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L’assistenza come sistema. Dal controllo sociale agli apparati previdenziali: San Marino tra età moderna e contemporanea
L’assistenza come sistema. Dal controllo sociale agli apparati previdenziali: San Marino tra età moderna e contemporanea
L’assistenza come sistema. Dal controllo sociale agli apparati previdenziali: San Marino tra età moderna e contemporanea
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L’assistenza come sistema. Dal controllo sociale agli apparati previdenziali: San Marino tra età moderna e contemporanea

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Nel corso dell’età moderna i meccanismi assistenziali, sotto la spinta di una povertà sempre più diffusa e appariscente, subiscono delle profonde trasformazioni. Da un’assistenza a carattere privato ed episodico, basata sulla beneficenza, gestita da corporazioni, confraternite, ospizi ed ordini religiosi, si passa a forme di intervento più stabili ed organiche, come risultato di un impegno pubblico e laico da parte di organi di governo cittadini o dei primi apparati statali. L’approdo di questo processo è la nascita, tra XIX e XX secolo, del moderno Stato sociale, che implica la crescente assunzione di ogni responsabilità nei confronti di poveri e bisognosi da parte degli enti pubblici. San Marino si inserisce in questo contesto con caratteri propri. È il notabilato locale, saldamente al potere, in grado di controllare tutte le istituzioni repubblicane, che gestisce direttamente anche la beneficenza, in quanto fonte di consenso e di legittimazione politica. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo, grazie al nuovo clima politico che caratterizza la Repubblica, anche il sistema assistenziale di San Marino approda alla definitiva formulazione di un Welfare State che non si limita ad offrire semplici sussidi, ma che prevede forme stabili di previdenza e di assicurazione sociale. Il titolo del volume allude a quelle attività assistenziali che nel corso del tempo assumono, seppur molto lentamente, una configurazione “di sistema”. È abbastanza chiaro ed evidente come queste ultime non abbiano ancora, in età moderna, un simile carattere. Ciò che si vuole raccontare è proprio il percorso che da tale mancanza di organicità conduce alla piena formulazione dell’assistenza come sistema in sé, che negli anni del secondo dopoguerra assume i connotati di un vero e proprio modello. 

L'autore
Augusto Ciuffetti è ricercatore di storia economica presso il Dipartimento di scienze economiche e sociali dell’Università Politecnica delle Marche. È direttore della rivista «Patrimonio industriale», membro del comitato direttivo di «Ricerche storiche» e del consiglio scientifico di «Proposte e ricerche». È socio onorario dell’Istituto Europeo di Storia della Carta di Fabriano.
LanguageItaliano
Release dateJul 25, 2017
ISBN9788898275595
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    L’assistenza come sistema. Dal controllo sociale agli apparati previdenziali - Augusto Ciuffetti

    Conclusioni

    Introduzione

    Assistenza e controllo sociale

    In tutti i centri più o meno grandi della penisola italiana, nel corso dell'età moderna, l'evoluzione dei sistemi assistenziali presenta caratteri simili, riconducibili a una serie di problemi ed esigenze i cui termini di riferimento sono l'intensificarsi dei processi di impoverimento di larghi settori delle plebi urbane e rurali da un lato e la predisposizione dei relativi meccanismi di controllo sociale dall'altro. Il pauperismo, infatti, se impone l'individuazione di specifici interventi per aiutare e sostenere i più bisognosi, nello stesso tempo determina anche la necessità di un'azione volta a garantire il mantenimento dell'ordine pubblico e degli equilibri sociali messi in discussione da poveri o marginali relegati nell'universo della diversità, i quali, assumendo le connotazioni del mendicante e del viandante, secondo uno schema sociale e mentale che assegna alla mobilità una valenza negativa, si trasformano in possibili devianti, capaci di alimentare rivolte e ribellioni o più semplicemente di macchiarsi di crimini comuni come il furto[1].

    Nel corso dell'età moderna, dunque, i meccanismi assistenziali, sotto la spinta di una povertà sempre più diffusa e difficile da gestire, determinata dalla crescita demografica e dal continuo ripetersi di crisi alimentari e di sussistenza, con relativi aumenti nei prezzi del grano, ma anche da consistenti processi di concentrazione delle proprietà terriere, che erodono i piccoli possedimenti contadini e le pratiche comunitarie in direzione di una sempre maggiore commercializzazione dei prodotti agricoli, subiscono delle profonde trasformazioni, con elementi di novità che si sovrappongono alle inevitabili permanenze. Da un'assistenza a carattere privato ed episodico, basata sulla beneficenza, gestita da corporazioni, confraternite, ospizi ed ordini religiosi si passa, in realtà molto lentamente, a forme di intervento più stabili ed organiche, come risultato di un impegno pubblico e laico da parte di organi di governo cittadini e dei primi apparati statali. Tale processo conduce alla nascita, tra XIX e XX secolo, del moderno Stato sociale, che implica la totale assunzione di ogni responsabilità nei confronti di poveri e bisognosi da parte degli enti pubblici. Secondo un processo di lungo periodo, infatti, gli indigenti non sono più tutelati dalle famiglie (i nuclei allargati tendono a scomparire), dalle comunità (i processi migratori rompono i vincoli di solidarietà) e dalle istituzioni religiose. Sempre tra Otto e Novecento, la progressiva nascita dello Stato sociale comporta anche un ampliamento degli interventi: ad essere aiutati non sono più soltanto i poveri e i marginali, ma anche i lavoratori posti nei livelli più bassi della stratificazione sociale. Si tratta di un processo che nel corso del XX secolo determina la definitiva affermazione del Welfare State, che nei suoi interventi assistenziali e previdenziali arriva a coinvolgere, seppure con modalità e tempi diversi a seconda delle diverse realtà statali, tutti i cittadini[2].

    Con il definitivo superamento della cultura medievale e della sua particolare visione del miserabile, riconducibile ad una matrice fortemente religiosa, le società preindustriali elaborano delle idee nuove e complesse intorno alla figura dell'indigente. In questa prospettiva i poveri si possono classificare in tre grandi gruppi. Il primo comprende i mendicanti e i viandanti, le persone inabili, cioè storpi e infermi, ma anche i trovatelli, destinati ad essere assistiti in modo perpetuo all'interno degli ospedali o di istituti simili: nelle città italiane della prima età moderna essi rappresentano il 4-8% dell'intera popolazione, anche se queste percentuali hanno un carattere del tutto indicativo. Nel secondo gruppo si collocano, invece, coloro che vivono ai margini della povertà, destinati a chiedere l'elemosina saltuariamente, solo in occasione di crisi alimentari ed economiche determinate da eventi congiunturali come carestie e guerre; si tratta di figure riconducibili ai salariati, spesso incapaci di pagare i propri debiti: non solo braccianti e contadini espulsi dalla terra, ma anche artigiani ed apprendisti, che arrivano a rappresentare il 20-30% della popolazione di una città. Nel terzo gruppo, infine, si collocano tutte quelle figure subalterne di lavoratori con reddito insufficiente e incapaci di accumulare dei risparmi da utilizzare nei momenti di maggiore difficoltà. Si tratta della maggior parte delle popolazioni urbane, pari a una quota compresa tra il 50 e il 70% del totale. I primi secoli dell'età moderna vedono la comparsa, infine, di una nuova categoria di indigenti: quella dei poveri vergognosi, nobili decaduti o ricchi artigiani colpiti dalla miseria, incapaci di chiedere l'elemosina a causa della loro originaria condizione[3].

    Il lento passaggio dall'assistenza privata e religiosa basata sulla beneficenza e sulla carità cristiana a quella a carattere istituzionale è determinato dall'avanzamento del processo di secolarizzazione, che riduce il patrimonio della Chiesa e le sue possibilità di intervenire a favore dei poveri, e dal contemporaneo aumento di questi ultimi. Le istituzioni tradizionali, infatti, si rivelano incapaci di far fronte alle nuove ondate di pauperismo. Nello stesso tempo, per contenere i costi degli interventi e per renderli più razionali si procede anche ad una classificazione della povertà, per distinguere i veri poveri, che meritano di essere assistiti, da quelli falsi, cioè ladri, imbroglioni e vagabondi che preferiscono vivere di espedienti, piuttosto che lavorare. Il primo criterio utilizzato per procedere in questa delicata operazione viene individuato nella distinzione tra i mendicanti residenti e quelli occasionali, che sopraggiungono all'interno degli spazi urbani in conseguenza a carestie e all'endemica povertà delle campagne, o perché espulsi da altri luoghi. Un secondo criterio riguarda le condizioni fisiche dei poveri, che comporta la ripartizione degli stessi in abili e inabili al lavoro: solo questi ultimi meritano di essere accolti ed assistiti all'interno delle città, dove si concentrano le strutture assistenziali. Tutto ciò comporta due inevitabili conseguenze: da un lato si moltiplicano le truffe e gli espedienti per accedere alle diverse forme assistenziali; dall'altro, aumentano le discriminazioni legate alla paura per il diverso e lo straniero, spesso ingiustamente accusati di ogni colpa, in riferimento a comportamenti o eventi criminali, che le comunità organizzate e stabili non riescono a comprendere ed accettare.

    È nei confronti di questo universo di donne e di uomini che le istituzioni pubbliche si muovono cercando di affrontare la povertà e di gestire l'assistenza attraverso interventi strutturali oppure a carattere congiunturale, questi ultimi adottati in occasione di carestie o altre crisi, che fanno aumentare improvvisamente il numero di coloro che affluiscono all'interno degli spazi urbani in cerca di aiuto e sostegno. Dal Cinquecento in poi, accanto all'espulsione, la principale forma di intervento sperimentata nelle più grandi città europee per contenere e controllare le masse dei poveri è la reclusione. Nascono, così, enormi strutture detentive come ospedali, carceri e brefotrofi le quali, pur tenendo conto delle loro specifiche finalità, servono soprattutto per ricoverare, in maniera generalizzata, poveri e vagabondi. Il loro scopo, infatti, è duplice: assistere, ma anche delimitare le diverse forme di devianza. Tale fenomeno si accentua nel corso del Seicento, non a caso definito come il secolo della grande reclusione. Se il principale criterio per distinguere il povero vero da quello falso passa attraverso la sua presunta inabilità al lavoro, quest'ultimo si configura anche come l'unico strumento per sottoporlo ad una forma di disciplina capace di rieducarlo e di inserirlo di nuovo all'interno della società[4]. In tutti i reclusori ed ospizi di vario genere che nascono durante l'età moderna si svolgono diverse e numerose attività lavorative, non solo per lo stesso funzionamento delle strutture, ma anche per inculcare nei ricoverati l'idea del lavoro come un riferimento fondamentale per essere accettati e riconosciuti all'interno di una società.

    Il controllo della mendicità non si impone solo per motivi di ordine pubblico, ma anche per esigenze di carattere igienico e sanitario. All'indigenza e alla possibilità di spostamento è sempre abbinata, infatti, almeno fino al XIX secolo, la paura per la diffusione delle epidemie. È all'inizio dell'età moderna che il nesso tra miseria e malattia diventa sempre più forte ed esclusivo. I poveri, in particolare gli stranieri, vengono reclusi o allontanati in quanto possibili portatori di contagio. Nella mentalità collettiva si consolida l'immagine del vagabondo, del forestiero che nessuno conosce, che arriva all'interno della comunità per portare le malattie o per avvelenare le acque. La malattia, inoltre, diventa fattore di emarginazione non solo perché ad essa si associano le epidemie, ma anche per la ripugnanza e il disprezzo che suscita, per le deformità che provoca. In definitiva, a partire dall'inizio dell'età moderna, con apposite leggi, si inizia a perseguire miserabili e vagabondi, colpevoli di essere oziosi e quasi sempre considerati dei delinquenti, secondo uno schema di riferimento che rimane sostanzialmente immutato fino al XIX secolo. Se la povertà è inevitabile, quindi da accettare ed affrontare con sistemi assistenziali legati alla beneficenza, il vagabondaggio, invece, si carica sempre di una valenza negativa e va combattuto perché danneggia i veri poveri, meritevoli di essere aiutati.

    In riferimento alle diverse realtà territoriali dell'Italia moderna, dopo la nascita degli ospedali e di altre singole istituzioni preposte alla gestione di specifiche attività assistenziali, ma anche alla semplice reclusione, come manicomi e carceri, è nel corso dell'Ottocento, attraverso le opere pie e le congregazioni di carità, che si arriva ad una prima sistematica organizzazione dell'assistenza. Si tratta, però, di enti che nella loro organizzazione risentono ancora degli assetti che provengono dal passato, con un ruolo centrale assegnato non solo alla religione, ma anche alla carità esercitata da notabili locali che utilizzano questo strumento per rafforzare la propria posizione sociale. In generale, dopo la parentesi napoleonica, la Restaurazione determina il ritorno a una carità privata in grado di esaltare le virtù morali e religiose del benefattore.

    In ogni caso, l'Ottocento, per la storia dell'assistenza e della sanità, si configura come un secolo nel quale si rafforzano i processi di trasformazione: mentre gli ospedali iniziano a perdere la loro originaria funzione di semplici contenitori di malati e poveri per diventare dei luoghi di cura, si rafforza anche il ruolo pubblico dello Stato rispetto agli enti e alle istituzioni religiose, seppur con molte varianti in riferimento alle singole realtà regionali. Mentre in Lombardia e nel Veneto lo Stato acquista un ruolo centrale e indiscusso, con la nomina degli amministratori delle opere pie di competenza del governo, in Piemonte esso si limita esclusivamente a un controllo di natura economica, verificando i bilanci degli enti assistenziali. Nello stesso tempo, si favorisce il decentramento dell'intero sistema a livello provinciale e comunale, con la costituzione di nuove congregazioni di carità. La sanità pubblica è affidata al Ministero dell'Interno, con i sindaci che a livello locale assumono anche le funzioni proprie degli ufficiali di polizia sanitaria. Nel Lombardo-Veneto per i poveri si prevede, inoltre, l'assistenza ospedaliera gratuita. Le spese per il servizio sanitario e per la beneficenza sono a carico dei singoli comuni, ognuno dei quali deve avere un medico condotto e un cimitero. Del resto, l'Ottocento si configura anche come il secolo durante il quale si procede alla medicalizzazione e al controllo sanitario degli spazi urbani. Medici e commissioni mediche, infine, sono presenti in tutti i livelli della struttura amministrativa dello Stato. Il principio del controllo pubblico attuato in Piemonte caratterizza anche la Toscana e i ducati di Modena e Parma. In Toscana, nel 1827, le opere pie vengono sottoposte alla tutela dei comuni e per il loro sostegno, fin dal 1816, viene istituita una tassa di beneficenza sui generi di consumo. In ogni caso, spetta ai comuni finanziare i servizi sanitari. Particolarmente avanzata, in Toscana, è anche la legislazione sulla polizia sanitaria, di competenza del Ministero dell'Interno, che la esercita attraverso i commissari e i vicari regi. Nel 1854 si autorizza, infine, l'istituzione di commissioni sanitarie municipali destinate ad occuparsi, tra le altre cose, anche della salubrità delle abitazioni. A differenza di quanto accade nell'Italia settentrionale, nello Stato pontificio manca un valido sistema pubblico di controlli. Le opere pie, secondo le diverse caratteristiche locali, sono amministrate dal clero e dipendono dai vescovi, con un sostanziale ritorno, rispetto al periodo napoleonico, alla carità individuale. Sui comuni ricadono anche alcune spese sanitarie e l'intera beneficenza, mentre il sistema sanitario, nel suo complesso, fa capo a una congregazione centrale. La stessa mancanza di controlli caratterizza anche il sistema assistenziale dell'Italia meridionale, organizzato su tre distinti livelli controllati dal clero e dagli esponenti dei ceti dirigenti locali: le opere pie, le commissioni comunali e i consigli degli ospizi. Il mantenimento degli esposti e la cura gratuita dei poveri sono a carico dei comuni. Il sistema sanitario, invece, è organizzato intorno alla figura del supremo magistrato di sanità e alla sovrintendenza generale, con sede a Napoli e Palermo; da quest'ultima dipendono gli intendenti e le deputazioni locali[5].

    Con il compimento del processo di unificazione nazionale, anche in Italia si avvia, in maniera definitiva, il percorso che conduce alla nascita dello Stato sociale. Nel 1862 viene varata la prima legge sulla beneficenza, la quale, in riferimento alla gestione delle opere pie, riserva allo Stato esclusivamente un ruolo di garante. In questo modo non si entra in conflitto con la Chiesa e con i ceti dirigenti locali, che ancora controllano le attività assistenziali, lasciando loro ampi margini di autonomia. Di fatto, questa legge non fa altro che preservare i sistemi in vigore nelle singole realtà regionali. Mentre i dispositivi di tutela e sorveglianza vengono allentati in modo significativo, la nomina dei presidenti delle congregazioni di carità viene demandata ai singoli consigli comunali, favorendo il clero e le élites locali. Una spinta al mantenimento dei vecchi organismi è data anche dal timore che l'adozione di un nuovo modello assistenziale possa pesare eccessivamente sulle finanze pubbliche, già gravate dai costi del processo di unificazione nazionale. In questo modo, l'assistenza e la carità continuano a non rientrare tra le prerogative esclusive dello Stato[6]. L'intera questione, inoltre, va collegata anche allo scioglimento dell'asse ecclesiastico, destinato a pesare in maniera evidente sul contenzioso tra Stato e Chiesa negli anni Sessanta e Settanta, proprio in materia di assistenza e amministrazione dei beni di enti e istituti religiosi.

    La seconda significativa tappa che scandisce l'evoluzione del sistema assistenziale e sanitario italiano dopo l'Unità è rappresentata dalla legge del 1890, con la quale si decreta la nascita delle istituzioni pubbliche di beneficenza, nuova definizione laica dei vecchi enti che agiscono a livello comunale. La struttura delle precedenti opere pie e la pessima amministrazione del loro patrimonio sono superate a favore di un'inedita prospettiva pubblica, più moderna. Per la prima volta, le prestazioni sono uniformate e migliorate in tutto il territorio nazionale, superando i particolarismi locali[7]. Le opere pie, comunque, con i loro interventi a favore dei poveri, non scompaiono del tutto, configurandosi come strutture private in grado di agire accanto all'assistenza pubblica. In questo modo, si genera anche una sostanziale confusione di competenze. In ogni caso, il progressivo raggruppamento di molti enti permette di razionalizzare il sistema nel tentativo, non sempre riuscito, di estromettere il clero dalla loro gestione. Alle nuove congregazioni di carità e non più ai comuni spetta, infine, l'onere del ricovero dei malati poveri nelle strutture ospedaliere, oppure nei manicomi. Le congregazioni possono continuare a ricevere donazioni, occuparsi di altri enti di beneficenza e provvedere direttamente all'assistenza di orfani, ciechi e sordomuti. La legge non interviene, invece, sulle modalità delle cure ospedaliere e sulla complessa organizzazione delle cliniche universitarie. Gli amministratori vengono nominati dai consigli comunali, mentre il controllo preventivo e consuntivo sul bilancio delle congregazioni, nonché la verifica delle delibere adottate, spettano alla giunta provinciale amministrativa[8].

    Da questi anni in poi, l'ospedale, come principale struttura delle congregazioni di carità, viene a collocarsi al centro di un'articolata rete di servizi. La sua centralità e il riconoscimento della sua importanza si devono anche all'aumento della popolazione e alla definitiva accettazione del ricovero come normale prassi da seguire in occasione di determinate malattie o infortuni. Gradualmente, migliorano anche le condizioni in cui vengono tenuti i ricoverati. Il progresso della chirurgia e della medicina, infine, individua nella struttura ospedaliera e non più nel domicilio del malato, il luogo esclusivo dove occuparsi di quest'ultimo. Se la gestione dell'ospedale è ancora sottratta alla guida medica, nello stesso tempo, al suo interno, si assiste a una specializzazione del tutto sconosciuta al vecchio nosocomio. Nonostante tale processo stenti a realizzarsi negli ospedali più piccoli, accanto al chirurgo tendono a definirsi le figure dell'anestesista, dell'oculista, del radiologo, del pediatra, dello specialista in malattie infettive[9].

    Accanto al rafforzamento delle istituzioni assistenziali laiche e pubbliche, l'Ottocento vede la definitiva affermazione anche di altre forme di intervento sociale a carattere privato. I riferimenti sono al paternalismo di fabbrica dei primi imprenditori industriali, al fenomeno cooperativo e alle società di mutuo soccorso, che nascono per fornire aiuti e sussidi ai propri affiliati in evidente difficoltà. Le società di mutuo soccorso si affermano nel corso dell'Ottocento nel momento in cui si dissolvono le precedenti strutture corporative, ma in realtà affondano le loro radici in un percorso di lungo periodo, che rimanda alle confraternite dell'età moderna. È a partire dagli anni Trenta del secolo, almeno nell'Italia settentrionale, che si diffondono delle società di mutua assicurazione tra artigiani e lavoratori che non svolgono più nessuna pratica devozionale, come risulta per le compagnie di antico regime. Esse si occupano esclusivamente dell'assistenza ai propri iscritti, che appartengono sempre a uno specifico settore produttivo. Il successivo passaggio è la nascita di società generali, non più legate a un particolare mestiere, bensì al territorio, pronte ad accogliere soci appartenenti a diverse categorie professionali[10]. Dal punto di vista giuridico vengono riconosciute soltanto nel 1886 grazie alla legge Berti incapace, però, di corrispondere a tutte le aspettative delle società stesse. Il fronte sul quale esse intervengono, a favore dei propri iscritti, è particolarmente ampio e complesso, determinando seri problemi nella gestione dei fondi. Si va dalle prime forme di previdenza, con l'elargizione di sussidi in caso di malattia, infortunio e disoccupazione, che restano gli interventi più importanti di queste associazioni, alle pensioni di invalidità e vecchiaia, dall'istruzione alla vendita di generi di prima necessità, da provvedimenti specifici contro la disoccupazione alla concessione di prestiti, fino ad arrivare a forme di aiuto per le famiglie dei defunti, oppure di soccorso in particolari situazioni di disagio, come in occasione di scioperi. Non mancano, infine, significative forme di assistenza medica, farmaceutica e ospedaliera. L'associazionismo mutualistico resta un fenomeno tipicamente urbano, che vede una limitata presenza femminile a causa della condizione subalterna della donna, che non può aderire a una società di mutuo soccorso senza la rappresentanza di un uomo[11].

    Il fenomeno mutualistico presenta degli elementi di complessità non solo in riferimento alle prestazioni che garantisce, ma anche sotto il profilo sociale degli affiliati. Esso, infatti, non coinvolge soltanto artigiani e operai, ma anche altre categorie riconducibili all'ampio scenario del notabilato locale al quale appartengono, per esempio, medici e insegnanti spesso in conflitto con reazionari e conservatori, come ampiamente dimostra il caso toscano[12]. Può accadere,

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