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Il peso delle ombre. Racconti veri o false storie?
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Il peso delle ombre. Racconti veri o false storie?

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About this ebook

“A chi ha sopportato l’ingiusto peso della menzogna perché accusato a torto di aver mentito e a chi ha raccontato il falso, nella speranza che queste pagine siano d’aiuto per capire perché l’ha fatto.”
Un giorno sul web lessi una notizia: uno skyrunner, sponsorizzato da alcune tra le più importanti marche di materiale alpinistico, aveva annunciato d’essere salito da solo in vetta al K2, l’ottomila pakistano più impegnativo del blasonato Everest. Quel corridore-alpinista stava inanellando la scalata di ogni seconda vetta per altezza di ogni singolo continente: per l’Asia l’obiettivo era il K2.
La vera notizia però era un’altra: al suo rientro in Europa l’alpinista in questione era crollato sotto la pressione dei media e aveva riconosciuto di non aver raccontato la verità. Lo sportivo, tra le lacrime, aveva confessato ai giornalisti di aver mentito al mondo e anche a se stesso.
A tradirlo era stata la presunta foto di vetta che non mostrava alcun riferimento valido per localizzare con certezza il luogo della scatto. Anzi presentava alcuni dettagli sullo sfondo rivelatisi poi traditori: quella foto non era stata scattata sulla vetta, ma in un campo più basso.
La notizia mi colpì e la mia reazione impulsiva fu quella di condanna senza attenuanti per l’alpinista. Aveva osato infangare uno sport tradizionalmente basato sulla fiducia e aveva tradito uno dei principi fondamentali che dovrebbero regolare ogni attività umana: il rispetto della verità.
A incuriosirmi erano due aspetti: da un lato la dinamica della nascita di una vera o presunta menzogna, dall’altro le conseguenze sulla vita del protagonista volontario o involontario di queste polemiche.
Che cosa accade nella nostra testa – mi chiedevo – quando decidiamo di mentire? È un meccanismo impalpabile della psiche con il quale siamo tutti già stati confrontati nella nostra vita... e non solo chi va in montagna.
A stimolarmi nella scrittura di questo libro è stata anche la scoperta dell’influenza che questo sterile gioco di “vero” o “falso” – finito in alcuni casi nelle aule di tribunale – ha avuto sui destini personali di ogni suo attore. Ho scelto di occuparmi solo dei casi con una forte valenza umana.
L’impatto di una bugia, o il solo sospetto di una menzogna, hanno condizionato molti destini umani e, nel caso specifico, di alpinisti: alcuni noti, altri meno conosciuti dal grande pubblico. Sono ombre che i protagonisti di questo libro hanno portato nel proprio zaino per tutta la vita.
Nell’alpinismo non c’è ancora la necessità di una prova inconfutabile di onestà/colpevolezza, come quella del DNA che può salvare – come avvenuto a più riprese negli Stati Uniti – un condannato dall’esecuzione capitale.
Cancellare l’ombra di un dubbio rimane perciò spesso un’impresa impossibile.
Mentre lavoravo a questo libro un giorno mi è ricapitata tra le mani la mia foto di vetta sul Cho Oyu: sullo sfondo si vedono solo alcune nuvole e qualche sprazzo di cielo blu. Nessun punto di riferimento sicuro per localizzare in modo inequivocabile il luogo in cui è stata scattata.
Mi sono chiesto: E se qualcuno un giorno volesse mettere in dubbio la mia scalata?
In quel momento ho avvertito quanto possa pesare un’ombra.

LanguageItaliano
Release dateJul 27, 2017
ISBN9788897308782
Il peso delle ombre. Racconti veri o false storie?
Author

Mario Casella

Mario Casella (1959) è laureato in lettere e pratica fin da ragazzo l’alpinismo.Nel 1985 ottiene il diploma di guida alpina. Nello stesso anno inizia la sua attività giornalistica abbinandola a quella di guida sulle montagne del mondo intero.Il giornalismo lo impegna dapprima per la radio e poi per la televisione (RSI – Radiotelevisione della Svizzera italiana).Dopo i primi anni radiofonici alle Redazione Esteri del Radiogiornale, passa alla Tv per la quale realizza numerosi documentari e inchieste, soprattutto all’estero (caduta del muro Berlino, ex Germania est, ex paesi dell’est, Russia, Cernobyl, guerre balcaniche, Afghanistan, ecc.).Dopo molteplici esperienze sull’intero arco alpino, ha salito alcune tra le cime più alte del mondo (Alaska, Ande e Himalaya).Dal 2004 al 2007 è stato produttore responsabile del “Magazine” d’informazione televisivo della RSI “Falò”. Nella primavera del 2007, pur mantenendo un contratto a tempo parziale con RSI, ha lasciato questa carica per dedicarsi maggiormente alla montagna, alla documentaristica indipendente, alla scrittura e alla famiglia.E’ sposato con Lisa e padre di due figli: Emma (12 anni) e Zeno (14 anni).

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    Il peso delle ombre. Racconti veri o false storie? - Mario Casella

    Introduzione

    Avrebbe preferito davvero essere malato di cancro piuttosto che di menzogna – perché anche la menzogna era una malattia, con la sua eziologia, i suoi rischi di metastasi, la sua prognosi riservata –, ma il destino aveva voluto che si ammalasse di menzogna, e non era colpa sua.

    Emmanuel Carrère

    Il giornalismo e l’alpinismo sono sempre state due paia di scarpe in cui ho infilato con passione i miei piedi. Un passo dopo l’altro, queste due attività mi hanno portato a incrociare su due diversi terreni il tema scivoloso della verità. In montagna mi capitava di sentire voci anche esperte che mettevano in dubbio le imprese eroiche di alpinisti che ammiravo. In quei momenti ero travolto da una valanga d’interrogativi: quanto si può essere onesti quando si persegue, magari in solitaria, un obiettivo difficile e rischioso come la scalata di un ottomila o di una parete ancora inviolata? E come cambia la vita di un alpinista su cui cade l’ombra del sospetto?

    Verso la fine degli anni ’90, nel pieno della mia carriera giornalistica, ebbi l’occasione di osservare da vicino la natura e le conseguenze della menzogna in un ambito completamente diverso: lo scenario della grande politica. Era il 1997, il mio primogenito Zeno era nato da pochi mesi e io praticavo l’alpinismo senza più la sfrontatezza giovanile davanti al pericolo, ma con la perseveranza dettata da una sincera passione per la montagna e lo sforzo fisico. Sul piano professionale mi sentivo invece svuotato dalla superficialità imposta dai ritmi senza respiro nella copertura quotidiana dell’attualità internazionale.

    Con mia moglie Lisa decidemmo allora che era giunto il momento di fare il grande passo e di gettarci in una nuova avventura professionale e umana. In quell’anno ci trasferimmo a Washington, dove avevo ottenuto un incarico come corrispondente dagli Stati Uniti per la televisione svizzera. Finalmente avrei potuto calarmi di persona in quel paese per raccontarlo al pubblico: una sfida affascinante e ricca di promesse.

    L’impatto con la realtà della superpotenza americana fu però destabilizzante: era appena scoppiato lo scandalo degli incontri fin troppo ravvicinati tra la stagista Monica Lewinsky e Bill Clinton. La giovane donna aveva svelato ripetuti momenti d’intimità con il presidente, spingendosi fino al dettaglio di una fellatio avvenuta mentre Clinton era al telefono con un deputato del Congresso. Per mesi il mio più grande problema fu trovare dei sinonimi eleganti per non usare la parola «pompino» ogni volta che dovevo parlare di ciò che avveniva nell’ufficio ovale della Casa Bianca. A fine gennaio del ’98 il presidente era apparso in televisione, puntando il dito ammonitore e il suo sguardo pungente verso la telecamera: «Ascoltatemi bene. Lo ripeto: non ho avuto rapporti sessuali con questa donna. Non ho chiesto a nessuno di mentire, non una sola volta: mai. Queste accuse sono false». Sette mesi dopo lo stesso Clinton, torchiato da una commissione d’inchiesta, riapparve sui teleschermi per riconoscere di aver avuto delle «relazioni fisiche inappropriate» con Monica Lewinksy.¹

    E se Clinton aveva mentito per nascondere uno scandalo sessuale, che dire di Ronald Reagan, che aveva mentito sulla vendita segreta di armi all’Iran per finanziare la guerriglia contro il governo rivoluzionario sandinista in Nicaragua, o del segretario di Stato Colin Powell, che il 5 febbraio 2003 aveva mostrato al Consiglio di sicurezza dell’ONU una fialetta di antrace come prova – falsa – delle armi di distruzione di massa detenute dall’Iraq? Il regime di Saddam Hussein, dichiarò Powell, aveva già prodotto venticinquemila litri della micidiale sostanza: una scusa perfetta per giustificare un nuovo intervento militare. Pochi mesi dopo, quando la guerra in Iraq ordinata da George W. Bush Jr. era già iniziata, fu lo stesso Powell ad ammettere, costernato, che il suo discorso a New York era basato su false informazioni raccolte dall’intelligence americana.

    Più di recente, la propensione dei politici americani alla menzogna ha avuto un degno seguito con la valanga di panzanate propinate dal magnate Donald Trump durante la sorprendente campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca, come la notizia che Barack Obama non è nato negli Stati Uniti o la statistica secondo cui i bianchi uccisi dalla polizia sono più numerosi dei neri.

    La menzogna non è però una prerogativa esclusiva di Washington. Dall’altra parte del mondo Vladimir Putin, lo zar del Cremlino, ha negato la presenza di soldati russi schierati in Ucraina, e in Gran Bretagna Nigel Farage e Boris Johnson hanno snocciolato una serie di falsità nella loro propaganda a favore della Brexit per uscire dall’Unione europea. Per non parlare dell’economia: basta pensare allo scandalo scoppiato negli Stati Uniti nel settembre del 2015, quando si è scoperto che l’azienda tedesca Volkswagen aveva prodotto motori diesel truccati per risultare meno inquinanti.

    La deriva generalizzata della verità ha addirittura spinto il dizionario Oxford della lingua inglese a proporre il termine post-truth, post-verità, come parola dell’anno per il 2016.

    Dopo la mia temporanea full immersion nella menzogna della politica internazionale, rientrai ai piedi delle Alpi svizzere e rimisi gli scarponi. Fu a partire da quel periodo che cominciai a riflettere sul tema della bugia in montagna. Mi capitava infatti con una certa frequenza di imbattermi in storie di alpinisti, anche già affermati, che avevano dichiarato di aver scalato una cima prestigiosa ed erano stati contestati o smentiti da altri alpinisti o da cronisti qualificati del settore.

    Queste storie, con il loro strascico di polemiche, suscitavano in me un misto di fastidio e di indignazione nei confronti di chi aveva osato tradire uno dei principi fondamentali che dovrebbero regolare ogni attività umana: il rispetto della verità. L’alpinismo era per me una sorta di isola felice in cui il valore della parola data era assoluto. Affermi di aver scalato una cima? Ti credo e non mi occorrono prove.

    In parte era stato il desiderio di integrità morale a spingermi verso le montagne. Vivevo il successo di un’inchiesta giornalistica ben fatta con le stesse sensazioni che provavo nel raggiungere una vetta da una via impegnativa: con la soddisfazione di aver perseguito il mio obiettivo con pulizia e onestà, senza inganni o trucchi di sorta. Eppure non tutti gli alpinisti si comportavano correttamente.

    Oltre all’irritazione, le storie di menzogne in montagna risvegliavano in me il tarlo della curiosità. Che cosa accade nella nostra testa – mi chiedevo – quando decidiamo di mentire? Per documentarmi e affinare la mia percezione iniziai a leggere con voracità tutto ciò che trovavo su questo tema. Volevo capire quali possono essere i fattori che spingono a falsare la realtà o a negare l’evidenza. Come si riesce a perseverare nella menzogna quando le prove dell’inganno sembrano schiaccianti? E come si può sopportare l’accusa di aver raccontato il falso nel caso in cui ci si sia comportati onestamente?

    Mi accorsi allora che i libri più rivelatori non erano i saggi di psicologia o di sociologia, bensì alcune opere letterarie che ruotano attorno al tema della bugia e della finzione: dal Don Chisciotte di Cervantes ai personaggi di Doppia menzogna di Shakespeare, dal Pinocchio di Collodi al Felix Krull di Thomas Mann. Uno dei capolavori recenti e più efficaci di questo filone è senz’altro L’avversario dello scrittore francese Emmanuel Carrère.² Il succo del suo romanzo-verità è riassunto nella quarta di copertina del volume: «Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L’inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico, come sosteneva e, cosa ancora più difficile da credere, che non era nient’altro. Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo».

    L’aspetto più destabilizzante del romanzo di Carrère è che racconta una storia tragicamente vera: una vita costruita sull’inganno anche nei confronti delle persone più care al protagonista. «Di norma – scrive Carrère – una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand». È una storia che getta una luce inquietante sugli estremi cui può arrivare il meccanismo della menzogna.

    Sono gli stessi eccessi che lo scrittore spagnolo Javier Cercas ha sviscerato in un libro-inchiesta di successo, L’impostore, dedicato alla figura di Enric Marco, un sedicente militante antifranchista che aveva ricoperto per anni la carica di presidente dell’associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Nel 2005 fu smascherato: Marco non era mai stato internato in un campo di sterminio e i racconti della sua lotta antifranchista erano tutti falsi. L’autore si avventura in una dolorosa esplorazione della psiche del protagonista, incontrandolo più volte per lunghe discussioni. I suoi interrogativi trovano però solo risposte parziali. Nelle pagine conclusive del libro, quando fa il bilancio delle bugie raccontate da Enric Marco, l’autore annota: «La cosa peggiore è che non credo che l’abbia fatto in malafede, in realtà ne sono sicuro. Era puro egoismo. Io, io, io, io e io! Pura ignoranza, pura incoscienza. Se Marco avesse saputo davvero cosa significa tutto questo, se l’avesse capito davvero, non avrebbe mai fatto quello che ha fatto».³

    La mia escursione nella storia della menzogna tra attualità e letteratura ha fatto emergere in modo chiaro l’importanza di questo tema nella vita umana: anche gli eroi o i grandi personaggi, reali o leggendari, mentono. L’impostore è sempre in agguato dietro l’angolo. Le storie che stavo raccogliendo sul mondo della montagna mostravano la stessa vischiosità dei testi letterari: in assenza di prove certe, il dubbio si insinuava, la polemica divampava, e diventava difficile distinguere la verità dalla menzogna.

    Lo scopo di questo libro non è quello di ristabilire la verità su alcuni tra i più controversi capitoli della storia dell’alpinismo, ma di sviscerare di volta in volta le conseguenze che una presunta menzogna ha avuto sulla vita di chi l’ha raccontata o subita. Ho scelto di esaminare solo i casi con una forte valenza umana, senza preoccuparmi di compilare un elenco esaustivo ed enciclopedico di tutte le polemiche nate sulle montagne. Nel mio setaccio ho cercato di salvare le vicende più rappresentative: quelle che hanno trasformato una scalata in un tormento interiore senza fine.

    A stimolarmi è stata anche la scoperta dell’influenza che l’accertamento della verità – talvolta con strascichi nelle aule dei tribunali – ha avuto sui destini personali di ogni suo attore. L’impatto di una bugia o il sospetto di una menzogna hanno condizionato il futuro di molti alpinisti, più o meno noti al grande pubblico. Sono ombre che i protagonisti di questo libro hanno portato nel proprio zaino per tutta la vita.

    Indice

    Indice

    1

    Christian Stangl

    L’ombra della paura sul K2

    Un buon bugiardo inizia sempre dall’autoinganno.

    Peter Stiegnitz

    Sul finire dell’estate del 2010 un fulmine squarcia il cielo digitale della rete. È l’ammissione di una menzogna, di un inganno che indigna l’intera comunità alpinistica internazionale. Con la voce rotta dall’emozione Christian Stangl, noto alpinista e skyrunner austriaco, confessa: «Non ho raggiunto la vetta del K2 come da me annunciato pochi giorni fa». Il selfie postato in rete quale prova della sua impresa era stato scattato a 7500 metri di quota: oltre mille metri sotto la vera cima! La scalata in solitaria, senza ossigeno e in 70 ore da campo base a campo base, annunciata il 13 agosto precedente, in realtà non era avvenuta.

    La notizia, diramata da una saletta dell’Hotel Bristol a Vienna, sconvolge la tranquillità mattutina del 7 settembre 2010 propagandosi da un sito Internet specializzato all’altro. Ne apprendo i dettagli durante uno dei miei regolari vagabondaggi tra i siti web dedicati alla montagna, proprio nei giorni in cui per la televisione svizzera sto preparando un documentario sui campioni dello sport che a un certo punto della loro carriera hanno vissuto una crisi profonda, sfociata per alcuni anche nel suicidio.

    L’elenco dei casi tra cui pescare per raccontare questa faccia nascosta dello sport competitivo si andava completando. Nel mio quadernetto avevo annotato vari nomi. In prima fila vi erano i calciatori: dal dirigente della Juventus Gianluca Pessotto ai portieri di due nazionali rivali, l’italiano Gigi Buffon e il tedesco Robert Enke.

    Gianluca Pessotto, ex difensore juventino e della nazionale italiana, tentò il suicidio gettandosi da un abbaino della sede del club torinese con un rosario fra le mani. Lo salvò il tettuccio di un’auto parcheggiata. Una vicenda che nel 2008, due anni dopo il disperato gesto, il calciatore ha raccontato in un libro dal titolo emblematico: La partita più importante.

    Se Gianluigi Buffon, dopo una sfibrante crisi depressiva, era guarito e più attivo che mai tra i pali, il portiere tedesco Robert Enke invece non ce l’aveva fatta: in una serata d’autunno del 2009 si era gettato sotto un treno dopo sei anni caratterizzati da un’insopportabile alternanza di periodi depressivi e guarigioni.

    Anche nel ciclismo, disciplina per la quale si parla soprattutto di doping, la depressione e il burn out si nascondono dietro ogni colpo di pedale. I nomi più noti vanno dallo spagnolo José Maria Jimenez detto «El Chava» (il selvaggio), morto per infarto a inizio dicembre del 2003 mentre era ricoverato in una clinica psichiatrica madrilena per una sindrome depressiva, al «Pirata» Marco Pantani, colpito dallo stesso male tra il 2001 e il 2003 e morto a Rimini il 14 febbraio 2014 per una overdose di cocaina in un contesto dai retroscena non ancora del tutto chiari.

    A questa lista che viaggia sulle due ruote si aggiunge il caso dello svizzero Pascal Richard, che nel 1996 vinse la prima medaglia d’oro dell’allora neonata disciplina olimpica del ciclismo su strada. Richard si era peraltro già aggiudicato varie corse classiche nella prima metà degli anni ’90. Anche lui fu colpito da una depressione e, come ci avrebbe poi raccontato per il nostro documentario televisivo, era arrivato a un passo dalla messa in atto delle sue pulsioni suicide quando aveva appreso la notizia della morte di Pantani.

    Per quanto riguarda gli sport più popolari in Svizzera – quelli legati alla neve e allo sci – mi ero concentrato sulla crisi più nota tra gli appassionati elvetici: quella del saltatore con gli sci Simon Amman, l’«Harry Potter volante», che dopo il suo doppio oro olimpico di Salt Lake City nel 2002 aveva attraversato un periodo vuoto di risultati e caratterizzato da difficoltà psicologiche e di motivazione.

    Con il procedere della preparazione per il documentario, la lista di nomi potenzialmente interessanti si allungava di giorno in giorno toccando ogni tipo di sport. Stavo iniziando a prendere contatto con i primi nomi della lunga lista e incassavo i primi prevedibili rifiuti e segnali di chiusura. Il tema era troppo delicato, soprattutto per chi aveva trovato il modo di uscire dal tunnel.

    Proprio in quei giorni scoppia il caso dello skyrunner austriaco: una stella dell’alpinismo internazionale, nota per essere salita in tempi da primato sulle montagne più alte di ogni continente, crolla sotto la pressione mediatica e annuncia in lacrime di aver mentito. Intuisco che proprio questa potrebbe essere una delle storie da raccontare per meglio capire cosa può accadere nella testa di uno sportivo di alto livello.

    Nella fase di preparazione del mio reportage televisivo avevo passato in rassegna tutti gli sport competitivi, tralasciando l’attività fisica che io pratico con maggiore frequenza: l’alpinismo. La mia mente si rifiutava di includerlo nella categoria degli sport competitivi, anche se la passione per la montagna può trasformarsi in una sfida impietosa, con tanto di cronometro, diplomi, medaglie, fama, sponsor, doping, menzogne e tradimenti. Il meglio e il peggio di ogni altra disciplina sportiva.

    Con frenesia mi metto a scrivere un messaggio di posta elettronica all’addetto stampa di Stangl, il cui nome è riportato nei dispacci d’agenzia provenienti da Vienna. Soppesando le parole gli spiego il progetto di documentario televisivo, elencando i nomi delle persone già contattate e sottolineando che non è mia intenzione demonizzare nessuno. Voglio piuttosto tentare di chiarire i meccanismi e i motivi scatenanti di queste crisi della psiche che in alcuni casi si sono chiuse con una soluzione estrema.

    Che cosa distingue questa mia richiesta dalle altre che di sicuro Christian Stangl sta ricevendo? Semplice: io sono un assiduo frequentatore dell’alta montagna e, proprio come Stangl, sono anche una guida alpina. La mia personalità di giornalista e di autore di documentari passa in secondo piano per questo caso specifico.

    Schiaccio il tasto «invia» senza grandi speranze.

    Resto quasi senza parole quando, rispondendo a una chiamata, sento dall’altro capo della linea una voce un po’ roca con un forte e inconfondibile accento austriaco. È Christian Stangl. Ha appena parlato con l’amico che tiene i contatti con la stampa e vuole sapere con maggior precisione chi sono – durante la chiacchierata mi accorgo che ha già fatto un po’ di ricerche in rete – e cosa ho in mente. Ottenuti i chiarimenti richiesti, dice che vuole pensarci su per qualche giorno. Sento che si

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