Voci lontane dal mio Polesine
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Voci lontane dal mio Polesine - Silvano Turcato
fantasma
Il Polesine di Silvano Turcato
di Mario Pavan
È questo il secondo libro, dopo Sì, è possibile
, questo Voci lontane dal mio Polesine
di Silvano Turcato. Egli, figlio dell’ubertosa e unica terra del Po, quasi una seconda piccola-grande antica Mesopotamia, per la sua configurazione morfologico-geografica, ritorna dopo decenni e decenni a ri-parlarsi e a ri-parlare delle sue origini, dei suoi affetti e della lontananza obbligata dalla sua patria
, intesa etimologicamente come terra dei padri, o meglio: terra natale
.
Ora, a distanza di mezzo secolo e più, l’autore quasi si fa interprete di tanta gente che dal Po e dalle sue terre aveva avuto tutto ma che aveva pure sofferto per le sue piene e la sua storica
alluvione del 1951. Turcato, come il grande scrittore e suo conterraneo (e amico di chi scrive nei bei tempi in diversi concorsi letterari e giurie) Gianantonio Cibotto, ripropone il suo
Polesine, riporta in giusta luce questa terra. Terra incuneata tra un Veneto troppo spesso ancora dimenticato e la provincia emiliana di Ferrara, quasi immersa tra sponde, insenature, pianure infinite e Eden di una natura selvaggia, scandita dal ritmo delle nebbie autunnali, dagli inverni dalle lame di ghiaccio ma pure dal frinire incessante delle cicale. Erano, queste ultime, vere estati interminabili di un sole cocente e segnate dalla presenza quotidiana di schiene curve di tanti, piccoli e grandi, uomini e donne impegnati tutti a guadagnarsi il pezzo di pane quotidiano. Potrebbe sembrare retorica, ricerca di un mondo intimistico perduto, quella di Silvano Turcato, ora maturato
in età e cresciuto nei verdi profili collinari di Marostica e dintorni (la zona – rifugio definitiva, originaria della madre e scelta dalla sua famiglia dopo l’alluvione del Polesine del 1951 e dopo altri forzati trasferimenti intermedi), invece, non lo è. Perché l’autore stesso allarga i suoi ricordi, adesso sviluppati, mentre, da bambino, li aveva soltanto fotografati nella mente e nel cuore: li rende, in queste pagine, da interiore saga familiare a dramma di tanti, allora, e rende la sua storia pagina di Storia.
Ripercorre quel periodo di dolore, di sofferenza, di immigrazione obbligata quasi attuale, in questo nostro mondo di continui esodi biblici, rivanga, però, anche lo sforzo di ri-costruzione, di una sana e vigorosa volontà politica e sociale di un Paese come l’Italia repubblicana, un Paese che ebbe, sempre in quegli anni decisivi, alcuni statisti degni di questo nome (e che oggi rimpiangiamo!) come Alcide De Gasperi .
E questo non è poco in un oggi povero di verità, di unità, che brancola alla ricerca di Valori, un oggi anche se ricco , dopo tante tappe raggiunte con conquiste economiche non sempre condivisibili.
Sì perché emerge, come dal grande fiume in piena, anche il valore della condivisione, della solidarietà, di una religiosità intrisa di umanità, di tanta umanità, da questi sette racconti che compongono il libro.
Un libro da leggere, da far conoscere davvero: gli anni che intercorrono dal 1946 al 1958 in terra polesana sono qui riassunti e ri-vissuti ma con la saggezza della tarda maturità e il senso di un equilibrio che non guasta. Mai.
Mario Pavan*
* Vicentino, un passato da docente di Lettere nella scuola superiore, amministratore comunale e presidente del consiglio scolastico provinciale, giornalista e autore.
Conferenziere, poeta e studioso delle più importanti figure storico-letterarie del XX secolo, ha alle spalle una ventina di libri pubblicati.
Il prof. Pavan è anche autore delle note a piè di pagina.
La grande alluvione
Le notizie che ci pervenivano dal basso Polesine non portavano niente di buono. Anzi, esse davano per imminente il cedimento degli argini del Po dalle parti di Occhiobello. L’imprevisto pericolo aveva consigliato a mio padre e a mia madre di accamparsi, con gli altri abitanti della nostra contrada, sulla parte più elevata dell’argine del fiume. Quello spiazzo garantiva una certa sicurezza nell’eventualità di venire insidiati, soprattutto di notte, dall’onda traditrice, in caso di esondazione del Po. Ma neppure l’Adige, con il quale convivevamo, gomito a gomito, ci permetteva sonni tranquilli: l’acqua continuava a scorrere, vorticosamente, in direzione del mare, trascinandosi dietro, probabilmente fin dall’alta montagna, tronchi d’albero e confusi ammassi di sterpaglie.
L’acqua del fiume era di un colore marrone limaccioso, ancora più intenso del solito. Ad esso attingevamo per lavarci e bere, senza nemmeno preoccuparci della sua sterilizzazione, che avremmo ottenuto con l’ausilio di un pentolino predisposto sopra un focherello improvvisato, alla stessa maniera di come si cuocevano le povere vivande.
Ci s’industriava alla meglio, là, sull’argine, con l’installazione (per chi lo poteva) di una qualche copertura di fortuna, che ci aiutasse a passare la notte. Un materasso, che, nelle loro intenzioni, i miei tentavano di isolare, alla meno peggio, con dei rami di pioppo dal contatto con il terreno fangoso, e una consunta coperta di lana erano quanto ci ricordavano il già magro arredo delle nostre camere da letto: povere cose, finchè si vuole, ma ci aiutavano ad avvertire un po’ meno i rigori del freddo pungente e umido novembrino.
Un ferro, ben impiantato nel terreno fuori dall’improvvisato capanno, e una corda annodata ad una zampa posteriore assicuravano che il maiale non scappasse. Un piccolo recinto, anch’esso improvvisato con dei paletti di legno conficcati per terra, ai quali veniva fissata una parvenza di rete metallica arrugginita, impediva alle poche galline sopravvissute che prendessero altre strade. Il resto delle poche masserizie, di cui disponevamo, rimaneva al suo posto, all’interno della povera casetta, tutta a mattoni di un rosso annerito.
Mio padre vigilava, soprattutto nelle ore notturne, con l’intento di scongiurare la visita di un qualche sciacallo. E si sperava, in cuor nostro, di non vedere mai apparire, all’orizzonte, dall’alto dell’argine, un luccichìo tremolante, sinistro presagio del temuto arrivo di quell’acqua di provenienza dal Po.
Adesso che sono adulto e non vedo più con gli occhi di un bambino, mi viene spontaneo accostare la visione di quella umanità dolente, raccolta sull’argine del mio fiume, a quelle che si leggono nella Bibbia. E, come quelle moltitudini descritte nel sacro libro, costrette ad un continuo peregrinare, anche la mia gente si apprestava, forse a sua insaputa, a conoscere il proprio esodo: sparpagliati, come siamo stati, di fatto, in ogni angolo di tutta l’alta Italia.
***
Antonia C.*** !
– gridava un uomo non più giovane, che cercava di farsi largo tra la folla impaurita. E mia madre, più impaurita ancora, nel sentirsi lei la destinataria di quell’invito a rispondere, era titubante a presentarsi. In cuor suo, temeva rivelazioni sinistre. Esitava, quindi, a rispondere. Al che l’uomo, quasi spazientito, tornò a riformulare la domanda:
Antonia C.***, chi è?
.
Ancora silenzio. E, interrogando i volti stralunati di coloro che gli stavano attorno, quello ritornò a riformulare con più decisione la domanda, nella certezza che qualcuno, finalmente, l’avrebbe indicata:
Ma voi la conoscete la signora Antonia C.***?
.
Finalmente mia madre vinse l’attimo di esitazione e si presentò. E con decisione:
Sono io. Che volete?
Mi manda vostra madre, la Annetta. Sono venuto con un camion per portarvi su, a Nove. Avete dei bambini ancora piccoli …
Io non ho paura per me: qui sono al sicuro con i miei figli. Andate, piuttosto, a prendere mia sorella, la Linda, che è in aperta campagna.
Mia madre aveva risposto con un tono così convincente che l’uomo non ebbe motivo di replicare. Quello se ne andò, dopo un veloce saluto di circostanza, che era ancora buio, in aperta