisco perché mi ha messo questo brutto voto: se una parolaccia in un romanzo è artistica, perché in un compito in classe diventa oscena?

    Professore – Per lo stesso motivo per cui se il medico ti dice di spogliarti, tu ti spogli; se te lo dico io, mi denunci!

    Recensioni Bollenti

    – Quel film vale proprio la pena di andarlo a vedere. hai letto le critiche?

    – No. Che dicono?

    – Una delle più belle storie d’amore dai tempi di Bill Clinton e Monica Lewinski!

    Consigli Pratici

    – Questi romani sono dei veri cafoni: ti invitano fuori per il loro compleanno e ti tocca pure pagarti la pizza!

    – Ho un’idea: perché non li inviti a casa tua per il tuo prossimo compleanno?

    – Perché a casa mia?

    – Così gli prepari la pizza!

    Recensioni per Pochi Eletti

    – Quel film vale proprio la pena di andarlo a vedere. Hai letto le critiche?

    – No. Che dicono?

    – Commovente come l’allium cepa Liliaceae, un mix perfetto tra gotico e Pikachu!

    Sogni di Gloria

    – E così sei un tipo ambizioso.

    – Oh, sì. Vorrei tanto che entrando in una stanza la gente si girasse.

    – Da quale parte?

    Separati alla Nascita

    – È quasi un anno che vado in palestra e guarda qua: ho gli addominali scolpiti.

    – E c’era bisogno di andare in palestra?

    – Perché? Vuoi farmi credere che ce li hai anche tu?

    – Certo! Sui miei c’è scolpita una burrata, sui tuoi?

    Storia del Costume

    – Papà, che differenza c’è tra la 1° e la 2° classe nei treni italiani?

    – In 2° classe i servizi igienici sono impraticabili; in 1° sono solo sporchi.

    Il Grande Umorista era Sam. Ora non avevo più dubbi.

    Per sei mesi l’avevo avuto sotto il naso, nello stesso edificio, forse non proprio ogni giorno, forse non proprio a distanza così ravvicinata, visto che io stavo all’ultimo piano e lui rimaneva lì giusto il tempo di consegnare i suoi lavori e prendere un caffè al distributore automatico dell’area break, comunque era là. Un giovane alto, magro, faccia pulita, ogni volta una polo diversa, carino ma non tanto da farsi ricordare e bramare come un bello e impossibile. E noi che pensavamo a chissà quale vip! Un visionario, un pazzo furioso che passava il tempo a crearsi un mondo più originale e gradevole di quello già superbo che poteva ammirare dalla finestra di casa sua; un campanilista sui generis che arrivava a rifare con la fantasia persino la sua Castelli, o che forse tentava solo di rispolverarla dal suo passato da cartolina.

    Sam mi raccontò che molto prima di venire ad abitare in quel quartiere aveva assistito a una mostra personale di un certo signor non ricordo più neanche il nome. Una sua amica scultrice lo aveva pregato di accompagnarcela, e siccome l’avvenimento inaugurava la ristrutturazione di un complesso architettonico a lui molto caro (la Torretta), il ragazzo aveva finito con l’accettare l’invito.

    La collezione di litografie e acqueforti moderne si intitolava Nudo di Castelli. Era affascinante vedere tutti quegli strani soggetti a metà fra panorami naturalistici e ritratti di donne nude; stupiva chiunque, anche gli habitué.

    Molto tempo dopo, quando Sam andò ad abitare in quella mansarda, l’agenzia immobiliare gli confidò che era appartenuta a un pittore romano che, probabilmente stufo di tutta quell’arte dell’Urbe riprodotta un numero incalcolabile di volte da chiunque sapesse spacciarsi un minimo per un artista, era venuto a cercare altrove, e più esattamente a Castelli, l’ispirazione per i suoi nuovi quadri.

    La prima volta che Sam si affacciò dalla sua nuova finestra, riconobbe istantaneamente, in una sorta di déjà-vu, quelle ninfe rocciose, intuendo che il vecchio inquilino altri non fosse che l’autore di quel Nudo di Castelli che egli aveva ammirato tanti anni addietro alla Torretta, e che d’ora in poi avrebbe potuto continuare ad ammirare ogni volta che lo avesse desiderato standosene comodamente affacciato dalla propria finestra. La cosa lo entusiasmava quanto la barba di Babbo Natale può entusiasmare un ragazzino. Giurava che un giorno avrebbe scritto qualche storiella divertente anche su quel panorama.

    Mi chiedevo che posto avesse in tutto ciò la donna dal collo tagliato, perché anche lei non potesse diventare il soggetto strampalato di qualche sua striscia comica, e perché non addirittura la copertina dell’ultima edizione di Komikenda? Che razza di segreto poteva mai celare quella pupattola bionda che non potessimo esorcizzare con qualche scarabocchio e un fumetto? Un paio di baffi sulle labbra azzurrine, una nuvoletta con dentro scritto Baciami! Sarò il tuo uomo morto! e l’incubo sarebbe scomparso.

    Lo pensai fin da subito, ma ci misi molto di più per dirlo anche a Sam.

    Ti ho aspettato ben oltre l’ora di pranzo come una scema.

    Sono in teatro. Non restare in piedi per me.

    Strozzati

    Rientrando a casa dopo aver passato tutto il giorno da Sam, trovai questo biglietto sulla tavola apparecchiata. Melania non si era certo ammazzata di fatica per preparare quel pranzo che io avevo inavvertitamente snobbato, eppure ero riuscito lo stesso a ferire la sua suscettibilità di angelo del focolare.

    Il piatto del giorno prevedeva nuggets al microonde e spinaci al formaggio precotti, di cui potevano intravedersi grumi non sciolti. Gettai tutto nella pattumiera e mi misi al tavolo da disegno. Un turbine di immagini cui volevo dare più colore, più angolazioni, più movimento, mi ronzava nella testa. Sentivo l’esigenza di narrare d’un sol getto tutto quello che avevo scoperto in poco più di mezza giornata, di ingigantirlo in uno storyboard grafico, non solo cerebrale. Ce l’avevo chiaro nella testa, e da lì al foglio il passaggio fu davvero breve: un tratto dopo l’altro, un colore dopo l’altro; la mano disegnava di getto, precisa, come se stesse ricalcando figure già belle e formate al di sotto del foglio immacolato. Uno, due, dieci, trenta tavole in una febbre che mi divorava senza stancarmi, senza farmi riflettere, riguardare, ritoccare quelle appena finite, ma dandomi il tormento perché andassi alla successiva e la completassi in fretta, perché la nuova immagine bussava con urgenza, la nuova sequenza scalpitava ingorda dentro il limbo del mio cervello, imprecando di uscire, di colorarsi, di imprimersi per sempre sulla carta.

    Lavorai tutta la notte a quei disegni, senza decidere uno stile o un taglio particolare, senza preoccuparmi di adottare una strategia di mercato vincente, ma limitandomi a rispondere d’istinto a una sorta di ispirazione che non trovavo più da tempo.

    Non avevo né fame né sete, non il minimo sentore di stanchezza né altra preoccupazione che non riguardasse i miei disegni e la luce al neon che li illuminava. Quando squillò il telefono fu come riprendersi da una passeggiata sonnambula.

    «Ciao amore.»

    «Chi è?»

    «Ma come! Non mi riconosci più? Sono Manolo, sciocco.»

    «Manolo!»

    «Sono inopportuno? Forse è troppo tardi. Sei con qualcuno?»

    «No, sono solo.»

    «Magnifico! Allora faccio un salto a casa tua. Sono al M.O.-M.A., ci metto un attimo.»

    «No Manolo, non mi sembra il caso.»

    «Ma lei non c’è adesso, giusto?»

    Perché no? In fondo io e Manolo eravamo stati bene insieme. Non ci eravamo mai giurati fedeltà a vita, ma finché era durata ci eravamo divertiti, e io non stavo più con un uomo da quando stavo con Melania.

    La distanza tra me e la mia compagna, in effetti, era già arrivata a un punto di non ritorno. Più che dei veri e propri litigi, i nostri erano diventati dei diverbi metalinguistici, ovvero che si autoalimentano e rinnovano grazie alla lingua stessa, il cui reciproco utilizzo, parendo a entrambi errato, finisce inevitabilmente col generare incomprensioni e reciproche recriminazioni. Le réplique di questi vaudeville, in effetti, perdevano l’origine del battibecco e si ampliavano in mille iperboli, dove solo se ci fossimo muniti per tempo di un registratore, avremmo potuto stabilire un vincitore (o assolvere un imputato), ma siccome lo stato di belligeranza scoppiava ogni volta in maniera assolutamente inaspettata, la bandiera della tregua veniva issata solo appena uno di noi due riportava ferite evidenti (avevo sempre la gola che mi doleva) o esauriva le munizioni (troppi sinonimi per dire la stessa cosa o troppe cose per saperle adeguatamente chiamare con il loro nome).

    «Tu l’hai detto.»

    «Io non l’ho mai detto.»

    «Ma se l’ho sentito con le mie orecchie!»

    «Non è vero, non mi hai neanche dato il tempo di finire di dire quello che stavo dicendo. Come fai a sapere già cosa avrei detto?»

    «Lo so perché…»

    «Vedi? Lo vedi che non mi lasci finire?»

    «Pensavo avessi finito.»

    «E invece no!»

    «E come faccio a saperlo? Dimmelo in tempo la prossima volta, così capisco quand’è che tocca a me!»

    «Ma come faccio, se non mi fai finire?»

    «Pensavo avessi finito.»

    «E non interrompermi!»

    Ogni cosa, ormai, era pretesto di insofferenza. Persino il mio beneamato wc en plain air. La camera che, per mancanza di valide alternative, decisi di adibire a gabinetto professionale appena la salute di mio padre lo rese indipendente da me (e le mie finanze mi permisero di comprarmi un posticino dove poter anche far rimanere a dormire un amico), possedeva, infatti, un’unica, piccina finestra da dove il sole, con mio grande rammarico, faceva capolino esclusivamente nei momenti in cui mi trovavo a trafficare da tutt’altra parte. Ma la stanza adiacente – il vero gabinetto – vantava una finestra magnifica, che il sole visitava di continuo colmandola del dono prezioso della sua luce per la maggior parte del giorno. Per un po’ mi convinsi che l’astro aureo, così facendo, non volesse far altro che illuminarmi sul vero luogo degno di una qualche attività intellettiva per svolgere la quale avessi bisogno solo di una seduta e di un certo quantitativo di carta; poi, però, mi forzai a ridestarmi da quel pensiero magico e poco gratificante, e cancellai definitivamente quell’allegoria visionaria che neanche al vecchio Sam sarebbe mai venuto in mente di sceneggiare, optando per tutt’altra spiegazione: se la luce, per qualche astronomico motivo, snobbava tanto il mio living, ce l’avrei fatta entrare con la forza. E da qui l’idea del vetrocemento: sostituii l’originaria parete in calcestruzzo con questi mattoncini bombati appena trasparenti, e non per motivi feticisti, quanto per una meno scandalosa e ben più urgente necessità di illuminazione. Che la nuova parete non isolasse del tutto la vista di una stanza che, per un antico retaggio moralistico, avrebbe dovuto scoprirsi esclusivamente a chi la stesse utilizzando, non mi interessava granché: nel mio appartamento vivevo da solo, la stanza in cui lavoravo non assomigliava neanche lontanamente a quegli uffici di consulenza che potrebbero essere lo studio di un avvocato o di un commercialista; quando avevo ospiti, bastava che questi varcassero la porta di casa ed erano già belli e accomodati… Che preoccupazione poteva dunque destare in me il fatto che la toilette fosse, in un certo senso, en plein air?

    Mi abituai a quelle ombre scomposte come attraverso un prisma, fantasticando ingenuamente sulla vita quotidiana di quelle creature dalla natura gassosa, abitanti di boschi incantati, imprigionate in malefici e incantesimi d’altri tempi, di altre civiltà, finché non udivo lo scarico di una cascata − o cessavo di sentire il gorgoglio di un ruscelletto − e non scorgevo la ninfa dileguarsi con quell’ovvio preavviso e fare la sua apparizione mio padre, la donna delle pulizie, Sam, l’amante del momento.

    Quando la ninfa era l’amante del momento, fantasticare sulla sua ombra di cristallo era un ennesimo, piacevole passatempo cui sapevo dare, nei momenti di maggiore lucidità, spiegazioni di valenza addirittura professionale (Tenere allenata l’immaginazione non può farmi altro che bene.; Dovrei prendere qualche appunto…; Se mi vengono almeno un paio di idee buone, farò fare il guardone anche a Sam.). Quando gli ospiti del wc en plain air erano mio padre, o la donna delle pulizie, o Sam, l’allucinazione era decisamente più contenuta, e la fase di lucidità che ne seguiva si riduceva a una semiconscia negazione della suddetta attività voyeuristica.

    «Non voglio che tu mi stia a guardare quando vado in bagno.»

    «Io non ti guardo quando vai in bagno.»

    «Ah no? E allora com’è che quando esco dal bagno ti trovo sdraiato in poltrona davanti alla parete?»

    «Hai detto bene: davanti alla parete. Non aldilà.»

    «Fa lo stesso. Il vetrocemento ti fa comunque capire cosa sto facendo.»

    «E allora?»

    «Non voglio che tu mi guardi quando vado in bagno.»

    «E questo me lo hai già detto. Ma io ti ripeto che non riesco assolutamente a vederti di là dalla parete. E anche se fosse, che male ci sarebbe?»

    «Lio, non hai rispetto neanche per una donna matura e importante come me?»

    «Non ci posso credere. Ti vergogni?»

    «Chi l’ha detto?»

    «Non ti

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