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Robot 81
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Robot 81

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rivista (192 pagine) - Pat Cadigan - China Miéville - Davide Del Popolo Riolo - Emanuela Valentini - Lorenzo Crescentini - The Man In the High Castle - Pierfrancesco Prosperi - Clark Ashton Smith


Vi è mai capitato di trovarvi in una via che pensavate di conoscere bene e di accorgervi che qualcosa non è come ve l’aspettavate? Un palazzo diverso, un negozio che doveva essere lì ma non c’è, un incrocio un po’ più avanti di dove avrebbe dovuto essere… Sono cose che a quanto sembra a Londra capitano di frequente, tanto che esiste, secondo China Miéville, una società che studia questi «avvenimenti» e ne tiene traccia.

Cose strane, weird verrebbe da dire, come strane sono le creature che popolano la residenza di Nohram Manor raccontata da Emanuela Valentini. E strana è quella sorta di allucinante invasione aliena descritta da Lorenzo Crescentini.

È pura fantascienza invece, e lascia il segno, la novella di Davide Del Popolo Riolo, che scrive poco ma quando scrive non sbaglia un colpo.

E così si arriva alla fine, proprio la fine: quella del mondo. E come la racconta Pat Cadigan è davvero qualcosa difficile da toglierselo dalla testa.

Copertina di Julie Dillon

Mi chiedono spesso se scrivo fantascienza o fantasy. Di solito rispondo “sì” – China Miéville


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 11, 2017
ISBN9788825402995
Robot 81

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    Book preview

    Robot 81 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Dietro le quinte del Premio Italia

    Silvio Sosio

    Quante delusioni e quante incavolature ci siamo prese, col Premio Italia. Ricordo ritorni a casa in auto o in treno, con Luigi Pachì o Franco Forte o entrambi, dai vari Montepulciano, Courmayeur, San Marino, a rimarcare quanto fosse assurdo che avesse vinto quello invece di quell’altro, il fatto che la tale fanzine vincesse sempre mentre l’altra (magari la nostra) meritava di più, come vincessero sempre gli stessi, come le regole andassero assolutamente riviste.

    Acqua ne è passata sotto i ponti, fiumi, mari, oceani. Oggi c’è Facebook, e invece di fare o ascoltare questi discorsi in macchina li leggo sui social, li vedo fare da altri, nuove leve e magari neanche tanto nuove.

    E li capisco, li capisco benissimo. C’è un motivo importante per cui non vincere il Premio Italia colpisce duramente: è perché tutte queste attività sono fatte per passione, non danno quasi mai una ricompensa vera (per esempio economica). E non mi riferisco solo alle fanzine o ai blog e tutto quello che c’è sopra, sia chiaro: il fatto che regolamenti stabiliscano che questo è amatoriale e quell’altro è professionale, magari perché l’editore ha una partita IVA o la rivista ha un codice ISSN, non cambia il fatto che tutte queste attività, ma proprio tutte, alla radice sono amatoriali: sono fatte perché si ama la fantascienza, per il piacere di scrivere o disegnare o pubblicare. Non è che il libro che vende mille copie ripaghi in modo realistico l’autore che ha speso magari un anno a scriverlo. Lo sappiamo tutti. E discorsi simili valgono per curatori, editori, e anche traduttori e illustratori, spesso.

    Il vero pagamento è il riconoscimento. Sono gli apprezzamenti per quello che si fa, e il Premio Italia è un apprezzamento nero su bianco, una specie di riconoscimento oggettivo. Non vincere in un certo senso è un po’ come vedersi negare il pagamento del lavoro svolto. Lo si sente come un’ingiustizia.

    Il mio punto di vista ha cominciato a cambiare quando, alla fine degli anni Novanta, ho cominciato a vedere il dietro le quinte del Premio Italia. Ho cominciato aiutando Ernesto Vegetti a fare lo spoglio delle schede; andavo a casa sua, a Borgomanero, lui tirava fuori un’enorme pigna di fogli arrivati da ogni parte d’Italia, e si cominciava a contare i voti, categoria per categoria. Usando l’Australian Ballot, quindi le schede venivano fatte rigirare più volte per ogni categoria. Con la mia pigrizia, non poteva durare: dopo qualche anno proposi a Ernesto di gestire la cosa via web e sviluppai l’applicazione che, rivista numerose volte, gestisce il premio tutt’ora.

    Nel frattempo, facendo girare quelle schede, vedendo i nomi di chi votava, come votava, e discutendone con Ernesto, mi facevo un’idea più fondata di cosa fosse il premio, di come funzionasse, di quali fossero i suoi problemi e quale fosse, soprattutto, la sua vera anima.

    E questa era la cosa più difficile da cogliere, anche se era ovviamente sotto gli occhi. Capire che cosa, davvero, premia il Premio Italia.

    Il Premio Italia non premia le opere migliori. Già accogliere questo semplice concetto risparmierebbe molti malumori. Non è un difetto del premio, è proprio la sua definizione, ed è la stessa che hanno un po’ tutti i premi a voto popolare, dall’Oscar allo Hugo. Intanto, non esiste nessun premio che possa premiare le opere migliori: anche premi con le più prestigiose giurie premieranno comunque le opere ritenute migliori dai giurati: giurati diversi, o anche gli stessi in epoche diverse, potranno avere idee diverse.

    Coi premi a voto popolare c’è un’ulteriore difficoltà: chi vota non può conoscere tutto ciò che esiste. La prima fase del voto al Premio Italia (come allo Hugo e in altri premi, anche allo Strega per esempio) consiste nella segnalazione di opere candidabili. Che non sono prese da una qualche lista, ma devono essere suggerite dagli stessi votanti. È subito evidente qui che un racconto splendido ma pubblicato magari su una pubblicazione fuori settore poco conosciuta avrà poche possibilità di essere votato. A meno che, naturalmente, l’autore o chi per lui non riesca in qualche modo a farlo conoscere, a suscitare un dibattito attorno a esso.

    La notorietà quindi è una carta fondamentale nella partita del Premio Italia. E la qualità? La qualità, ovviamente, ha la sua parte, ed è una parte importante, doppia: perché il votante tra le opere che conosce voterà comunque quella che gli è sembrata migliore, ma anche perché delle opere di qualità si parla, vengono recensite, suscitano curiosità, vengono lette di più: la qualità è un motore della notorietà. Questo vale molto per certe categorie (romanzo per esempio, anche racconto) un po’ meno per altre. Volendo trovare una parola che metta insieme notorietà e apprezzamento potremmo forse dire che il Premio Italia va alle opere che hanno il miglior prestigio.

    Ci sono anche altri elementi, inutile nasconderselo. Le lobby, le liste, problemi che hanno afflitto negli ultimi anni persino il Premio Hugo. Per il Premio Italia sono sempre state però un problema grave, soprattutto quando i votanti erano pochi: negli anni duemila per vari anni ci sono stati meno di cento votanti, a quel punto bastavano davvero dieci o venti voti per aggiudicarsi un premio.

    Negli anni recenti questi problemi sono stati affrontati e anche se non si possono dire del tutto risolti la situazione è molto migliorata. Il voto che prima era riservato ai partecipanti alla convention dell’anno precedente è stato aperto agli iscritti ad altre convention ed esteso a tutte le edizioni, non solo a quella dell’anno prima. La base degli aventi diritto così è cresciuta fino a oltre duemila persone, delle quali hanno effettivamente votato, negli ultimi due anni, circa un quarto, oltre quattrocento: che è un buon numero. Se si riusciranno a coinvolgere altre manifestazioni e ad allargare il numero dei votanti fino a cinque o seicento credo che otterremo un premio ancora più affidabile. Già ora, tuttavia, i premi sono molto più distribuiti, è più difficile vedere gruppi che monopolizzino il premio.

    È un lavoro difficile. Anche perché, naturalmente, come accade in ogni premio coloro che non vincono sono sempre più numerosi di coloro che vincono, e, come spiegavo all’inizio, alcuni non la prendono benissimo e qualche volta criticano il premio. Però qualcuno lo critica in modo costruttivo, partecipa alle assemblee delle Italcon, e capita che vengano fuori buone idee per migliorarlo. Bene così.

    A dimostrazione della tesi secondo cui vincono sempre gli stessi, quest’anno, a Chianciano, Robot ha vinto il Premio Italia per la nona volta: un numero incredibile, che testimonia quanto questa rivista sia conosciuta e apprezzata, nonostante non sia distribuita in edicola. I primi due premi risalgono agli anni Settanta, alla versione originale della rivista, quella edita da Armenia, che vinse nel 1977 e nel 1979, arrivando seconda nel 1978 e terza nel 1980. Gli altri sette sono andati all’edizione Delos Books, che con l’esclusione del 2009, quando arrivò seconda (dietro a Futuro Europa di Elara), ha vinto praticamente ogni volta che ha potuto partecipare.

    A differenza dello Hugo, dove per esempio Locus ha vinto nella sua categoria praticamente per decenni, il Premio Italia ha dei limiti che impediscono ai vincitori di partecipare nei due anni successivi, perciò nel 2018 e nel 2019 vinceranno altre riviste. Se nel 2020 però dovesse vincere ancora Robot, portandoci la decima statuetta, allora credo che annunceremo il ritiro dalle successive competizioni, per quanto riguarda la categoria rivista.

    Prima di chiudere vorrei ricordare una cosa a tutti coloro che hanno partecipato al Premio Italia e non hanno vinto: vincere vuol dire soltanto aver preso più voti degli altri, essere arrivati in finale è il vero risultato. Vuol dire avere abbastanza notorietà e apprezzamento (o prestigio

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    La casa sul mare

    Pat Cadigan

    Traduzione di Marco Crosa

    Dopo il premio Hugo 2013 per La ragazza che uscì per il sushi (Robot n. 70), Pat Cadigan (Schenectady, New York, 1953), ha ricominciato a scrivere con una certa regolarità, dopo gli anni di quasi assoluto silenzio seguiti alla pubblicazione dei suoi romanzi, ben noti anche in Italia grazie alle Edizioni Shake, Mindplayers (1987), Sintetizzatori umani (1991) e Folli (1992). Residente ormai da tempo a Londra, Pat sembra paradossalmente aver ritrovato una vitalità letteraria proprio nel periodo in cui ha dovuto affrontare le terapie per una grave malattia.

    In attesa che vadano a compimento i suoi progetti futuri, e di incontrarla di persona il prossimo ottobre a Milano a Stranimondi, gustiamoci intanto questo racconto atipico della sua produzione, dall’ispirazione decisamente onirica. (FL)

    Sull’acqua non c’era nessuna linea dell’orizzonte.

    – Oceano piatto. Accidenti, se l’odiavamo quando facevo il pescatore – disse un uomo seduto al tavolo sulla mia sinistra. – Peggio della nebbia. Non sapevi mai dov’eri.

    Azzardai un’occhiata a lui e alle sue compagne. La voce gioviale usciva da un volto che ci si sarebbe aspettati di trovare sui manifesti da ricercato di un terrorista mediorientale, ma le inflessioni erano vagamente teutoniche. Le tre donne americane con lui si assomigliavano tutte, forse erano parenti. Un gruppo dall’aspetto molto normale, senza piercing o segni particolari insoliti. Mi chiesi da quanto tempo fossero a Scheveningen.

    Mi stravaccai sulla sedia, chiusi gli occhi e levai il volto verso dove sarebbe dovuto esserci il sole. Il cielo era così coperto che non si vedeva neppure una macchia più chiara tra le nubi. Ciononostante il lungomare era affollato di gente che vagava su e giù senza meta, forse fingendo, come facevo io, di essere in vacanza. Ed era altrettanto affollato durante la notte, quando tutti venivano a vedere le stelle che si spegnevano.

    Ma certo che siamo in vacanza, aveva detto una donna la sera prima a un’altra delle strane feste che continuavano a addensarsi negli atri e nei saloni degli alberghi cadenti. Questa si era svolta in uno dei posti più eleganti, col soffitto nella stratosfera e un sacco di enormi finestroni decorati per guardare di fuori in qualunque momento e vedere le stelle morire. È una vacanza forzata. In effetti, è il mondo intero che è andato in vacanza.

    No, non è vero, aveva detto qualcun altro con impeccabile accento inglese. Sentirlo mi sorprendeva sempre, anche se non sapevo perché: l’Inghilterra non era poi così lontana. Di questo si tratta; l’universo ha dato le dimissioni.

    La miglior descrizione sentita finora, decisi. L’universo ha dato le dimissioni.

    – Ehi, Jess. – Sentii Jim piombare sulla sedia accanto a me. – Guarda cos’ho trovato.

    Aprii gli occhi. Teneva in mano un ventaglio di cartoline lucide come se fosse una mano vincente di poker. Scheveningen e l’Aja com’erano state un tempo. Gliele presi, le guardai attentamente una per una. Se non si fosse saputo il contrario, guardando quelle sarebbe sembrato un mondo felice.

    – Dove le hai prese?

    – Un po’ più su – disse facendo un gesto vago sopra la spalla. Andava un po’ più su parecchio di quei tempi, recuperando frammenti di questo e di quello, riportandoli a me come se fossero piccoli tesori inestimabili. E forse lo erano davvero: ricordini di una civiltà scomparsa. Poiché da parte mia appartenevo alla scuola del perché disturbarsi, preferivo starmene a vegetare in poltrona.

    – Un ragazzo ne aveva un mucchio. Le ho barattate con quella lattina di birra che avevo trovato. – Si lisciò la barba con le dita allargate. – Forse potrà scambiarla per qualcosa di utile. E se non ci riuscirà, magari potrebbe riempirci una pistola ad acqua.

    Cosa sarebbe stato utile, ora che l’universo aveva dato le dimissioni? Pensai di comporre una lista sul retro di una delle cartoline. Vestiti. Riparo. Qualcosa per tenerti occupato mentre aspettavi che la prossima stella si spegnesse – un puzzle in scatola, forse. Ma Jim non tornava mai con roba del genere, e io non ero abbastanza ambiziosa per cercarmelo da sola.

    La me stessa precedente, che viveva solo per la carriera, mi avrebbe giudicata con una certa ironia. Ma ora potevo finalmente capire che tutta quella voglia di fare non avrebbe cambiato nulla. Alla fine, non facevi che picchiare il pugno sull’universo e poi ti accorgevi che non avevi lasciato neppure un’ammaccatura, non parliamo poi di rimodellarlo. Abbastanza stranamente, questa consapevolezza mi dava pace.

    Una pace che sembrava essere calata intorno a me. L’Olanda, o almeno quella parte di Olanda, era silenziosa. Tutte le trasmissioni radio e televisive sembravano costantemente disturbate – il resto del mondo sarebbe anche potuto bruciare, per quel che ne sapevamo, e noi essere capitati per caso in una zona tranquilla. Per un puro capriccio del fato, grazie a un’offerta speciale che la nostra agenzia di viaggi forniva in quel periodo. Com’è che siete finiti in Olanda? Oh, avevamo un buono.

    Passò un ragazzino con un enorme stereo portatile dal quale strombazzava una canzone anche troppo familiare sulla fine del mondo come noi lo conosciamo e mi sento bene. La reazione della gente seduta ai tavoli fu spontanea e unanime. Cominciarono a tirargli addosso della roba, pezzi di brocche, tazze, lattine, bottiglie di plastica e qualunque cosa avessero a portata di mano, gridandogli di sparire in una moltitudine di lingue diverse.

    Il ragazzo rise forte, gridò una oscenità in olandese e attaccò a correre sul lungomare, tenendo saldamente stretto al petto il suo stereo portatile. Missione compiuta: i turisti erano stati di nuovo scocciati. L’uomo al tavolo accanto si era mezzo alzato in piedi e ora si sedette di nuovo con un sorrisetto imbarazzato. – Volevo solo chiedergli dove aveva trovato delle pile che funzionavano. Mi piacerebbe molto riascoltare il mio lettore di CD. – Incrociò il mio sguardo e disse: – Tanto mica potevo fargli male, giusto?

    Jim non stava seguendo. Teneva la mano destra appoggiata sul tavolo, il palmo rivolto in alto, e si incideva studiatamente il cuscinetto sotto il pollice col bordo di una cartolina, praticandosi lunghi tagli inclinati.

    – Vorrei che non lo facessi – gli dissi.

    – Affascinante. Davvero affascinante. – Seguì ogni taglio con un dito. – Nessun dolore, assolutamente niente. Niente sangue e niente dolore. Non riesco proprio ad abituarmici.

    Guardai l’oceano privo di orizzonte. Da dov’ero seduta vedevo chiaramente la torre del molo circolare che svettava a diverse decine di metri dalla spiaggia, e la donna che si era impiccata alla ringhiera presso la cima. Il suo corpo nudo ruotava pigramente, confermando che il pianeta continuava a girare. Mentre guardavo, lei sollevò un braccio e salutò qualcuno sulla spiaggia.

    – Be’ – dissi – che ti aspettavi dalla fine del mondo?

    – Davvero, non dovresti sfigurarti – dissi mentre passeggiavamo verso l’albergo che occupavamo abusivamente. Se davvero si poteva definire un albergo: non c’era da pagare per il soggiorno, nessun servizio e nessuna comodità. – Lo so che non fa male, ma nemmeno guarisce. Ora hai dei tagli permanenti, che oltre a non essere particolarmente piacevoli da vedere, probabilmente ti si impiglieranno dappertutto.

    Jim sospirò. – Lo so. Mi annoio.

    – Certo. – Risi. – Hai passato gli ultimi vent’anni a dire che avrei dovuto imparare a fermarmi ad annusare le rose e ora sei tu quello che si lamenta di non avere nulla da fare.

    – Quando hai annusato una rosa abbastanza a lungo, perde il suo profumo. Allora devi trovarti un fiore diverso.

    – Be’, l’automutilazione è diversa, questo te lo concedo. – Superammo un giovanotto vestito di pelle con una scheggia di specchio di forma irregolare conficcata in fronte. – Anche se forse non tanto diversa da prima, visto che sta cominciando a prendere piede. Secondo te lui che cosa annusa?

    Jim non rispose. Arrivammo al vialetto circolare che chiudeva la strada davanti al nostro albergo e che aveva effettuato la transizione da parcheggio per motociclette a cimitero per motociclette. D’impulso presi la mano tagliata di Jim mentre attraversavamo il vialetto. – Immagino sia la natura della fine dei tempi o quel che è, e il mondo non è mai stato un posto terribilmente ordinato. Ma adesso non c’è più nulla che abbia senso. Perché ci sono ancora il giorno e la notte? Perché la terra continua a girare?

    – Smaltisce la carica – disse Jim con voce assente. – Non c’è motivo perché debba succedere di colpo. – Si fermò in mezzo al marciapiede di fronte all’albergo. – Ascolta.

    C’era un lontano clangore metallico, ruote pesanti sui binari. – Sono solo i che tram funzionano di nuovo. Ecco un’altra cosa… perché l’elettricità funziona in alcuni posti e in altri no?

    – Che? – Jim mi fissò battendo le palpebre, poi guardò nella direzione generale della stazione dei tram. – Oh, quello. Non era ciò che intendevo. C’è una cosa che ultimamente mi sto chiedendo… – si sentì sferragliare mentre un tram superava l’incrocio delle strade – …perché non ci siamo mai sposati?

    Parlando di cose che ormai non sembravano più tanto importanti… non era la prima volta che saltava fuori quell’argomento. Ne avevamo discusso a più riprese nel corso del tempo, ma dopo diciotto anni insieme la faccenda aveva perso ogni possibile urgenza, se mai c’era stata. Adesso, sotto un cielo vuoto davanti a un albergo di lusso dove gli ospiti erano diventati squatter, sembrava proprio la più infima delle cose evanescenti di cui era stata piena la mia vita, come il prestigio sociale, la carriera e i beni materiali. Sarei potuta essere la femmina di una tribù primitiva che accumulava pietruzze luccicanti, per la differenza reale che avevano fatto quelle cose. Non mi avevano dato altro che qualche fugace momento di piacere; anzi, semmai mi avevano tolto qualcosa nei termini della fatica che avevo fatto per ottenerle, accudirle, mantenerle linde e intatte. Specialmente il prestigio e la carriera. E di certo non avevano impedito al mondo di finire, non più di quanto avrebbe fatto il nostro essere sposati.

    Ma ero così sicura di ciò che Jim volesse sentire che riuscivo praticamente a percepire le parole che si disponevano nell’aria in mezzo a noi, in attesa che io dessi loro voce. Be’, tesoro, andiamo a trovarci un prete e sposiamoci seduta stante. Aggiungi il suono e agita l’aria finché non si addensa. E poi…

    Poi cosa? Non era come se avessimo ancora un futuro davanti, insieme o singolarmente. L’oceano non aveva neppure un orizzonte.

    – Secondo me siamo sposati – gli dissi. – Penso che due persone che assistono alla conclusione del mondo siano sposate in un modo che finora non esisteva.

    Sarebbe dovuta essere la cosa giusta da dire. Invece suonai come un politico che spiegava come in verità un aumento delle tasse non fosse affatto un aumento delle tasse. Dopo due decenni avrei dovuto saper fare meglio di qualche subdola parola zuccherosa, fine del mondo o no.

    Allora dilla. L’altra cosa, quella che lui si aspetta. Che differenza fa? La domanda a cui prima dovevo rispondere, forse la domanda che in effetti mi stava ponendo Jim.

    Le labbra dei tagli che si era fatto alla mano mi solleticarono la pelle. Sembravano le branchie di una creatura marina fuori dal suo elemento, che chiedeva di essere ributtata in acqua.

    Nessun dolore. Niente dolore e niente sangue.

    Tanto mica potevo fargli male, giusto?

    Giusto. È la fine del mondo come noi lo conosciamo, e non sento un accidente. Quindi ora possiamo andare avanti, fare tutte quelle cose che prima erano così pericolose. Automutilazione, rituali vincolanti, ognuna delle vecchie, pericolose trasgressioni.

    Gli occhi di Jim sembravano di vetro.

    – Meglio entrare adesso nell’atrio, se la volete vedere.

    Era il Fantasma delle Vite Passate; così l’aveva soprannominata Jim. Si teneva a rispettosa distanza da noi, una bionda dolorosamente magra in tutù bianco sporco e scarpette da ballerina di satin rosa. La cosa più stridente di lei non era quello sciocco costume o il modo in cui continuava a spuntare dovunque e in qualunque posto, ma la faccia: aveva le rughe profonde di chi aveva vissuto settanta anni molto difficili. Sui bordi del mento e della mandibola la pelle aveva un aspetto bizzarramente affaticato, come se qualcuno gliela tenesse tesa e allungata.

    – La crocifissione – proseguì lei, poi fece una risatina squillante. – Probabilmente lo tireranno giù presto, perciò se volete dargli un’occhiata è meglio che vi sbrighiate. – Il suo sguardo scivolò via da noi e lei si allontanò, come se avesse sentito qualcuno che la chiamava.

    – Sei dell’umore per una crocifissione? – dissi in tono leggero. Qualsiasi distrazione era un sollievo.

    – Non se possiamo evitarlo.

    Ma non c’era modo di riuscirci. Facendoci strada a spintoni tra la piccola folla assiepata nell’atrio, non potemmo fare a meno di vederla. Riconobbi vagamente l’uomo inchiodato direttamente al muro – uno degli ex milionari degli appartamenti all’ultimo piano. Era nudo a parte un’ampia sciarpa di seta intorno ai fianchi e un collare o cintura borchiata legata al contrario sulla fronte a mo’ di corona di spine. Niente sangue, naturalmente, ma faceva del suo meglio per sembrare che stesse soffrendo.

    – Santo dio – bisbigliai a Jim – spero proprio che non diventi una moda.

    Lui rispose con un breve sbuffo nauseato. – Vado di sopra. – In qualche modo, avevo la sensazione che non fosse la crocifissione ciò che lo disgustava. Avevo intenzione di seguirlo, ma improvvisamente mi sentii inchiodata sul posto come quell’aspirante Gesù Cristo. Non che nutrissi un vero desiderio di restare lì e assistere a quello spettacolo

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