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Nel Pozzo
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Nel Pozzo

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Senza una causa apparente, un raptus e un momento di follia trasformano pacati uomini in efferati assassini. Tore Marzeddu è dolce, forte e sincero, ma la vita lo porta a contatto con la sua natura nascosta, il pozzo oscuro di cui è contemporaneamente artefice e vittima. Sarà il suo “alleato spietato” a misurarsi con le perfide donne che hanno reso la sua vita un inferno ed è così che  disistima, dolore, rancore e odio prendono il sopravvento, emergendo dal profondo dell’oscuro pozzo. L’azione, la fuga, la latitanza, un amore perduto, un figlio inatteso e il carcere come conseguenza trasformeranno il fabbro di Villamargo in un eroe sconsacrato, senza speranza, senza futuro. Ma la corsa della vita non ha mai fine e in vecchiaia Tore si prepara a tornare in un mondo che non l’ha mai accettato e che ora è talmente cambiato da apparirgli ostile e pericoloso.
LanguageItaliano
Release dateJul 10, 2017
ISBN9788893371728
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    Nel Pozzo - Antonello Soriga

    carcere.

    1

    Buoncammino, 1994

    La Casa Circondariale di Buoncammino è un antico carcere costruito alla fine dell'Ottocento e situato in una delle più belle colline che coronano Cagliari; certo, è un carcere con i computer, la biblioteca e i laboratori, ma umido, freddo che al solo ricordo mi tornano i brividi, si riacutizzano i dolori alla cervicale. Mi viene la pelle d’oca al pensiero di dover dividere la cella con altri sei carcerati che ti fanno passare la calotta, come fra i militari, una specie di gerarchia interna alla cella e poi a tutto il carcere. I detenuti mafiosi sono i più pericolosi, perché in prigione hanno un potere quasi illimitato, talvolta anche sulle guardie che obbediscono a ordini che passano misteriosamente di bocca in bocca, ma sarebbe giusto dire di mano in mano, tramite piccoli biglietti anonimi, scritti in stampatello, che contengono semplici prescrizioni da eseguire con puntualità e da tutti, in qualunque momento.

    Quando sono arrivato a Buoncammino, con la condanna definitiva a trent’anni, pensavo che gli altri avessero paura di me, che pensassero di dover stare alla larga da uno capace di scannare chiunque a sangue freddo: mi illudevo. Il carcere è un mondo a parte e, quando il portone d’ingresso si chiude, è come entrare in una dimensione parallela dove ragione e logica sono interpretazioni mediate dal potere, dai vincoli espliciti e impliciti, ma soprattutto dalla legge non scritta, perfettamente efficiente e codificata, fatta di bigliettini, sguardi, rituali e codici di comportamento.

    A Buoncammino, in quegli anni, regnava l’ordine di don Antonino Martisano, che tutti chiamavamo don Nino. Per mia fortuna sono sardo e certi usi li avevo appresi nel mio paese, Villamargo, dove il codice d’onore, il rispetto per gli anziani e i potenti te lo inoculano nel sangue, lo impari bevendo il latte materno, insieme con il rispetto della famiglia e del suo capo.

    Ricordo che quando arrivai, quella sera di luglio del 1994, scesi dal cellulare e capii subito che da quel posto sarei dovuto andare via prima possibile. Fare gazzarra o oppormi alle regole, soprattutto a quelle non scritte, non mi avrebbe fatto vivere bene. Avevo già scontato alcuni mesi di pena a Badu e Carros, nel Nuorese, il periodo in cui mi processarono per direttissima, ma lì non avevo avuto il tempo di comprendere a fondo i meccanismi e le regole non scritte. A Buoncammino, al contrario, sono rimasto più di cinque anni e quelle regole le ho imparate poco alla volta, spesso a mie spese.

    Quando entrai in cella, gli altri cinque occupanti non mi degnarono nemmeno di uno sguardo. Il letto che mi avevano assegnato era il primo in basso della fila destra, dentro una cella in cui, se si stava in piedi tutti insieme, lo spazio non bastava.

    «Don Nino ha detto che da oggi posso stare io nel primo letto, quindi tu stai al terzo piano» mi disse Jimmy con cadenza sardo-bresciana, come imparai a conoscerlo in seguito.

    Non fiatai e presi la scaletta per salire al terzo letto del castelletto, per mettere al sicuro la mia poca roba.

    «Piccoletto, non ti sai arrampicare?» disse secco quello. «Non lo vedi che qui non ci si sta? Bogandi cussa cazz’è scaba, non du bisi ca bastada unu troddiu po’ arribbì su logu?» [1].

    Jimmy era sardo, anzi sardissimo, di Guspini, nell’alto Sulcis, ma aveva vissuto a Brescia per dieci anni e aveva preso cadenza e parlata del luogo, come spesso capita ai meridionali emigrati. Un chiaro segno di minorità culturale autoindotta. Jimmy era dentro per spaccio di stupefacenti anche se lui, come diceva orgoglioso, di quella merda non ne aveva mai toccato. Era in carcere, in un certo senso, per compiacere don Nino. Quando stava a Brescia era uno dei picciotti al soldo di Cosa Nostra.

    «Una sera» mi aveva raccontato Jimmy «mi arrivò un biglietto sporco e stropicciato che diceva con grafia malferma: domani vai in carcere, ma non ti preoccupare, vieni a casa mia! Capii subito» continuò Jimmy «che serviva un diversivo per far entrare nel Milanese un grosso carico di coca. Talvolta è necessario dare uno zuccherino ai caramba, perché possano fare un bello spot in TV e far vedere che ci sanno fare con la lotta al traffico di droga. Mi feci prendere in un posto di blocco a Gallarate con due chili di fumo e tre chili e mezzo di coca, nascosti nel vano motore di una Renault rubata la sera prima. Il risultato furono cinque anni da scontare in un carcere sardo, ma dal mio arresto» proseguì orgoglioso «il mio conto svizzero ha sei zeri e miei figli frequentano il miglior liceo di Varese: don Nino sa ripagare gli uomini fedeli...» gongolò. «I giornali e i telegiornali parlarono per due giorni di una brillante operazione che bloccava lo smercio di coca nel Milanese e, mentre questo accadeva, don Nino faceva arrivare un tir dalla Francia carico di oltre venti quintali di roba, senza che a nessuno gliene fottesse nulla. Un modo come un altro per distrarre i cani da guardia» sentenziò Jimmy.

    Anche dopo un lungo periodo, quando oramai eravamo in confidenza, Jimmy non aveva perso il suo accento bresciano. Con me si sforzava di parlare in italiano, non ho mai capito perché, comunque mi dava un certo fastidio. Il malessere si faceva più intenso quando mi rendevo conto che anche io, quando parlavo con lui, tendevo a moderare la mia naturale cadenza campidanese. Non ho mai sentito il contrario: un settentrionale che, trasferitosi in Sardegna, prendesse la nostra cadenza. Al massimo ho sentito alcuni che hanno imparato il sardo come si apprende una lingua straniera ma poi, quando tornano all’italiano, le loro origini prevalgono, riprendono il posto che devono avere, e parlano con cadenza milanese, torinese o bresciana... Ma i sardi no! La schiavitù e la dipendenza, la rinuncia a una identità fatta anche di parlata, mimica, usi, tradizioni, mentalità, modelli di vita si vede e si sente anche da questi piccoli, grandi segnali che in parte spiegano molte assurdità della nostra storia, come le rinunce, le invasioni territoriali continue, le lacrime e il sangue versati nelle trincee di guerre che non appartenevano al popolo isolano, o il rapporto che ancora oggi lo Stato ha con le nostre inette amministrazioni locali, rinchiudendoci immancabilmente nel recinto degli ultimi, alla stregua di una colonia fastidiosa e aliena.

    Di Badu e Carros ricordo poco, perché per i mesi che vi trascorsi mi tennero in isolamento, in attesa di giudizio. Ero reo confesso, per cui il dibattimento fu celere e la condanna arrivò con i clamori della cronaca e accompagnata dagli articoli di rito, ignoranti, introdotti da titoli a caratteri cubitali sulla Voce Sarda e sul Sardegna Nord. La Giustizia aveva assicurato alle patrie galere un nuovo, efferato assassino. Anche il processo lo ricordo molto vagamente perché, un po’ per tenermi buono, un po’ perché, forse, in quei giorni non ci stavo molto con la testa, mi riempirono di psicofarmaci, tanto che anche durante la mia deposizione ricordo una fitta nebbia fra me e il banco del giudice, dei giurati, del pubblico ministero, una donna che strideva con una vocina da rapace spennato. Ma, su tutto, ricordo lo sforzo - quasi sovrumano - per rispondere tenendo ferme le mani che si muovevano in continuazione, come se avessi il Parkinson.

    Il mio avvocato d’ufficio, donna, giovane e inesperta, praticamente non aprì bocca e forse non aveva neppure letto le carte del processo, tanto scontata era la condanna al massimo della pena. Nei momenti in cui mi trasferivano dalla cella al Tribunale camminavo con difficoltà, dopo notti trascorse a rigirarmi nel letto. Nonostante i mesi di latitanza nel Supramonte, ero ancora alle prese con il tentativo vano di ricostruire ciò che era realmente accaduto. Riempivano i miei occhi il sangue, gli sguardi, le urla, l’odore acre, un misto fra sudore, saliva ed escrementi, come un film dell’orrore che ripete all’infinito le stesse scene al rallenty, senza una trama, un ragionamento, un dialogo, un movente plausibile. Una sequenza insensata che non comprendeva me fra gli attori, ma qualcun altro che interpretava un altro me stesso, che io vedevo agire dall’esterno, le cui movenze mi erano familiari, ma i comportamenti estranei, inusuali, anche se, quell’altro me, aveva la mia faccia, le mie spalle, i miei occhi, mentre commetteva atti orribili che io non avrei mai commesso.

    Come era cominciato ad accadere nella mia infanzia, fu un semplice click ad attivare un meccanismo di cui non ero né consapevole né forse, in ultimo, pienamente responsabile.

    L’unica certezza che ebbi al termine del processo, fu che sarei uscito dal carcere dopo trenta lunghi anni, alla bella età di sessantaquattro, senza aver davvero ancora vissuto una vita autonoma e vera.

    Giulia, la mia dolce Giulia che non c’era più, se ne era andata, scomparsa come il sogno che l’aveva portata nella mia vita, improvvisamente, dando alla luce Aldo.

    Quando sentii il Giudice pronunciare la sentenza di condanna, fu la prima cosa che pensai: Quando uscirò, Aldo sarà adulto e io un vecchio.

    2

    I primi giorni a Buoncammino furono difficili; per la paura di sbagliare qualcosa stavo zitto la maggior parte del tempo, rispondendo per monosillabi se necessario, poi, pian piano, capii che il trattamento iniziale faceva parte del regolamento non dichiarato e che don Nino, che pure stava addirittura nell’ala opposta a quella in cui stavo io, dava disposizioni anche interne, per far star comodi i suoi fedeli. Mi resi conto presto che, se volevo star bene, sarei dovuto entrare nella cerchia di protezione del boss che scontava l’ergastolo con il 41 bis, quello del carcere duro, anche se tutti sapevano che mangiava in cella servito dai suoi fedeli, con cibo che proveniva da uno dei migliori ristoranti di Cagliari. Allo stesso modo tutti erano al corrente del fatto che i suoi pizzini arrivavano a destinazione, di fianco alla sua cella, come a Cagliari, a Palermo, a Milano o a New York. Senza il suo permesso nulla si poteva modificare e talvolta anche se gli ordini del giudice di sorveglianza o del direttore disponevano diversamente, don Nino decideva secondo la sua volontà.

    Il dottor Palla dirigeva Buoncammino da una decina d’anni: alto, il viso perennemente assonnato, l’aria del buon bevitore, ti guardava da dietro occhiali dalla montatura pesante, anni Sessanta, con lenti spesse da miopia degenerativa. Dirigeva il carcere dal suo ufficio, nella palazzina della direzione, dove stavano, appunto, direttore e dirigenti vari che raramente facevano la loro comparsa nei bracci e solitamente, quando accadeva, venivano ben scortati dalla polizia penitenziaria di turno.

    Il vicedirettore era invece una donna, la Direttrice, come amava farsi chiamare, correggendo chiunque usasse il maschile. Lei sì, che era un vero serpente velenoso senza infingimenti. Tutti stavano alla larga perché sapevano che era un’ignorante protetta da qualche politico in quota al ministero degli Interni, per cui intoccabile. Lei lo sapeva, e quando probabilmente aveva il ciclo o il marito (spero) le faceva le corna, passava nei bracci, scortata dal capo delle guardie, con lo sguardo sadico di chi deve sfogare una frustrazione o la rabbia repressa e se la prendeva con il primo che osava incrociare il suo sguardo. Il dottor Palla no, di lui si diceva fosse uno che vive e lascia vivere, ma la verità è che probabilmente don Nino arrivava anche da lui o meglio al suo conto bancario. «Non fidarti» mi aveva detto Jimmy, quando dopo mesi entrammo in confidenza e anche io facevo oramai parte della cerchia dei protetti di don Nino. «Sembra dorma, ma ha occhi e orecchi dappertutto».

    Buoncammino ti educava con i suoi ritmi, il senso di angoscia perenne misto alla noia, il problema costante del riempire giornate lunghe come settimane, mesi, per cui anche la più piccola variazione dei ritmi, dei rituali della mensa, dell’ora d’aria, poteva significare spezzare il basso continuo che delimitava la tua percezione del mondo. Una di queste era sicuramente il gridofono.

    La sera, soprattutto durante la primavera e l’estate, c’era, appunto, il gridofono del quale beneficiavano i più fortunati, che avevano la cella a occidente, che dava sul colle meno lontano dalle finestre. Lo chiamavano tutti così perché era una sorta di passaggio d’urla dalla collina al carcere. Talvolta le gabbie si passavano la linea nel caso in cui qualcuno fosse richiesto e lo avessero, per una ragione o per l’altra, trasferito di cella. Si sentiva di tutto e le comunicazioni erano apertamente pubbliche: amici, fidanzate angosciate, complici scampati alla cattura, si alternavano per alcune ore, urlando a perdifiato per comunicare con questo o quello, dare novità, persino anticipare sentenze di cui avevano avuto notizia. Le più affezionate al gridofono erano le donne del quartiere Sant’Eufrasia di Cagliari, ghetto storico della città i cui abitanti erano abituali frequentatori delle patrie galere. In particolare ricordo una grossa matrona che aveva nella stessa cella padre, marito, due figli e un nipote: praticamente gran parte della stirpe vivente dei Randazzu fiara arreguara [2] - come diceva lei - e che, ogni sera, veniva a ragguagliare la famiglia su come andavano gli affari. Per implicita necessità, questi erano ora tutti sulle sue spalle: figli, marito, padre e nipoti erano dentro per diversi motivi, dal furto aggravato allo spaccio, dallo sfruttamento della prostituzione alla truffa. La rinomata azienda di casa aveva tenuto in piedi tutte le attività e ora facevano capo a signora Concetta. Lei, armata di panciona, gonna con i fiori e pappagorgia, una sera sì e una no, gridofonava ai parenti migliorie e problemi, nuovi assunti e prossimi arrivi in cella di affiliati o parenti che erano stati presi, diciamo, nell’esercizio delle loro funzioni .

    Io, a volte, ascoltavo ammirato tutte le conversazioni, che, d’estate, arrivavano con il sottofondo musicale della movida o del teatro all’aperto che sta proprio di fronte al carcere, ed erano decisamente più avvincenti delle telenovelas brasiliane o in generale dei demenziali programmi televisivi estivi. Quando poi, verso la mezzanotte, le voci cessavano, capitava che non riuscissi a chiudere occhio. Per me non arrivava mai nessuno a gridofonare, né in cinque anni qualcuno si era presentato a farmi visita. Quando le voci dalla collinetta cessavano e venivano mandati gli ultimi saluti, la tristezza mi veniva incontro come un liquido melmoso, lento, silenzioso, ma denso e persistente. Il silenzio veniva interrotto solo dalle squadre di punizione di don Nino o dai rumori della strada che, anche se lontana, arrivavano fino al terzo piano del mio letto a castello, con bagliori che rilucevano sul soffitto della cella, quasi a ricordare che fuori c’era un mondo, fatto di colori, persone, rumori, vita e lì invece solo il buio, la solitudine, il silenzio e l’umido.

    Sentivo come una barriera che ispessiva le sue pareti progressivamente e accadeva che attraverso questa, talvolta, filtrassero domande a cui non sapevo rispondere e questioni che rimandavo dentro di me, in attesa di giudizio, per una vita vissuta male, che sicuramente non avrei dovuto e voluto condurre in quel modo.

    Cinque anni dietro quelle sbarre che in fondo nascondevano un cielo sempre uguale in tutte le stagioni e anche quando raramente pioveva o c’era la nebbia, il cielo si intravedeva a malapena e il freddo, anche nelle estati afose, ti rimaneva appiccicato nella pelle, penetrava nelle ossa come una punizione aggiuntiva. La vita è una lunga strada fatta di salite e discese, curve e rettilinei; il destino pone dei bivi da cui non si può tornare indietro e, presa una strada, la si percorre. Buche, fosse e precipizi compresi.

    3

    Villamargo, 1974

    A tredici anni frequentavo la seconda media da respinto, dopo aver ripetuto in passato la quarta elementare. La scuola era stata costruita su una piccola altura artificiale da cui si potevano ammirare tutto il paese e la campagna circostante. La prima volta che mi portarono lì, mi sembrò quasi un bel posto, sebbene dentro l'edificio regnasse un costante odore di muffa misto a quello acre dei disinfettanti che il bidello usava, evidentemente, per estirpare la puzza di vecchio e stantio che la De Amicis sembrava aver acquisito di diritto fin dalla sua costruzione: il suo cuore non era quello erudito dello scrittore a cui

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