S'accabadora - Storia di un amore perduto
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Book preview
S'accabadora - Storia di un amore perduto - Federica Maccioni
L'autrice
I
La fiamma crepitava, tracciando guizzi di luce rossastra sulle pareti fuligginose.
Nita Murru sedeva accanto alla ziminera, il camino in pietra, e fissava un punto dinanzi a sé.
«Basilio Mulas sta arrivando» disse Gavino «è per suo padre».
La donna fece cenno di sì con il capo e spostò una pietra alla base del caminetto, rivelando un piccolo incavo. Prese l’oggetto che vi era riposto e svolse piano il panno bianco che lo proteggeva: un martello di legno d’olivo, levigato da secoli di mani femminili che si erano avvicendate nel suo uso. Il passo lento di quattro zoccoli risuonò fuori dalla porta. Nita carezzò il manico lucido de su mazzolu, e pochi istanti dopo udì bussare.
Quando aprì, Basilio Mulas, sulla soglia, accennò all’asinello alle sue spalle.
«È ora?» chiese lei.
«È ora».
Nita si strinse nello scialle e si ravviò le sottane.
«Ormai è in agonia da giorni» aggiunse Basilio, mentre lei chiudeva la porta.
Stelle azzurre e grilli dalla voce dorata nella notte di fine estate. Basilio non parlava; il passo cadenzato dell’asino dilatava il silenzio cristallino e il tragitto fino al paese limitrofo si compì senza che i due dicessero nulla. Così come Nita non disse nulla quando l’uomo l’aiutò a scendere di sella e neppure quando le aprì la porta di casa propria.
S’accabadora varcò la soglia.
«Deus ci sia» salutò.
Nella cucina illuminata solo dalla bassa fiamma nella ziminera, le donne chinarono appena il capo.
«Deus ci sia, tz’a Nita Murru» mormorò Mariedda Mulas, la più anziana.
Accennò verso una porta chiusa, poi si volse e uscì, seguita dalle altre e da Basilio.
Nita, una volta sola, trasse dal corpetto un velo nero, lo dispose in modo che le coprisse il volto e attraversò l'uscio che Mariedda aveva indicato. In un angolo, un piccolo cero ardeva sotto una statuina della Vergine, un crocefisso campeggiava al di sopra della testata del letto e diverse immagini di Santi erano appese alle pareti. Fra le lenzuola ricamate, con il naso affilato e la barba di giorni, la schiena appoggiata a una pila di cuscini, il vecchio Bissente Mulas respirava come ingoiando l’aria a sorsi faticosi. Nella stanza si avvertiva l’odore familiare della morte.
Sa Filonzana, ai piedi del letto, filava, impassibile dietro la sua maschera.
«Sei venuta».
«Lascialo andare» disse Nita.
«Non posso».
Indicò il petto di Bissente, sul quale pendeva sa punga, poi il dito scarno puntò sulle raffigurazioni sacre, una dopo l’altra.
S’accabadora si avvicinò al letto, le palpebre dell’uomo erano socchiuse sulle sclere gialle e, oltre le labbra, si intravedeva la crosta nera che era diventata la sua lingua. Gli sfilò dal collo sa punga, l'amuleto che ancorava l’anima al corpo disfatto, e gli tracciò il segno della croce sulla fronte col dito, mormorando formule liberatorie, ma non ebbe bisogno di volgersi per sapere che sa Filonzana non aveva ancora spezzato il filo esiguo di quella vita. Il suono monotono dei colpetti che la parca assestava al fuso riempiva il silenzio, intervallato alle pause del rantolare del vecchio. Nita si protese al di sopra della testa dell’uomo e staccò la croce dal muro. La portò in cucina e la depose con cura sul tavolo. Prima di allontanarsi baciò i piedi del Cristo.
Sa Filonzana filava ancora.
Nita spense il lumino votivo, prese fra le mani la statuetta di Maria e andò a posarla accanto alla croce, recitando litanie.
Sa Filonzana, il fuso fra le mani magre, filava ancora, ma il rumore si era fatto più fievole.
Quando tutte le immagini furono sul tavolo della cucina, la parca parve fissare le orbite vuote della sua maschera