5 variazioni sul credere
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Marco Bouchard, magistrato, figlio di un pastore protestante, ha presieduto nel 2010 il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste. Gabriella Caramore, scrittrice, autrice e conduttrice radiofonica. Shahrzad Houshmand, teologa, è docente di Studi islamici. Benedetto Carucci Viterbi, rabbino, studioso di ermeneutica dei testi sacri. Fabio Masi, prete cattolico, è parroco della parrocchia di Santo Stefano a Paterno in Bagno a Ripoli. Maurizio Viroli, studioso di filosofia della politica e di storia del pensiero politico, è professore emerito di Teoria politica.
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5 variazioni sul credere - Marco Bouchard (a cura di)
Cottinelli)
Il libro
Perché credere oggi? Questa è la domanda che è stata rivolta agli autori: non solo a coloro che rappresentano le diverse fedi monoteiste, ma anche a chi osserva, dall’esterno, i movimenti del credere e a chi professa una fede puramente civile.
Le autrici/Gli autori
Marco Bouchard, magistrato, figlio di un pastore protestante, ha presieduto nel 2010 il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste. Per le Edizioni Gruppo Abele ha pubblicato Credere e appartenere. Monaci, eretici, mercenari.
Gabriella Caramore, scrittrice, autrice e conduttrice radiofonica, cura dal 1993 per Radio Rai 3 il programma Uomini e profeti, dedicato ai temi dell’attualità religiosa e all’approfondimento dei testi e delle figure delle grandi tradizioni religiose.
Shahrzad Houshmand, nata a Teheran nel 1964, teologa, è docente di Studi islamici presso la Pontificia Università Gregoriana e componente del direttivo del Cipax (Centro interconfessionale per la pace).
Benedetto Carucci Viterbi, rabbino, studioso di ermeneutica dei testi sacri, insegna Esegesi biblica e Letteratura rabbinica presso il Collegio rabbinico italiano ed è autore di numerosi saggi in volumi collettanei e monografici.
Fabio Masi, prete cattolico, dal 1982 è parroco della parrocchia di Santo Stefano a Paterno in Bagno a Ripoli nei pressi di Firenze.
Maurizio Viroli, studioso di filosofia della politica e di storia del pensiero politico, è professore emerito di Teoria politica all’Università di Princeton e all’Università della Svizzera italiana a Lugano. Tra i suoi molti libri: Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Einaudi, 2009.
Indice
Introduzione
di Marco Bouchard
Sentire l’odore di Dio
di Gabriella Caramore
Il libro dell’universo
di Shahrzad Houshmand
Non smettere mai di cercare
di Benedetto Carucci Viterbi
Una decisione gratuita
di Fabio Masi
«Se è libero bisogna che creda»
di Maurizio Viroli
Introduzione
di Marco Bouchard
Mio padre, pastore protestante, evangelizzava incessantemente.
Per lui erano indifferenti il luogo, l’occasione o la persona. Anzi: era proprio lo sconosciuto, incontrato casualmente nello scompartimento di un treno o nella sala d’attesa di uno studio medico, a stimolare in lui la necessità della testimonianza. Se questo capitava in mia presenza provavo un decoroso imbarazzo. Non faceva ricorso a tecniche particolari, a strategie comunicative preordinate. A dire il vero, si vantava della sua licenza per il commercio ambulante di Bibbie e testi sacri ma l’ultimo dei suoi pensieri era quello di vendere.
Non ho mai capito quanto il suo approccio alle persone fosse un pretesto per annunciare la sua fede o quanto la sua fede in Dio costituiva un buon pretesto per entrare in relazione con gli altri, per creare con gli altri un legame di autentica amicizia.
La fede come fonte di amicizia non deve stupire. La teologa musulmana Shahrzad Houshmand, nel suo contributo, ci ricorda come
il profeta Abramo, padre del monoteismo nella tradizione islamica e padre spirituale delle tre fedi monoteiste, […] nel Corano e nella tradizione islamica viene chiamato Khalil, che significa amico, perché lui nel suo lungo cammino alla ricerca della verità diviene amico di Dio. Il termine khalil letteralmente significa: colui che si svuota di sé
; in effetti un vero amico, nell’ultimo grado dell’amicizia si immedesima nell’amico, e la sua volontà, il suo desiderio, si unificano con quelli dell’amico. I messaggeri sono amici di Dio, del bene, della giustizia e della rettitudine, vuoti di ego, e pieni del Buono e perciò portatori di luce. E non sono rari, esistono e sono dovunque: «Ogni comunità ha un messaggero, quando quel messaggero giunge si decide fra loro con giustizia e non viene fatto loro torto».
Comunque sia: mio padre credeva, per quanto una certa sua paura di morire induceva mia madre, di tento in tanto, a insinuargli il dubbio che la sua fede non fosse poi così del tutto salda. Dubito che abbia mai preso in considerazione l’interrogativo esposto nel titolo di questo libro. Tanto Dio quanto gli altri costituivano per lui una realtà indiscutibile e sufficiente a evitare quella domanda.
Credo, invece, indispensabile – oggi – cercare di rispondere a quella domanda. Chi, cosa ci spinge a credere, ad affidarci a qualcuno, a una comunità, a una chiesa? E in che cosa, poi, dovremmo credere?
Può sembrare, dal punto di vista dei credenti, una domanda inopportuna perché la fede, il credere non possono essere declinati in termini di maggiore o minore attualità. Lo nota il rabbino Benedetto Carucci Viterbi nel suo saggio:
L’attualizzazione [della fede] intesa come torsione verso il presente di temi evidentemente sentiti come poco connessi all’oggi, può essere una forma di violenza nei confronti di questi temi stessi perché delle due l’una: o sono sempre attuali, perché costanti nel tempo – in un certo senso eterni
– e dunque non hanno necessità di un intervento di attualizzazione, o sono invece molto legati al momento del loro apparire sulla scena della riflessione umana, ed allora volerli attualizzare ne rappresenta uno stravolgimento sostanziale, una trasposizione forse poco legittima. La tradizione rabbinica, in questo panorama, suggerisce un approccio utile e utilizzabile a partire, come sempre accadde, da una riflessione/interpretazione testuale. «E queste parole che Io ti comando oggi saranno sul tuo cuore» recita uno dei versi dello Shemà, il brano biblico entrato nella liturgia quotidiana con un ruolo centrale nella liturgia della mattina e della sera e spesso presentato come sorta di dichiarazione di fede. Sull’oggi che compare nel testo i commenti classici sviluppano una riflessione fondamentale: oggi è ogni giorno della vita, non solamente l’oggi del presente. Le parole comandate non debbono essere percepite come un vecchio documento a cui non si fa più caso né riferimento, quanto piuttosto recepite come continuamente nuove, eternamente contemporanee e per questo significative e attraenti.
Le parole che Dio ci comanda nel tempo presente sono depositate sul nostro cuore per sempre. «Oggi – dice il rabbino – è ogni giorno della vita». Tuttavia le parole che Dio ci comanda non sono oggetti da custodire in uno scrigno – esponendole così al rischio della loro paralisi – ma debbono ritrovare costantemente il soffio fertile del rinnovamento. Purtroppo la storia delle chiese, di tutte le chiese, dimostra come troppo spesso le parole comandate da Dio siano state racchiuse in recinti ossessivamente protettivi e trasformate in pietra inerte. La vita all’ombra delle chiese – ammonisce Gabriella Caramore nel suo intervento – è stata
spesso interpretata, e con conseguenze davvero tragiche a volte, come diffidenza e timore, come sottomissione e paura, come umiliazione o menzogna, come mortificazione o sopraffazione […] Al punto che la religione spesso viene intesa, appunto, come negazione della libertà, dell’amore, della verità, come prigione delle coscienze, sconfessione della misericordia, ostacolo sulla strada del conoscere.
Per questo le parole che Dio ci comanda nel tempo presente possono durare nel tempo a condizione – non già di una semplice attualizzazione
ma – di tornare al momento originario in cui le parole che Dio ci comanda ci sono state donate. Si dovrebbe tornare, scrive ancora Gabriella Caramore
almeno nel caso di ebrei, cristiani, e musulmani, a leggere e rileggere le proprie Scritture, cercando non di attualizzarle
, e cioè di separarle dal contesto in cui sono nate per farne una traduzione simultanea e approssimativa in lingua corrente; ma nemmeno di lasciarle intatte nel sonno polveroso dei secoli, consegnandole a un significato ormai spento, erigendole a monumenti statici e intangibili, premessa di ogni rivendicazione fondamentalista. Perché non provare, piuttosto, a rintracciare il filo che lega simbolicamente tra loro le parole e le storie, facendolo pulsare con la vita, mettendo ogni volta in questione le conoscenze acquisite, cercando di capire che cosa ha fatto sì che generazioni e generazioni di uomini e donne le abbiano portate con sé nella miseria e nella gloria della propria umanità?
Ancora. La fede rinvia a una fiducia in qualcuno o qualcosa che non può essere ridotta alla dimensione del presente, neppure al presente della nostra intera vita, ma si inoltra necessariamente oltre il termine dell’esistenza. È impossibile separare la fede dal timore con il quale affrontiamo i pensieri della nostra futura scomparsa. Sulle ansie dell’umanità per il mistero spaventoso che circonda la nostra morte, le chiese hanno costruito potenti strumenti di controllo su fedeli e infedeli. Per secoli la salvezza dei cristiani dopo la morte è stata fatta oggetto di banale e intenso commercio su cui sono state accumulate immani ricchezze ecclesiastiche. Ma è forse irragionevole chiedersi se le persone – oggi – siano davvero ancora preoccupate di cosa potrebbe capitare loro nell’al di là? Non c’è dubbio che la paura della morte ci assale quando la fragilità del nostro fisico o della nostra psiche ci avvicina ai confini dell’esistenza. Come osserva Shahrzad Houshmand
La vita sfrenata di oggi ci lascia sempre meno tempo per riflettere sul senso profondo delle cose e della vita stessa, ma nel momento del dolore o delle difficoltà la psiche e l’anima si raccolgono in se stesse: «Di: chi vi salverà dalle tenebre della terra e del mare? Quando siete in pericolo voi pregate Dio umilmente e in segreto e dite: certo se ci salva da questa angustia gli saremo riconoscenti!». (Corano 6, 63)
Ma quella paura dell’al di là non rappresenta più la guida delle nostre azioni quotidiane nell’al di qua. I messaggi provenienti dai templi, dalle moschee o dalle sinagoghe sono ben poco minacciosi al riguardo. Un tempo la paura di morire era affrontata nel mondo cristiano con la speranza della salvezza e questa prospettiva guidava il credente nel suo operare e nel lavorio interiore con la propria coscienza. Ma oggi – ritengo – la salvezza non è più intesa come garanzia per una vita ultraterrena liberata dalla umana sofferenza. Una delle conseguenze evidenti dei processi di secolarizzazione sta proprio nell’attenzione che il credente dedica al suo soggiorno nel mondo dei vivi: sia che la fede lo orienti a ridurre le sofferenze altrui sia che la fede lo induca a valorizzare la propria opera nel mondo.
Questa ipertrofia del presente condiziona altrettanto potentemente le fedi civili dell’ateo che non si rivolgono più alle grandi utopie di una società dell’avvenire, sia essa egualitaria, liberale o dittatoriale. La stessa politica chiede la fiducia su interventi da realizzare nell’immediato. Non c’è posto nel mondo contemporaneo per le religioni civili: la fede per un ideale, il credere nel progetto di cambiamento sociale sono stati sostituiti dalla più ordinaria credibilità
, normalmente costruita attraverso promesse di efficienza, dimostrazioni statistiche condite da suggestioni spettacolari.
Non è un passaggio di poco conto. La fede nell’al di là è stata invocata nei tornanti più drammatici della nostra storia europea a sostegno di una battaglia di civiltà contro il nazifascismo, certo non per finalità clericali. Piero Calamandrei, nel corso di una disputa con l’amico giornalista e scrittore Piero Pancrazi – così ci ricorda Maurizio Viroli – osservava:
non sono credente né osservante ma ho una morale che è il residuo della religione cristiana. Come posso difendere una civiltà basata su questo residuo, se non fo di tutto per impedire che si inaridisca nel popolo la fonte di questo residuo? Alla fede selvaggia dei tedeschi stregati da Hitler quale altra fede possiamo contrapporre, capace di condurre gli uomini alla morte e di resistere a quei selvaggi, se non la fede cristiana basata sulla certezza dell’aldilà? Se non si vuole abdicare di fronte agli invasori rinunciando a combattere, se non si vuole suscitare in tutti i popoli il furore selvaggio del nazionalismo per rispondere agli altri nazionalismi, non c’è che da coltivare nel popolo una credenza nell’aldilà che permetta di difendere qui la bontà, la carità, la libertà, e che dia forza per morire per questi ideali.
Fede, sofferenza, morte, al di là sono termini di una riflessione che, oggi, viene scandita in una prospettiva nuova da parte del sacerdote cattolico, fiorentino, don Fabio Masi. Attraverso un esempio ci dimostra l’intimo legame che unisce il possibile futuro oltre la morte al senso della nostra vita terrena:
Quello di avere un futuro oltre la morte non lo considero un diritto, semmai un dono. Sono grato alla vita per quello che mi ha dato e che mi sta dando, ma non posso dire di essere indifferente alla possibilità che questa sia solo una tappa della mia esistenza. E la scienza non mi aiuta a capire se sono figlio del caso, di una energia interna alla materia o di Qualcuno che mi ha progettato. Il mistero di Dio non si trova nei vuoti lasciati dalla conoscenza scientifica, vuoti che cambiano con lo sviluppo della stessa, ma nel cuore dell’uomo. E i problemi del senso della vita, della morte, del dolore, del progetto comune dell’esistenza umana non si lasciano facilmente mettere da parte, si riaffacciano continuamente. In questo il progresso della scienza è fondamentale perché costringe a rigettare le false risposte che uno si era costruito, costringe a demolire gli idoli.