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Il ratto di Euridice
Il ratto di Euridice
Il ratto di Euridice
Ebook117 pages1 hour

Il ratto di Euridice

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A Tellaro, un mattino di giugno, viene ritrovato un cadavere all'interno di una barca alla deriva. Un'attricetta, in vacanza nel borgo, dove è avvenuto l'omicidio, con l'aiuto di un vecchio marinaio e di un farmacista, si interessa alle indagini condotte dai Carabinieri, scoprendo sul finale, una verità che la riguarda. Nello scenario incantevole dei borghi della Liguria di levante e del capoluogo di provincia (La Spezia), si parla di vizi e virtù degli abitanti, di arte e dei destini incrociati dei protagonisti.
LanguageItaliano
Release dateJul 17, 2017
ISBN9788869825767
Il ratto di Euridice

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    Il ratto di Euridice - Monica Callegari

    Monica Callegari

    Il ratto di Euridice

    CAVINATO EDITORE INTERNATIONAL

    Monica Callegari

    Il ratto di Euridice

    Prima edizione digitale: Cavinato Editore International – 2017

    Impaginazione e grafica: Silvia Mezzanotte

    ©Tutti i diritti riservati

    In copertina:

    Medusa

    Carlo Bacci, Tellaro

    Acrilico su legno 35x50 cm

    CAVINATO EDITORE INTERNATIONAL

    Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compreso i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    © Cavinato Editore International

    Via della Volta, 110 - 25124 Brescia Italy

    Tel. (+39) 030 2053593 - Fax (+39) 030 2053493

    cavinatoeditore@hotmail.com • info@cavinatoeditore.com • www.cavinatoeditore.com

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Biografia

    Ringraziamenti

    Avvio

    Alle mie figlie, dalle quali apprendo qualcosa ogni giorno.

    Nul  ne guérit de son enfance

    Jean Ferrat

    1

    Il mio natio borgo selvaggio si chiama Tellaro e, quando sono nata, contava ottocento abitanti.

    Ci si conosceva tutti, al punto da chiamarsi con l'articolo la Pina, la Maria perché non è che potessimo permettercene due o più per ogni nome ma, in caso si fosse andati ad abundantiam, una delle due veniva meglio identificata col nome del marito, del padre, del negozio, se era commerciante, o anche per caratteristica fisica, come l'indimenticata Maria da l'ocio frito colpita, forse, dallo strabismo di Venere.

    Agli uomini veniva risparmiato l'articolo, più nelle corde dei milanesi. Per i maschi, pertanto, la distinzione era ispirata da caratteristiche personali, come nel caso di un omone di un buon centinaio di chili, lievemente claudicante, che, per antifrasi, era detto Paolo il ballerino, o come per l'immancabile Guglie’ peo rosso. Diversamente, li qualificava il mestiere, come per: "Dome’ der tabachin" o Pie’ da coperativa.

    Non solo si conoscevano per nome tutte le persone, ma i cognomi non importavano neanche tanto, in quanto ce n'erano giusto tre, sempre ripetuti. Si conoscevano perfino gli animali domestici, nella fattispecie cani e gatti: allora non si ragionava ancora di conigli, topi variamente camuffati o bestie tropicali.

    Quell’angolo di Paradiso io lo percepivo, purtroppo, come un angolo ottuso, almeno nella mentalità dominante, e mi sembrava che ogni particolarità o differenza fosse guardata con scherno e sospetto.

    Sembra proprio che la prima grande ingiustizia subita sia quella del luogo di nascita.

    Appare ben chiaro, infatti, che la vita e le opportunità di una persona sono diverse se nasce a Porcìa (l'accento tonico è sulla i) o a Parigi, nonostante l'iniziale.

    Inoltre, le caratteristiche del territorio incidono sul carattere e chi è nato, come noi, in una striscia di terra stretta fra il mare e i monti incombenti, deve resistere. Resistere agli stenti, alla scarsità di terreno utilizzabile per sfamarsi. I primi ad abitare questi luoghi dovettero adattarsi a essere per metà pescatori e per metà contadini, oltre che imparare a scrutare sempre le coste per timore di attacchi improvvisi: di qui, la diffidenza.

    Un Ligure porta dentro di sé questa forza atavica che ha fatto resistere nei secoli la nostra stirpe a popoli ben più potenti ed equipaggiati: romani, saraceni, francesi, per arrivare, nel secondo dopoguerra, ai milanesi che, a detta di Calvino, ci hanno colonizzato.

    Forse io me ne sono andata perché quel lembo di costa era troppo stretto; affacciandomi potevo, sì, vedere il mare, ma io volevo nuotare.

    Adesso, a più di metà della vita, ho un lavoretto, qualche amico, il necessario per vivere; ma non mi voglio fermare, né accettare ciò che non tollero. Non mi voglio arrendere, i miei padri non l’hanno fatto.

    A Roma, dove vivo, ogni mattina, se il tempo lo consente, bevo il caffè in terrazza, guardo gli alberi e il prato nel lato opposto della strada sotto casa mia, fra l’Aurelio e Monteverde, dove le proprietà del Vaticano hanno preservato ampie zone verdi. Approfitto della calma del mattino per assaporarle prima di uscire. Spesso, in quei momenti, scorro la mia vita: non sarebbe male poter cancellare almeno gli errori eclatanti, gli incontri sfavorevoli o le sconfitte più intollerabili.

    Quando sono andata via da casa dei miei genitori, mia madre aveva circa quarant’anni, più o meno l'età di una sposa di oggi, ed era una donna che già considerava la sua vita immutabilmente incanalata. Forse perché, per i nati fra le due guerre (quelli non ricchi, naturalmente), avere una casa, mangiare tutti i giorni e poter viziare almeno un po' i figli, era già un risultato del tutto apprezzabile, e non accontentarsi sembrava da sfacciati egoisti.

    Noi, figli di quella generazione, fra i quaranta e i cinquant’anni, abbiamo avuto una vita ricca di continui cambiamenti, ci siamo abituati e non vogliamo smettere: bambini negli anni sessanta, con le prime televisioni, le conoscenze e le scoperte che si allargavano a dismisura; studenti negli anni settanta, quelli della buona musica ma anche dell'austerity e delle Brigate rosse; lavoratori nei favolosi anni ottanta, che promettevano un futuro pieno di opportunità; trentenni negli anni novanta e adulti negli attesi duemila, presi dalle nuove tecnologie.

    Oggi, un po’ affannati e disorientati, ci troviamo spesso a cercare il capo del filo che ci siamo persi.

    In un piccolo borgo si deve sopportare la sorveglianza stretta dei compaesani, che si tollera da bambini, si osteggia aspramente nell'adolescenza e, se non si scappa, si interiorizza e si pratica in età adulta.

    Gérard Macé ci ha suggerito che a Roma si torna soltanto; a Tellaro, invece, si arriva e basta, visto che la strada finisce e poi c'è il mare.

    La mia famiglia, per scelta del nonno paterno, che aveva comperato sulla collina un uliveto edificabile, abitava dopo la fine della strada.

    Per tornare a casa o allontanarmene, dovevo sempre attraversare la piazza, che percepivo come un posto di blocco o una sorta di Inquisizione. Dover salutare chiunque, anche se non ne avevo voglia, e aggiornare sempre sulla mia destinazione o provenienza, mi metteva a disagio.

    A onor del vero, bisogna riconoscere che in paese non c'erano solo vecchietti impiccioni o pettegole zelanti; c'era anche una cerchia di persone di un certo respiro culturale e con spirito aperto, ma da quelle persone ero un po' intimorita, e sempre tenuta lontana per via delle diverse appartenenze, diciamo così, politiche. O meglio, loro erano gli intellettuali di sinistra, quelli che facevano politica e leggevano i libri, noi (la mia famiglia, intendo, e molti altri: la maggioranza, insomma) eravamo gli indifferenti di cultura cattolica, per usare una centratissima definizione letta in una rivista anni fa.

    Eravamo negli anni in cui i comunisti mangiavano i bambini e io ricordo sempre la frase che mio padre aveva sentito al bar e aveva ripetuto a casa col sorriso, ma anche con una certa dose di condivisione; si era da poco creato il partito dei Verdi, quando qualcuno disse a mio padre:

    - Attenzione che i Verdi, maturando, diventano Rossi! -

    C’erano, quindi, poche possibilità, per i bambini di quella cerchia, di aprirsi al mondo, di formarsi un sano spirito critico con buone letture e, magari, un po' di musica di rottura. Tutta roba da pericolosi sovversivi.

    Non mi era neppure consentito uscire troppo di casa.

    - Non sta bene che una ragazza stia sempre in giro -

    E siccome le televisioni private facevano appena capolino, non mi rimaneva che la lettura. Nonostante ciò, la carriera scolastica è stata traballante, all’inizio. Per il latino ci voleva una capacità logica che io non avevo, e poi quell'esistenza mi stava così stretta che non vedevo l'ora di andarmene: avevo la follia della mosca che sbatte contro la finestra senza trovare l'uscita.

    Del resto, non so se l'ho mai imboccata.

    Forse no. Continuo a sbattere contro il vetro chiuso, invisibile, e non riesco a trovare la via di fuga, quello spiraglio che ormai è quasi del tutto scomparso.

    Chissà poi se la via di fuga cercata è dal luogo o da se stessi. Un luogo si lascia con estrema facilità, più difficile è mollare la zavorra di quella parte di noi che non ci piace.

    Andare, venire, tornare… i luoghi sono innocui come le parole, siamo noi a connotarli e appesantirli di fardelli che non hanno.

    Forse è per questo che, dopo tre decenni di carriera come attrice televisiva di fiction e mini-serie, ho deciso di tornare sui miei passi. Tornare nel paese dove sono nata, trascorrere un po’ di tempo col mio passato, riconciliarmi con le

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